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Con la speranza che non finisca come a San Giuliano

9 aprile 2009 0 commenti

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San Giuliano di Puglia è un comune in provincia di Campobasso, in Molise. Il 31 ottobre 2002 il paese fu scosso da un terremoto di 5,4 gradi della scala Richter, scossa che provocò la morte di 27 bambini e di un insegnante nella scuola elementare Francesco Jovine. Circa un centinaio furono i feriti, circa 3000 gli sfollati (non solo di San Giuliano). Dopo oltre sei anni, chi va oggi a San Giuliano vede ancora un paese distrutto, moltissime le costruzioni su cui non sono neppure iniziati gli interventi di restauro e consolidamento, molte quelle ancora transennate o segnalate come pericolanti. E intanto la gente vive nel villaggio delle casette di legno realizzato dirimpetto al paese. Villaggio che ha trasformato strutture provvisorie in permanenti e nessuno sa o può dire per quanto.

Non si tratta di far polemiche politiche, disgustose in circostanze quali quelle che stiamo vivendo, ma gli osservatori più attenti nelle parole dette a L’Aquila dal Governo in questi giorni di tragedia hanno riconosciuto dichiarazioni identiche a quelle pronunciate a San Giuliano nel 2002: interventi immediati, ricostruzione rapida (24 mesi si promise), certezza della presenza dello Stato anche dopo le emergenze. Giustamente poi la gente di Giuliano si oppose alla soluzione Gibellina, cioè all’abbattimento del vecchio paese per ricostruirne uno nuovo, e tutti sposarono la soluzione Gemona delFriuli, cioè della ricostruzione in loco, del recupero di quanto si poteva recuperare. Ora non si tratta di attribuire colpe o responsabilità, che certo non possono essere tutte solo di governi che dal 2002 si sono succeduti, ma è un dato oggettivo che ad oggi dei 1135 abitanti di San Giuliano solo 470 sono ad oggi rientrati nelle loro case.

Per la ricostruzione in Abruzzo si stanno dicendo molte cose, dagli americani che potrebbero farsi carico del restauro di alcuni beni storici, alle Provincie che sarebbero invitate (e noi condividiamo l’idea) di farsi ciascuna carico della ricostruzione o del recupero di un edificio pubblico. Ma la cosa che spaventa maggiormente è ancora una volta l’idea di queste fantomatiche città nuove che si vorrebbero costruire: un’aberrazione trasformare luoghi storici in simulacri della memoria senza rumori, odori, sapori della vita quotidiana. Ancora una volta non può costituire problema la demolizione e la ricostruzione di un quartiere periferico, ma certamente sarebbe gravissimo se un’intera comunità fosse trasferita altrove, magari vicino ma sempre altrove, perdendo quel tessuto di viuzze, palazzi, piazze, luoghi che sono l’essenza stessa della loro identità. Occorre dunque immaginare una paziente opera di ricostruzione, che restituisca L’Aquila e non solo ai propri abitanti, e se questo è il progetto occorre con onestà intellettuale attrezzarsi a tempi che non potranno essere quelli delle promesse della politica. Con la speranza che la storia del terremoto in Abruzzo abbia un epilogo diverso da quello di San Giuliano.