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Sostenibilità
Dietro il termine “sostenibilità”, nell’immaginario scientifico diffuso, c’é spesso, a mio parere, una concezione sbagliata del rapporto uomo natura. Per politiche sostenibili infatti si intendono quegli atti umani che sono, appunto , sostenibili da parte degli ecosistemi su cui incidono. Con questo si afferma una sostanziale dicotomia fra la nostra specie e l’ambiente, inteso nel senso di Von Uexkull come “Umwelt”, quello che c’é intorno a noi. Il rapporto uomo-natura é visto in genere come una relazione a senso unico fra noi esseri umani e “l’altro da noi” che siamo chiamati a rispettare in quanto tale e non necessariamente in quanto determinante per la nostra stessa vita. Ne deriva molto spesso, nel “buon senso comune”, una visione, in parte anche derivata dalla religione, che affida alla nostra buona volontà la conservazione del Mondo che ci sarebbe stato affidato o , ancora peggio, il semplice mantenimento delle sue caratteristiche estetiche. Si é, cioè, “buoni” o “cattivi” con l’ambiente e gli altri esseri viventi che lo abitano. Di fatto, il nostro rapporto con il resto del Pianeta e con la vita non umana é,in altre parole, un rapporto fra soggetto ed oggetto in cui il secondo non ha influenza sul primo ma può essere da questo manipolato per il bene per il male. Anche se questa può apparire una versione estremizzata del pensare comune senza dubbio introduce almeno due gravi errori concettuali.
Innanzitutto viene avvalorata quella che chiamo generalmente la “utopia meccanica”, che prevede una nostra improbabile onnipotenza e la capacità di modellare il mondo intorno a noi come se si trattasse di una immensa macchina da modificare a volontà con i nostri progetti. Questa concezione deriva dalla “macchinizzazione” della vita , una deviazione concettuale derivata dalle rivoluzioni industriali, anche adesso dura a morire, che non prevede di fatto alcuna dinamica “di ritorno” su di noi delle azioni che compiamo sull’esterno e in genere sul pianeta. Se da questa visione generale si scende poi un po’ più nel concreto, la dicotomia uomo- ambiente viene tradotta in dicotomia economia-ambiente che in volgare significa per la gente che salvaguardare l’ambiente comporta necessariamente il rallentamento dello sviluppo economico per motivi essenzialmente etici ed estetici che con la economia non hanno niente a che fare. Le ragioni di questi atteggiamenti sono molteplici ed hanno portato a scontri anche molto duri fra i difensori della ragione economica ed un’ala adesso sempre più minoritaria del movimento ambientalista che mira alla conservazione “tout court” dell’ambiente in quanto tale per motivi soprattutto etici ed estetici.
Con il risultato, davvero non positivo, che l’ala “economica” estrema é sempre più vincente e ormai, nelle menti della maggioranza degli esseri umani l’aumento della circolazione monetaria in quanto tale e del suo indicatore, il PIL, viene sempre più considerato come unico indicatore di benessere e per questo obiettivo principale di una gestione corretta dal punto di vista sociale ed economico. L’aumento del PIL quindi diventa prioritario anche rispetto all’uso della ricchezza monetaria per la salvaguardia delle risorse naturali di aria , acqua, energia (il fuoco degli antichi), suolo e materia viva. Per questo atteggiamento, come afferma un recente studio del Wuppertal Institut, adesso solo il 12% del PIL mondiale é coperto da materia acquistata e venduta mentre il resto é essenzialmente solo moneta in gran parte scambiata online. Questo dato ci dice che, al contrario di quello che si pensa, il PIL é un indicatore non più affidabile , se preso da solo , dello stato delle società umane che vivono su questo Pianeta. Prova ne sia il fatto che gli indicatori di “felicità”, secondo una serie di sondaggi effettuati in diverse parti del Mondo ( S.Bartolini, 2008, Manifesto per la felicità, in stampa), sono correlati con il reddito medio solo fino ai 5000 euro l’anno. Per redditi superiori le fonti di aumento di felicità sono diverse e in gran parte derivano dalla soluzione positiva dei rapporti interpersonali. Nei fatti tuttavia, l’obiettivo di tutti i livelli di governo é l’aumento continuo del PIL ( non la sua stabilizzazione su valori alti) ed é per questo che si continua a puntare su una accelerazione continua dei consumi sempre più a prescindere dalla utilità dei prodotti consumati per l’aumento del benessere complessivo della umanità. Da qui la crescita senza limiti già attaccata dal Club di Roma tanti anni fa. Pensare di poter continuare ad aumentare i consumi senza problemi significa implicitamente che le risorse fondamentali viventi e non viventi sono inesauribili e che il consumo illimitato non comporta nessun effetto negativo. Sono quindi la “utopia meccanica” e la nuova concezione della ricchezza intesa come possesso di moneta e non necessariamente di beni, che ci hanno indotto a credere che possiamo modificare il Mondo come se fosse, appunto, una gigantesca macchina da costruire secondo un progetto collettivo umano (Buiatti, La vita virtuale, Iride,2007) .In realtà, la “rivoluzione” della Biologia del terzo millennio dimostra in modo inconfutabile (Buiatti, Il benevolo disordine della vita, UTUT,2004) che i sistemi meccanici e i sistemi naturali sono nettamente diversi. Le macchine infatti sono costruite ognuna secondo un unico progetto elaborato e realizzato da esseri umani e strutturati in parti indipendenti fra di loro che sono identiche quando sono staccate dal sistema a come si presentano quando ne fanno parte. Il “progetto” non viene mai auto-cambiato dalla macchina ma può solo degradarsi con il tempo. Una macchina é per questo del tutto conoscibile e prevedibile qualora si conoscano i componenti ed il progetto secondo il quale vengono assemblati. Questo permette quindi in teoria di puntare alla “macchina ottimale”, obiettivo a cui giustamente mirano i costruttori di macchine vere. Da qui la speranza inconfessata ma implicita in noi , che sia possibile costruire un Pianeta ottimale tutto omogeneo, senza particolari conseguenze negative , visto che anche esso sarebbe, come qualsiasi altra macchina, completamente prevedibile. Nella realtà dei fatti le cose vanno in modo molto diverso. Innanzitutto , come diceva un vecchio slogan ambientalista , la Terra é “tutta connessa” e non solo nel senso che i suoi componenti sono tutti collegati, ma in quanto ad essere collegate sono le dinamiche, in larga parte imprevedibili , delle loro connessioni. Per questo , all’opposto di quanto in genere si pensa, ogni azione umana in un punto di un sistema comporta cambiamenti non limitati ad esso ma che si estendono ed interessano settori di ampiezza variabile del sistema nel suo complesso e sono , per loro natura, in parte almeno imprevedibili. Il che significa che se trasformiamo una porzione di natura secondo un nostro progetto, la trasformazione in quanto tale potrà avere successo ma se non cerchiamo almeno di prevederne le conseguenze ne potrà facilmente avere di negative che si possono ritorcere contro di noi. In altre parole la nostra vita é intrecciata con quella degli altri esseri viventi e in genere del Pianeta. L’economia d’altra parte, é il risultato di una serie di azioni umane che poggiano inevitabilmente sulle risorse “non viventi” del pianeta ,aria, acqua, suolo , energia ma anche su quelle viventi, dei microrganismi, delle piante, degli animali e ovviamente su quelle umane. La nostra specie infatti si é adattata al cambiare dell’ambiente, diversamente dalle altre che si sono differenziate dal punto di vista genetico, modificando i diversi contesti in cui si sono via via insediati quei pochi esseri umani che sono partiti dall’Africa per la loro esplorazione del Pianeta circa 100000 anni fa, e in seguito i loro discendenti. Prova ne sia che la nostra variabilità genetica é di molto inferiore a quella degli scimpanzé nonostante che i nostri cugini siano molto meno numerosi di noi, e invece le nostre culture sono ancora molto diversificate tanto che si contano circa 7000 linguaggi diversi. I nostri avi infatti si rendevano ben conto di essere più fragili fisicamente di tante specie viventi ma di avere il dono di un cervello che permette di adeguarsi armonicamente costruendo culture diverse, agli ambienti più differenziati. Nonostante gli enormi progressi compiuti sul piano della modificazione dell’ambiente in nostro favore, noi esseri umani, siamo ancora fragili e dipendiamo come sempre dalle risorse del Pianeta. Le nostre strutture sociali e le nostre economie non sono quindi “altre” dalla Terra e dalla sua Biosfera, ma anzi, sarebbero senza dubbio più vulnerabili degli stessi microrganismi e degli altri esseri viventi della Terra se si verificasse una possibile crisi catastrofica come quelle che hanno causato le cinque estinzioni di massa avvenute fino ad ora.
Sostenibilità e cambiamento climatico
Negli ultimi tre anni sono stati pubblicati alcuni rapporti di estremo interesse sullo stato del Pianeta. I principali sono il Millennium ecosystem assessment[1] del 2005 e il più recente Rapporto Stern poi seguiti da diversi rapporti IPCC. Ne sono emersi alcuni dati di grande rilevanza che stanno facendo discutere tutti i massimi organismi internazionali, dall’ONU al G8. Dai dati riportati nei rapporti emergono alcune conclusioni che ormai superano le discussioni accese, spesso senza risultati, seguite alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 ad oggi. Tali conclusioni si possono così riassumere:
– il degrado del Pianeta sta subendo una forte ed imprevista accelerazione (vedi rapporto IPCC[i]) che costringe a prevedere conseguenze gravi per tutta la vita sulla terra ma in particolare per la nostra specie in termini ambientali, sociali ed economici, in tempi che si misurano su una scala di decenni e non, come si pensava, di secoli o millenni; I processi che stanno subendo una fortissima accelerazione sono molti. La perdita di specie di tutti gli esseri viventi é mille volte più rapida ora di quanto non sia mai stata nelle precedenti cinque estinzioni di massa; l’acqua potabile disponibile si sta riducendo e la desertificazione avanza rapidamente tanto che alcune grandi multinazionali stanno già comprando le riserve del prezioso liquido da rivendere poi a caro prezzo. Lo scioglimento dei ghiacci polari alzerà il livello dei mari producendo inondazioni e in genere fenomeni atmosferici “catastrofici” già da diversi anni stanno aumentando rapidamente di numero ed intensità. I cambiamenti nei cicli stagionali annuali, l’invasione degli ecosistemi del Nord del Mondo da parte di molte specie provenienti dal Sud aumenteranno e provocheranno riassestamenti per ora imprevedibili. Per le stesse ragioni dovremo affrontare la comparsa di molti agenti patogeni nuovi che creeranno problemi, anche questi per ora non anticipabili che potrebbero mettere in difficoltà i nostri sistemi sanitari anche per l’aumento dei costi. Si accentuerà il problema della fame nel Mondo e aumenteranno in genere le differenze fra Nord e Sud producendo emigrazioni di massa ( dai 250 milioni ad un miliardo di persone passeranno dall’Europa meridionale diretti al Nord). Questo fenomeno sta già creando ma creerà molto di più in futuro disagio sociale e una crescita dei conflitti sia a livello locale che globale.
– per la prima volta risulta chiaro da tutti i rapporti che i cambiamenti globali influiranno a brevissimo termine anche sulle economie sia per la riduzione delle risorse non rinnovabili, che per le conseguenze sociali, politiche ed economiche del cambiamento climatico e in genere della drastica riduzione dei servizi resi alla economia dagli ecosistemi (ecosystem services);
– è ormai evidente che la nostra specie incide in modo determinante sul degrado del pianeta e che il rallentamento dello stesso non può che passare per una svolta radicale nei modelli economici fin qui vincenti.
Ora, come é noto, i cambiamenti climatici sono determinati da una serie di fattori e in particolare dall’effetto serra provocato indirettamente da tutte la attività umane che usano energia producendo gas serra. Quindi da un lato tutte le società umane concorrono a modificare il Pianeta e,dall’altro, gli effetti del cambiamento climatico sono diffusi su tutta la Terra anche se alcune regioni ( in particolare quelle attualmente più povere) saranno più colpite delle altre . Nessuno quindi può pensare di essere immune da quanto sta succedendo né di non esserne “colpevole” per la sua parte, grande o piccola che sia. Evidentemente c’é qualcosa che non va nel modo con cui noi affrontiamo globalmente la trasformazione del Mondo ed é , evidentemente dopo quello che si é detto, la presunzione di poter modificare la Terra a volontà senza effetti di ritorno negativi e la “rimozione” voluta o inconscia della esistenza di effetti a medio e lungo termine sia temporali che spaziali, di qualsiasi intervento facciamo in qualsiasi parte del Globo. Non si tratta quindi più solo di conservare alcune riserve “naturali” ( praticamente nulla sulla Terra é veramente naturale nel senso che é immune dalla azione umana nel bene e nel male) ma di modificare il nostro rapporto con la natura non tanto e non solo perché questa e in particolare la Biosfera ne soffrirebbero, ma perché i primi ad avere danni presto irreparabili da una gestione sconsiderata delle risorse, saremmo proprio noi, le nostre economie e le nostre strutture sociali. Non basta quindi nemmeno più solo punire i “malvagi” che non si attengono alle regole di protezione della natura che pure vanno modificate, ma bisogna cambiare veramente i modi di produzione e anche gli stessi obiettivi puntando il più possibile al miglioramento delle condizioni reali di vita umane e degli altri esseri viventi intimamente legati a noi e necessari per la nostra sopravvivenza Per questo é necessaria una rapida “mutazione culturale” che ci faccia tornare a ridare valore alla ricchezza in termini di beni e servizi fruibili e non solo di possesso di moneta “online”. Bisogna di nuovo valutare il lavoro come fonte di conoscenza e fattore di cambiamento necessario per ottenerla e contemporaneamente rivedere globalmente il sistema delle interazioni sociali messe a dura prova dal cambiamento in modo da rimediare in tempi utili al danno già provocato dalla nostra incapacità di riconoscere le difficoltà presenti nel modello attuale delle società sviluppate.
– Deve essere anche chiaro da subito che fenomeni come i cambiamenti climatici sono solo in piccola parte reversibili e per questo devono essere monitorati, controllati per quanto possibile e deviati verso un danno minore. Dobbiamo quindi tenere presente , mentre evitiamo che i danni futuri subiscano una accelerazione incontrollabile, che comunque cambiamenti negativi avverranno su questo Pianeta e che ad essi dobbiamo trovare i modi di adattarci. Un punto di partenza importante per tutto questo é chiarire che esistono in realtà diversi aspetti della sostenibilità e che tutti devono essere tenuti presenti contemporaneamente perché concorrono a definire il futuro del Pianeta ed in particolare della nostra specie.
Tre sono in particolare le componenti della sostenibilità che vanno comunque considerate:
a) la sostenibilità ambientale per puntare ad uno sviluppo attento alla salvaguardia delle risorse non rinnovabili ivi incluse quelle della biodiversità naturale e di uso agricolo, delle culture umane, antica e sempre fondamentale base del nostro adattamento, e quindi dei lavori umani che ne sono parte integrante. Sostenibilità ambientale, nella presente situazione significa mitigare e rallentare la dinamica dell’effetto serra, programmare e avviare azioni di adattamento degli ecosistemi e dei loro componenti tenendo conto dei fatti nuovi che si verificano e verificheranno anche per la invasione progressiva di nuove specie, mantenendo gli impatti sull’ambiente sotto la soglia della capacità di carico del territorio e dell’ecosistema;
b) la sostenibilità sociale per puntare ad uno sviluppo socialmente condiviso, dove le differenze di reddito, di genere e, più in generale di “capabilities” fra individui e gruppi sociali, siano socialmente accettabili, non creino aree di emarginazione e di deprivazione sociale e culturale e dipendano da positivi fattori di dinamismo, impegno e capacità, e non dal condizionamento di corporazioni o caste o da comportamenti illegali o di natura delinquenziale. La sostenibilità sociale sottintende un welfare universalistico ed efficace, un lavoro fondato sulle competenze e sul sapere, in grado di assicurare coesione sociale e superamento di interessi di corporazione per il controllo dei mercati ed infine una cittadinanza attiva sostenuta dalla cultura diffusa,dalla partecipazione alla vita collettiva, dal rispetto della legalità; Sostenibilità sociale significa anche fin da ora tenere conto del fatto che il cambiamento climatico comporterà un aumento delle tensioni sociali a politiche che sfoceranno facilmente in conflitti e guerre come sta già succedendo in alcuni dei Paesi più colpiti. Fonte di tensioni politiche sarà anche il maggiore coinvolgimento nella crisi ambientale di molti dei Paesi più poveri già afflitti dal fallimento di molte delle politiche di aiuto e dello stesso meccanismo di controllo internazionale dei mercati. Infine sostenibilità sociale significa saper accogliere i milioni di migranti che si sposteranno dai Paesi più colpiti al Nord del Mondo, apprezzando la ricchezza che ci viene dall’apporto delle loro culture e dei loro saperi.
c) la sostenibilità economica per puntare ad uno sviluppo competitivo a scala globale, ma non dissipativo, con la necessaria cooperazione e il rispetto delle regole di un mercato aperto e corretto dove i “cattivi comportamenti” non spiazzino i “buoni comportamenti”. La sostenibilità economica per far tesoro delle “capacità dei territori” di realizzare uno sviluppo al tempo stesso dinamico ma non distruttivo o dispersivo delle risorse endogene, difendendo la biodiversità vegetale ed animale. Nell’ambito della sostenibilità economica occorre puntare alla sostenibilità finanziaria del settore pubblico, cioè ad un metodo fondato su modelli e livelli di fiscalità capaci di sostenere nel lungo periodo, in maniera strutturale, le esigenze di intervento pubblico nell’economia e nella società che la comunità ritiene necessarie per il “buon funzionamento” del sistema. Questa sostenibilità deve essere alla base del “contratto” di lungo periodo fra cittadino e Stato, sul dare e sull’avere nelle diverse aree della vita economica e sociale.
Rispondere globalmente al cambiamento globale
Se é vero come é vero che tutte le azioni umane concorrono all’aumento o alla mitigazione del cambiamento climatico globale allora la risposta, per essere adeguata, deve essere anch’essa integrata e globale e diretta in modo concertato. Su questo concetto, anche se molti si dichiarano d’accordo, la battaglia é aperta per due ragioni. Innanzitutto a livello mondiale, nonostante la preoccupazione generalizzata, non é ancora maturata la coscienza del fatto che tutti comunque perderanno dal punto di vista ambientale, sociale ed economico , se si sottraggono a svolgere la loro parte nella mitigazione e nell’adattamento. La responsabilità sarà ancora maggiore se Paesi come gli Stati Uniti che sono fra i maggiori emettitori di gas serra , continuano a rifiutarsi di aderire alle regole internazionali. Inizialmente magari , gli stessi Stati Uniti ed altri Paesi come le altre grandi potenze mondiali emergenti , potranno avere qualche temporaneo vantaggio ma poi , visto che il riscaldamento é veramente globale e globali sono i processi di perdita delle risorse di acqua , aria , suolo , non potranno che soffrirne anche di più di quei Paesi , che concorrendo alla mitigazione si sono mossi per aumentare la propria adattabilità.
Ma l’azione globale non deve solo coinvolgere tutta la comunità mondiale nella riduzione delle emissioni ma essere diretta al mantenimento di tutte le risorse materiali ed umane. Non solo , ma anche per quanto riguarda le emissioni va immediatamente frenata la tendenza ad affibbiare , anche se per comprensibili ragioni di mercato, il termine di “ecologico” o “verde” a processi e prodotti che non lo sono. Per fare un esempio prendiamo uno dei campi in maggiore sviluppo , quello dei cosiddetti bio-carburanti. Come é noto negli ultimi mesi sono stati siglati una serie di contratti per l’aumento della superficie coltivata a vegetali passibili di trasformazione energetica, dopo una serie di pressioni economiche su alcuni Paesi in via di sviluppo, fondati sulla riduzione del debito in cambio della utilizzazione dei terreni. Questo sta avvenendo ad esempio in Brasile , in Argentina e in Indonesia malgrado la opposizione da parte delle popolazioni che vengono espulse dalla terra, e sta riducendo in modo preoccupante sia l’area forestata che la produzione di cibo da parte dei piccoli coltivatori locali che vengono costretti ad emigrare nelle favelas delle megalopoli. In realtà nel caso dei biocarburanti come per tutti i prodotti cosiddetti “verdi” é necessario, prima di accettare questa qualifica fare un calcolo reale del carico energetico derivato non solo dal prodotto in quanto tale ma anche da tutte le operazioni precedenti alla produzione e successive ad essa fino alla sua vendita sul mercato. Nel caso delle biomasse ,se é vero che le piante fissano la anidride carbonica durante il loro sviluppo, é anche vero che poi, essendo utilizzate come combustibili la rilasciano giungendo da questo punto di vista ad un pareggio. Fin qui la cosa andrebbe abbastanza bene ma per fare il calcolo correttamente bisogna tenere conto ad esempio degli anticrittogamici, insetticidi, fertilizzanti che si usano e per i quali va consumata energia, e poi di quella utilizzata eventualmente per il trasporto delle biomasse dal campo al luogo di consumo e trasformazione in energia. Inoltre , va tenuto conto della possibile perdita netta di capacità di fissazione della anidride carbonica che potrebbe derivare , come avviene per esempio in Brasile , dalla deforestazione di aree da sottoporre a coltivazione industriale. Infine , bisogna valutare la eventuale perdita di risorse di altro tipo come l’acqua, necessarie per la coltivazione, e il cibo come succede in Brasile e in Argentina dove le produzioni di grano, di mais e di riso vengono soppiantate dalla soia o da altre piante ad uso energetico. E’ della fine di Aprile 2008 una dichiarazione molto allarmata della Banca Mondiale che attribuisce l’aumento impressionante ed improvviso dei prezzi del cibo, che sta già provocando conflitti anche sanguinosi nel Paesi del Sud delMondo, proprio alla eliminazione delle colture più importanti e in particolare del riso e del grano per la produzione di “bio-energia”. Ho usato l’esempio delle biomasse e bioenergie perchè è forse quello più chiaro e anche quello che più viene reclamizzato come utile per rallentare, senza rinunciare allo sviluppo, il procedere del cambiamento climatico. L’esempio é tuttavia molto simile a molti altri marchingegni elaborati per far passare per sostenibili processi che in realtà non lo sono. Tutto questo può essere evitato con il monitoraggio dal punto di vista energetico di interi cicli di produzione , dalla estrazione della o delle materie prime a tutta la filiera di trasformazione fino al mercato vero e proprio, un processo che é comunque fondamentale per la valutazione dell’impatto complessivo di qualsiasi tipo di produzione.
Appare evidente che per porre rimedio a quello che ci aspetta vanno modificati i comportamenti individuali e collettivi e vanno modificati i modelli di governance. Innanzitutto , ai fenomeni globali non si può che rispondere in modo globale a livello mondiale ma anche a quello locale facendo uno sforzo per migliorare la partecipazione ai processi decisionali e perché le diverse aggregazioni sociali si muovano di concerto stabilendo insieme strategie di priorità da rispettare tutti insieme. Il che significa modificare , ovviamente in modo concertato le stesse regole del mercato che non può più essere solo una arena di competizione e di combattimento di tutti contro tutti. Sta ai governi ad ogni livello di organizzazione della società procedere al massimo livello di integrazione delle politiche sulla base di indicatori precisi che ne valutino l’impatto sociale , economico, sulle risorse naturali e umane , sulle emissioni di gas serra. Bisogna infine uscire dalla logica della “virtualizzazione “ del benessere non “impiccandosi” al PIL ma valutando l’effetto delle nostre azioni sulla vita reale di noi esseri umani e anche degli altri esseri viventi senza i quali non saremmo su questo Pianeta, non solo in termini di aumento di moneta ma di miglioramento della “felicità” (del benessere) individuale e collettiva.
Una sfida per la Toscana
La Toscana è una terra con una vocazione di alta sostenibilità: lo sviluppo economico, pur avendo prodotto come in tutte le aree del mondo, delle lacerazioni e dei cambiamenti non sempre rispettosi del territorio, dell’ambiente e della salute, non ha quasi mai creato danni irreparabili, anche grazie ad una combinazione efficace fra il pubblico e l’iniziativa privata. Le comunità locali hanno operato per uno sviluppo forte e dinamico, quasi sempre all’interno di un contesto in cui la coesione sociale, la tutela del paesaggio e il rispetto delle risorse naturali e culturali, un’attività agricola che non ha mai sviluppato dimensioni intensive, non sono stati visti come elementi marginali o subordinati alle logiche della crescita economica. Queste caratteristiche peculiari della nostra Regione tuttavia derivano dalla storia dei toscani ma non possono non essere influenzate negativamente dal contesto nazionale e globale. Vi é un pericolo crescente e continuo di crisi del modello originario dal punto di vista economico e sociale e anche nella nostra società si possono notare sintomi preoccupanti d frammentazione, di incapacità di reggere la competizione dal punto di vista economico, di adozione di modelli di vita dissipativi e sempre meno mirati ai reali interessi collettivo. Anche in Toscana stiamo sempre di più “dimenticando il futuro” e le azioni sono sempre di più estemporanee, slegate le une dalle altre e difficilmente integrabili in un progetto collettivo Oggi si tratta di produrre un salto di qualità innanzitutto per quanto riguarda la coesione sociale e l’impiego delle risorse naturali, economiche ed umane. E’ in questo senso che deve essere rivitalizzato lo sviluppo, partendo dalle singole “capacità dei territori”. Queste devono essere qualificate attraverso il rafforzamento dei processi innovativi, e quindi della educazione, ricerca e formazione individuale e collettiva prima e durante un lavoro ad alto contenuto di conoscenza poi. E’ necessario dare nuova linfa ad una imprenditorialità rinnovata che possa agire nel quadro di una strategia collettiva e collettivamente decisa . Si tratta, quindi, facendo tesoro dell’esperienza della pianificazione toscana, ma andando oltre, grazie a nuovi strumenti di partecipazione e governo del territorio, pensando a nuovi equilibri fra dinamismo economico, sostenibilità e tutela attiva delle risorse naturali ed umane. Il cambiamento da introdurre non é di poco conto e richiede il raggiungimento di una serie di obiettivi irrinunciabili e cambiamenti drastici nei comportamenti individuali e collettivi.
Innanzitutto é necessario recuperare una mentalità coesiva che si è andata perdendo anche nella nostra Regione e che é d’altra parte l’unico rimedio alla eccessiva frammentazione ed all’annoso problema della dimensione insufficiente delle imprese prese singolarmente. Perché questo avvenga bisogna che ci sia una conoscenza diffusa da parte dei cittadini , delle imprese, dei governanti, dei pericoli cui andiamo incontro e del ruolo negativo che ha in questo senso la frammentazione e l’abitudine perversa di trattare un sistema come quello toscano per singoli comparti senza raggiungere una visione e quindi una strategia di insieme.
Ci deve essere per questo un impegno concreto a tutti i livelli della istruzione e della formazione che non possono che ripartire dalla conoscenza integrata dello stato e delle dinamiche dellaToscana dal punto di vista ambientale, sociale ed economico da cui trarre elementi di previsione del futuro. Va notato con favore che in questo campo é in atto uno sforzo consistente per la integrazione dei dati esistenti che rimedi alla loro attuale frammentazione, derivante anche dal fatto che vengono rilevati spesso più di una volta da diversi attori con metodi diversi e solo raramente sono ricostruibili in termini di dinamiche in modo da permettere di sviluppare modelli predittivi sul futuro da utilizzare per il necessario aggiornamento continuo delle strategie. Per integrazione si intende qui la raccolta di dati con metodiche comuni concertate fra i diversi attori del monitoraggio, sullo stato dell’ambiente ma contemporaneamente anche su quello delle economie e dei processi sociali. Questo in accordo con la necessità di proporre e poi valutare le strategie tenendo sempre presente, come discusso in premessa, la natura interattiva e non additiva dei processi in questione . E’ necessario allora sviluppare indicatori integrati della sostenibilità da usare per la valutazione dei piani e programmi ex-ante, in itinere e ex-post, senza la quale tutta l’operazione diventerebbe del tutto inutile perché non permetterebbe il necessario continuo aggiornamento delle strategie.
Tutto questo lavoro tuttavia non ha solo lo scopo operativo della pianificazione da parte degli organi di governo ad ogni livello ma deve diventare una fonte continuamente aggiornata di dati e concetti per la educazione e la formazione. A questo scopo devono essere costruiti canali efficienti di comunicazione fra ricerca , organi di governo e luoghi di istruzione e formazione diffusi e partecipati. La Regione toscana negli anni passati , con il progetto INFEA e la rete di insegnanti responsabili della educazione ambientale ha costruito una organizzazione del flusso di informazione potenzialmente capace di svolgere il compito necessario per la diffusione dei concetti di base sullo stato e sulle dinamiche provocate dal cambiamento climatico unificando, al solito i tre diversi punti di osservazione sui versanti ambientale, economico e sociale. In realtà purtroppo, fino ad ora questa integrazione , salvo rare eccezioni é mancata e molta della educazione ambientale viene svolta semplicemente descrivendo l’ambiente e gli ecosistemi senza spiegarne l’interazione intensa e reciproca con le attività umane e in particolare con la economia e l’organizzazione sociale. Troppo spesso l’ambiente viene ancora presentato come qualcosa che deve essere conservata solo grazie ad un approccio “benevolo” delle attività umane. Ancora troppo frequente é, di conseguenza la credenza del tutto falsa che salvaguardare l’ambiente sia in contrasto con l’economia mentre in realtà sono proprio le economie ad essere colpite per prime dal cambiamento climatico e dalle sue conseguenze. Nella scuola è fondamentale in particolare dare concetti chiari ed aggiornati della struttura e delle dinamiche della vita perché solo così i giovani potranno rendersi conto pensando a sé stessi come esseri viventi, della necessità, per adattarsi ai cambiamenti, di unire le forze per la difesa della vita di ciascuno da parte di ciascuno mantenendo una struttura sociale coesa e capace di concertare democraticamente le risposte con un livello accettabile di equità. Questo modello di educazione ovviamente non può limitarsi agli anni di scuola ma deve diventare sempre più permanente ne luoghi di lavoro, nelle imprese, nei governi locali e in quello regionale proprio perché tutti devono essere messi in grado e devono partecipare in modo cosciente alla mitigazione dei danni ad alle operazioni di adattamento pena la rapida decadenza del modello toscano che ci ha permesso di mantenere nella nostra Regione almeno un patrimonio di natura spontanea ed umanizzata sufficiente per poter ripartire. Un programma di questo genere deve necessariamente partire il più presto possibile anche perché é nozione comune che il cambiamento sta accelerando anche rispetto alle previsioni peggiori e quindi é necessario un continuo adeguamento ed approfondimento delle conoscenze collettive. Gli stessi concetti devono essere applicati alla formazione dei privati come del pubblico evitando di continuare a considerare sufficiente per gli operatori la conoscenza approfondita e pur necessaria degli strumenti legislativi approntati dai diversi livelli di Governo della cosa pubblica, strumenti che altrimenti verrebbero applicati male e senza la necessaria chiarezza di obiettivi. Ovviamente formazione permanente significa intervenire intensamente sui luoghi di lavoro e anzi fare di nuovo del lavoro in tutti i campi lo strumento necessario della formazione nel campo della sostenibilità. Questo obiettivo può essere raggiunto tramite accordi specifici con i lavoratori ed i datori di lavoro che usino il luogo in cui questo si svolge come esempio illustrativo di quanto sta avvenendo e avverrà nel futuro. Un esempio di questo approccio potrebbe essere quello della valutazione collettiva dell’impatto energetico dei prodotti lungo le filiere , dei metodi per diminuirlo, dei vantaggi e degli svantaggi economici e sul piano della occupazione che ne potrebbero derivare. La riuscita di programmi di questo tipo.
E’ ovvio inoltre che la formazione è del tutto inutile per chi lavora in situazioni di precarietà crescente perché non avrà nè il tempo né la voglia di imparare nozioni di questo genere e comunque, anche se le imparasse non avrebbe il tempo di tradurle in comportamenti virtuosi. Non c’é lotta possibile agli effetti negativi dei cambiamenti climatici senza una riduzione veramente drastica della precarietà del lavoro, e senza quindi il ritorno ad un lavoro inteso anche come fonte primaria di conoscenza.
Naturalmente non esiste educazione e formazione in questo campo senza ricerca. Questa d’altra parte non può essere lasciata alla libera iniziativa dei ricercatori ma deve essere collegata direttamente alle iniziative di mitigazione e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Per questo si deve ricorrere a bandi specifici che abbiano alla base gli stessi principi di integrazione e concertazione di cui ho parlato per quanto riguarda la formazione e devono essere mirati alle specifiche priorità definite attraverso la concertazione da perseguire nell’ambito della pianificazione regionale ed agli altri livelli di intervento sul territorio. Si pone qui ma ovviamente per tutti gli interventi, il problema veramente cruciale della integrazione delle azioni fra i Dipartimenti, fra le Agenzie e fra questi due gruppi di strutture. Integrazione in questo caso significa anche interazione positiva fra i capitoli di spesa che concorrono alla realizzazione di obiettivi ritenuti prioritari per la soluzione dei problemi. Mi rendo ben conto che questo, per tutte le Amministrazioni, comporta un cambiamento consistente nell’attuale modo di procedere con la aperture a tutti delle banche dati di tutti finalmente senza sovrapposizioni e con metodi comuni di rilevazione dei dati, e la concertazione della spesa sulle priorità comuni e non sulle competenze amministrative, naturalmente effettuabile solo attraverso una reale concertazione degli interventi. E’ necessaria quindi non soltanto una modificazione profonda delle mentalità ma anche del modo stesso di organizzare la amministrazione, che senza dubbio richiede una volontà precisa e il tempo necessario per introdurla. Questo non soltanto a livello regionale ma anche a quello degli enti locali e degli altri livelli di organizzazione territoriale. Condizione necessaria tuttavia perché l’intervento dei diversi livelli di governo abbia risultati positivi è un netto aumento della coesione attraverso una nuova visione della partecipazione e della concertazione fra i diversi attori pubblici e privati. Per essere chiaro devo sottolineare che in questo caso per partecipazione intendo una partecipazione attiva non solo nella discussione degli interventi dei livelli di governo ma anche nella conduzione delle azioni scelte come prioritarie per gli obiettivi comuni. In altre parole, se ad esempio si decide di comune accordo di spendere l’uno per cento del PIL per la sostenibilità questo dovrà comportare non soltanto adeguati interventi della Regione e degli Enti locali ma anche lo spostamento di investimenti privati sulla modificazione dei prodotti e dei cicli di produzione verso il risparmio di energia e della altre risorse e in genere la sostenibilità anche qui intesa sempre in modo integrato. Senza un intervento mirato anche da parte del settore privato infatti le speranze di un reale adattamento al cambiamento climatico sarebbero molto scarse non essendo sufficienti interventi, pur necessari, di incentivazione dei comportamenti virtuosi o di repressione di quelli non rispettosi delle leggi. Naturalmente, come ho detto precedentemente, tutto questo non deve affatto incidere negativamente sullo sviluppo ma anzi deve puntare ad un nuovo modello di questo, basato sulla qualità e sul risparmio delle risorse a cominciare da quelle energetiche ma anche dell’acqua, dell’aria e del suolo, tutti fattori che possono abbassare i costi ed aumentare la competitività dei prodotti e dei servizi. Da questo punto di vista puntare sulla sostenibilità può proprio voler dire aumentare la competitività per la qualità ed il contenuto di conoscenza della produzione mentre continuare sulla strada percorsa dall’Italia, spesso basata solo sulla riduzione dei costi e in particolare di quello del lavoro o, prima dell’euro, sulle svalutazioni della moneta, oltre a tagliarci fuori dai mercati determinerebbe inevitabilmente una perdita anche dello stesso PIL a causa dei cambiamenti climatici maggiore di quella prevista dal rapporto Stern. .
Va qui ricordato ancora una volta che la coesione sociale deve essere sempre considerata come un parametro fondamentale per uno sviluppo sostenibile. Per questo bisogna agire rapidamente sul processo di frammentazione in corso che non é solo fra categorie di persone ma incide pesantemente sui comportamenti inter-individuali in particolare delle giovani generazioni sempre meno capaci di comunicare se non attraverso mezzi artificiali e quindi meno solidali e portate verso le azioni collettive necessarie per il cambiamento. Anche su questo naturalmente pesa fortemente la precarietà del lavoro giovanile perché praticamente elimina la coesione che si trova lavorando insieme e quindi nello stesso luogo di produzione. Una profonda modificazione sociale da questo punto di vista é necessaria in particolare in vista degli effetti che il cambiamento climatico inevitabilmente avrà anche nel breve termine a causa dell’incremento di immigrazione nel nostro Paese in particolare dai Paesi più colpiti dalla riduzione di produzione di cibo a causa della desertificazione in via di accelerazione e anche della riduzione della produzione di cibo per la sostituzione delle colture alimentari con quelle per la produzione di energia . Questo spostamento di intere popolazioni, che potrebbe non essere tanto diverso in termini di dimensioni da quello che avvenne con la mini-glaciazione che segnò la distruzione dell’Impero Romano, sta già portando ad un incremento dei conflitti e di guerre derivanti dalla riduzione delle risorse e in primo luogo dell’acqua utilizzabile in agricoltura e nella vita di tutti i giorni. Inutile dire in proposito che le forsennate politiche di rifiuto e di intervento poliziesco sulla immigrazione nulla potranno per fermarla quando ad immigrare non saranno centinaia di migliaia ma milioni e in compenso potranno invece portare a dolorose rotture del tessuto sociale toscano che già tanto faticosamente resiste alla frammentazione imperante nel Paese e nel resto del Mondo. E’ per questo che, come ho sottolineato più volte, una particolare attenzione deve essere dedicata alla sostenibilità sociale che si ottiene con il miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi e dell’uso dei beni comuni mantenuti sotto il controllo pubblico con particolare riguardo alla sanità che dovrà affrontare i rischi delle nuove malattie, e a tutto quello che incide sulle condizioni di vita e di lavoro e in genere sulla “felicità” che , come risulta da numerosi studi é determinata in modo decisivo dalla facilità e bontà dei rapporti sociali.
Conclusioni
Questo breve intervento di fatto rivisita sintetizzandolo il documento finale degli Stati Generali della sostenibilità tenutisi su indicazione del Presidente della Regione Toscana Claudio Martini nel 2007 e organizzati con il supporto scientifico
della Fondazione Toscana sostenibile di cui lo scrivente è Presidente. Ho cercato in realtà, prendendo il cambiamento climatico come esempio critico delle dinamiche ambientali , di contestare la dicotomia presente nell’immaginario scientifico e non solo fra ambiente ed esseri umani . Questa dicotomia ha portato alla prassi generale della frammentazione degli interventi del Governo della cosa pubblica , frammentazione che va contro la organizzazione della vita reale che è invece strutturata per connessioni in continuo cambiamento dinamico. Gli spunti di che ho cercato di introdurre nella discussione sulla mitigazione del cambiamento climatico e sul necessario adattamento ad esso , vogliono in realtà indicare naturalmente senza alcuna presunzione, una nuova metodologia di governo delle dinamiche ambientali, sociali ed economiche che tenga conto della loro natura integrata anche a prescindere dalle criticità dell’attuale momento storico. Questo anche nella speranza che il dibattito si apra veramente su questo punto e al dibattito seguano azioni concertate sufficientemente innovative da poter far fronte a quanto ci aspetta in tempi relativamente brevi , contrariamente a quanto anche i più pessimisti pensavano fino a pochi anni fa.
[1] Il “Millennium ecosystem assessment” è stato realizzato, tra il 2001 ed il 2005, con l’obiettivo di comprendere la situazione degli ecosistemi del pianeta, le conseguenze dei cambiamenti verificatisi in essi rispetto al loro contributo al benessere dell’umanità e per stabilire le basi scientifiche delle azioni necessarie a rafforzare la conservazione e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi. E’ stato avviato nel 2000, con una prima analisi definita PAGE (Pilot Analysis of Global Ecosystems) e con quanto scritto dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel documento del Millennio “We the Peoples: The Role of the United Nations in the 21st Century” (predisposto per il Summit ONU del Millennio tenutosi nel settembre 2000, che ha condotto all’individuazione dei Millennium Development Goals sottoscritti dai governi di tutto il mondo). Il rapporto è stato coordinato da un segretariato internazionale, supportato dalle quattro convenzioni internazionali sulla diversità biologica, sulla desertificazione, sulle zone umide (Ramsar) e sulle specie migratrici, nonché da quattro organizzazioni tecniche del sistema delle Nazioni Unite, (e cioè dal Programma Ambiente (UNEP) che ha svolto il ruolo di coordinamento, dal Programma per lo Sviluppo (UNDP), dalla FAO e l’UNESCO) e da numerose organizzazioni ed istituzioni scientifiche, come l’International Council for Science (ICSU).
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