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Iride

6 aprile 2009 0 commenti

Homo sapiens e la “vita virtuale”

Marcello Buiatti

 

 

1. La strategia di adattamento di Homo sapiens

 

L’evoluzione di noi esseri umani per lunghissimo tempo si è basata sugli stessi processi di adattamento degli altri animali. Mentre infatti i batteri si adattano mutando, (modificando il loro patrimonio genetico) le piante utilizzando durante la vita una loro grande capacità di plasticità, tutti gli animali, inclusi i Primati avi dell’uomo, oltre queste due strategie usano i loro sistemi nervosi per cercare ambienti adatti. In una parte delle specie animali si sono sviluppati i sistemi nervosi centrali dotati di una vera e propria “cabina di comando” costituita dal cervello. È su questo che Homo sapiens, ma con lui anche altri “ominidi”, hanno costruito una loro nuova strategia di sopravvivenza che ha loro permesso di modificare l’ambiente rendendolo più consono alle loro esigenze. Non che altri animali non facciano la stessa cosa. Molti di essi costituiscono nidi, tane, e talvolta anche complessi “edifici”. Basta pensare ai castori, ma soprattutto alle formiche, le api, le termiti. Questi insetti hanno una organizzazione sociale molto complessa in cui i compiti dei singoli sono ben distribuiti in modo complementare, che si è affinata durante l’evoluzione fino a dar luogo persino a forme sofisticate di agricoltura. Ci sono formiche ad esempio, dette “leaf cutters” (tagliatrici di foglie) che si nutrono di vegetali resi digeribili da particolari funghi. Questi vengono allevati con cura, trasportati durante le migrazioni, e curati, in caso di pericolo, con batteri produttori di antibiotici specifici. Anche in questi comportamenti complessi tuttavia gli animali sono diversi da noi perché pratiche sofisticate come quelle descritte hanno avuto bisogno anche di centinaia di milioni di anni per affinarsi e, una volta che questo sia successo, sono rimaste costanti e stereotipe per periodi ancora più lunghi.

Nel caso nostro invece i cambiamenti comportamentali sono fulminei se paragonati ai tempi lunghi dell’evoluzione, si succedono continuamente e sono differenti nelle diverse popolazioni. In molti casi gli ominidi più evoluti e anche gli esseri umani, hanno “inventato” comportamenti complessi quasi contemporaneamente, in punti diversi del globo e poi magari se li sono anche dimenticati per poi riprenderli. È successo così con il fuoco, usato già dal nostro antenato Homo Heidelbergensis più di 200000 anni fa, e “scoperto” poi autonomamente da Homo sapiens e dagli altri ominidi più evoluti, Homo neanderthalensis e Homo florensis.

La stessa agricoltura è stata fondata autonomamente in punti diversi della Terra e in questo caso si sono avuti anche fenomeni di regressione, ad esempio in America del Nord con il ritorno alla caccia e alla pesca come metodi principe per procurarsi il cibo.

La diversità degli esseri umani sta quindi nella impressionante capacità di cambiamento rapido degli ambienti e di trasmissione del pensiero e delle “invenzioni” di generazione in generazione per via non genetica con processi che noi chiamiamo globalmente di “evoluzione culturale”.

Anche se non è del tutto chiaro cosa si intende con questo termine, la evoluzione culturale umana, i cui primi segnali erano senza dubbio presenti nei nostri antenati,  é un processo molto diverso dalla evoluzione fisica, in quanto è essenzialmente comportamentale e si differenzia anche da quella che anche ora osserviamo in alcuni primati in quanto comporta la costruzione di “progetti” e poi di “manufatti” prima non esistenti in natura.

Un “progetto” consiste nella elaborazione di dati e immagini provenienti dal mondo esterno al fine di ottenere una “costruzione mentale” da proiettare poi sulla materia esterna modificandola. Noi esseri umani probabilmente abbiamo posto le basi per la formazione di progetti quando abbiamo cominciato ad “astrarre” e cioè a sviluppare e modificare nel nostro cervello immagini del Mondo esterno immettendole poi in memoria ed eventualmente proiettandole, così “umanizzate”, sulla materia che ci circonda. Questo è avvenuto quando abbiamo cominciato a dipingere e scolpire, probabilmente non molto dopo la nostra colonizzazione del Globo iniziata circa 50000 anni fa, quando le condizioni ambientali sono diventate favorevoli alle migrazioni. È di quest’anno la scoperta di sculture di figure femminili datate ben 27000 anni fa, che, fra l’altro, sono in parte vestite con indumenti succinti, a testimonianza che già a quell’epoca, alla astrazione ed alla scultura e pittura era già seguita la “costruzione” di oggetti materiali su progetto persino probabilmente rispondenti a “mode” e “gusti” , diversi nei diversi luoghi per le diverse comunità umane. Era già iniziata quindi una fase di adattamento che ha portato poi alla “invenzione” della agricoltura e quindi al cambiamento epocale del nostro comportamento, il passaggio dalla caccia, la pesca e la raccolta e quindi dal nomadismo alla vita stanziale con la conseguente costruzione di culture locali stabili. Con la agricoltura Homo sapiens non solo rende più efficiente e complessa la costruzione dei suoi rifugi, progetta e produce utensili di vario tipo, vasellame ed altri materiali, ma impara ad adattare alle sue esigenze animali e piante. Si tratta in questo caso del processo chiamato di “domesticazione” di esseri viventi (vegetali, animali ed anche microrganismi) destinati a vivere e riprodursi per soddisfare le esigenze alimentari degli umani. Quando questi processi sono iniziati si era ben consci della necessità di tener conto dell’ambiente in cui si viveva anche se si avevano gli strumenti per modificarlo. Per cui si sceglievano via via piante ed animali adatti a produrre bene e in quantità ma con una buona capacità di sopravvivenza autonoma nei luoghi dove avevano vissuto anche prima della colonizzazione da parte della nostra specie.

I grani coltivati dai nostri avi ad esempio, appartenevano a più di una specie e vennero selezionati per produrre di più e meglio nei diversi “microambienti” mantenendo quasi tutte le altre caratteristiche inalterate tolte alcune risultate negative per la produzione.

Furono ad esempio scelte piante i cui semi non cadevano spontaneamente sul suolo una volta maturi individuando quelle che avevano il peduncolo a cui erano attaccate le spighe (il “rachide”) meno fragile e quindi resistente anche al vento.

Il rapporto dell’uomo con la natura era quindi di rispetto e anche timore e quello che si ricercava di ottenere era essenzialmente un suo miglioramento nel senso di una sempre più completa “immersione” degli umani , delle loro piante e dei loro animali in un agro-eco-sistema locale.

In altre parole la nostra specie viveva dei prodotti dell’ambiente in cui si trovava ed era uno dei componenti della “nicchia ecologica” in cui abitava anche se, più di altri animali, l’aveva modificata a suo vantaggio.

La diversità degli ambienti frequentati dagli umani fu una delle cause fondamentali non solo della variabilità delle caratteristiche fisiche delle nicchie “umanizzate”, ma anche della eterogeneità delle piante che si coltivavano, degli animali che si allevavano, dei microrganismi che vivevano nei terreni ed infine delle culture, delle tradizioni e dei riti delle comunità che vi abitavano. Nacquero così miriadi di culture locali, spesso molto differenti le une dalle altre, senza che ci fossero apprezzabili differenze nelle caratteristiche genetiche delle etnie. Questo dato, ancora poco noto ai più, è risultato di una serie di ricerche condotte negli ultimi anni a cui hanno dato rilevanti contributi una serie di scienziati italiani fra cui giova ricordare ad esempio Cavalli Sforza, Piazza e Barbujani.

Riassumo brevemente queste ricerche perché sfatano una serie di luoghi comuni e chiariscono le caratteristiche originali della nostra strategia di adattamento basata non sulla selezione dei corredi ereditari più adatti ma sulle “invenzioni” del nostro cervello, capace di elaborare una quantità di informazione enormemente superiore  a quelle contenute nel DNA. Innanzitutto, la variabilità genetica della nostra specie è molto bassa anche se paragonata a quella di altri Primati a noi vicini come lo scimpanzé, il gorilla, l’orangutan, che pure ora sono molto meno numerosi di noi.

La nostra relativa omogeneità genetica deriva probabilmente del fatto che i primi uomini e donne erano molto pochi e non potevano quindi essere molto variabili anche se poi sono rapidamente cresciuti di numero diffondendosi con grande rapidità in tutti i continenti. È anche per questo che la variabilità genetica umana è più o meno la stessa dappertutto come chiarito dal fatto che solo il 5% – 10% dei varianti umani è diverso fra continente e continente.

Il che significa che le analisi del DNA totale non sono in grado di distinguere con certezza un africano da un asiatico, da un europeo, da un americano del Sud o del Nord, da un australiano.

Non a caso, chi ha interesse a dividere gli esseri umani in “razze”, termine del tutto privo di significato biologico, usa singoli caratteri fisici (il colore della pelle, la forma del naso ecc.) o addirittura comportamentali (l’intelligenza, la furbizia, la tendenza al complotto negli ebrei).. Nel caso dei caratteri fisici si considerano cioè varianti di pochissimi geni e cioè di pochi milionesimi del nostro DNA, mentre i comportamenti non sono che raramente e in minima parte determinati da geni, e si trascura invece il resto dei corredi ereditari che sono essenzialmente uguali. .

È evidente quindi che le nostre culture, i nostri modi di vivere, le nostre invenzioni, non “stanno scritte nel DNA” ma derivano dalla enorme capacità di archivio e di elaborazione di informazioni dei nostri cervelli.

Questi dispongono di 100 miliardi di neuroni che possono formare un milione di miliardi di connessioni mentre il nostro DNA è fatto di 3,3 miliardi di “lettere” di cui solo l’1,5% è costituito da geni, 23000 in tutto, poco più di quelli del moscerino dei genetisti e più o meno lo stesso numero di quelli del rospo. È il cervello quindi la base materiale dei pensieri, fonte primaria delle nostre strategie  adattative, rese più rapide ed innovative dalla impressionante rapidità con cui diffondiamo e comunichiamo le nostre continue “invenzioni”.

Ben diversa è la situazione degli animali che per trasmettere quello che hanno acquisito, devono essenzialmente affidarsi alla riproduzione e alla lenta opera della selezione naturale. È così che in poche migliaia di anni, un “batter d’ali” in confronto ai normali processi selettivi, siamo passati dalla costruzione dei primi, rozzi strumenti, alla rivoluzione industriale ed alle società umane del terzo millennio, già ben diverse anche da quelle del secolo scorso.

 

2.Il processo di virtualizzazione

 

Il processo di cambiamento  ora discusso, dato che ogni nuova informazione acquisita funge da base ed acceleratore della conquista delle prossime, è diventato sempre più rapido e quindi anche sempre meno prevedibile, controllabile e gestibile. Adesso la stessa natura e configurazione delle informazioni che ci influenzano momento per momento sembra avere assunto caratteristiche finora ignorate e non previste. Sembra ad esempio che capiti di essere sommersi da “ondate” di informazioni spesso su argomenti irrilevanti, certamente in parte iniziate da piccoli gruppi di esseri umani ma che poi assumono significato proprio anche indipendentemente da questi.

Parallelamente a tutto questo sembra essere cambiata drasticamente la nostra strategia di adattamento un tempo ormai lontano mirata ad ottenere una nostra migliore interazione con l’ambiente ed ora invece, almeno apparentemente, sempre più staccata dalla realtà materiale della vita nostra e di quella di tutta la Biosfera.

In altre parole sembra che sia stata superata ogni ragionevole previsione della entità e velocità di quel cambiamento che Vernadsky, all’inizio del 19001, prevedeva sarebbe derivato dal crescente impatto della “Noosfera” sulla vita di animali, piante, microrganismi, causa a loro volta di profondi modificazioni della atmosfera e dello stesso assetto geologico del nostro Pianeta.

Questa nuova fase , in cui nel nostro pensiero individuale e soggettivo , abbiamo iniziato a sostituire immagini mentali a realtà delle nostre vite è probabilmente cominciato da quando alla fase agricola delle nostre culture si è sostituita, nell’arco di poco più di due secoli e un numero molto basso di generazioni, la civiltà industriale, “dichiaratamente” basata non più sull’adattamento di piante ed animali ai diversi ambienti, ma sulla costituzione “ex – novo” di nicchie ecologiche sempre più umanizzate ed avulse dall’ambiente. Il Progetto umano è quindi andato via via cambiando sulla base delle nostre  nuove e straordinarie capacità di modificazione e controllo del Mondo, e questo processo è stato accompagnato da mutamenti profondi nei modi di vita ed anche nel “meta-pensiero” di comunità umane molto diverse fra di loro ma anche con elementi comuni di base . Per capire qualcosa di quanto sta avvenendo ora e magari farsi una idea preliminare di cosa ci aspetta può essere utile analizzare brevemente la “utopia meccanica” e la sua codificazione in affermazioni debitamente fornite di avvallo da parte della “Scienza”. Per utopia meccanica intendo la equiparazione , nelle menti umane collettive di tutti i sistemi , viventi e non viventi del Globo inclusi noi stessi a macchine . Per quanto riguarda in particolare la vita se la “macchinizzazione” non è una grande novità, è pur vero che non ha mai avuto il successo di ora, probabilmente a causa di un contesto sociale adesso molto più favorevole e, soprattutto della maggiore coerenza di questa ipotesi con gli indirizzi prevalenti della  economia mondiale.  Non vi è dubbio che le Scienze della vita abbiano giocato un ruolo molto importante nella genesi di questo profondo cambiamento culturale per cui ormai una grande parte dei nostri simili inconsciamente o consciamente pensa per davvero  che non vi sia alcuna reale differenza qualitativa fra “Lo stato vivente della materia” 2 e quello non vivente. In altri termini questo significa che la materia in genere, inclusa quella vivente,  può essere considerata “oggetto” e quindi modificabile secondo progetti umani. Ne discendono alcune conseguenze logiche. Innanzitutto, se questo fosse vero, anche i sistemi viventi come le macchine dovrebbero essere costituiti di componenti indipendenti l’uno dall’altro ed assemblabili secondo un progetto unico formulato da qualche “soggetto”, sia umano che divino, dotato della capacità  di “progettare in modo intelligente”. La presenza di un unico progetto deterministico conferirebbe alla macchina, vivente o non vivente che sia, carattere di assoluta predicibilità e ne renderebbe prevedibile anche l’effetto sugli altri componenti del sistema più complessivo, anch’essi analogamente meccanici.

Da qui l’obiettivo finale reale e raggiungibile della innovativa strategia umana, la costituzione di un Mondo “ottimale”, tutto organizzato secondo un unico progetto intelligente da noi “disegnato” in analogia a quanto avviene in una industria il cui scopo finale è appunto il raggiungimento di una qualche “macchina” ottimizzata in coerenza con le esigenze di funzionalità ma anche e sempre più del mercato..

I concetti di additività e indipendenza dei componenti, determinismo e predicibilità degli effetti, omogeneità ed ottimizzazione del Mondo umanizzato, non sono davvero nuovi tanto che hanno fortemente influenzato lo “spirito del tempo” dell’epoca moderna ma non sembrano aver perso granché di forza neanche nel terzo Millennio. Oggi questi concetti stanno non solo alla base di parte della nostra strategia di vita ma soprattutto di una nostra individuale e collettiva “ vita virtuale”  fatta di termini, parole, frasi che hanno perso o profondamente snaturato il loro significato originale, precedentemente legato alla natura materiale del Mondo ed alle sue dinamiche.

Forse per una mia deformazione culturale, l’esempio per me più evidente di questo processo di virtualizzazione del nostro pensiero scientifico ed ancora di più dell’immaginario che ne consegue, è la differenza crescente fra i risultati reali delle attuali Scienze della vita e i concetti che dominano non solo la divulgazione di ogni livello ma anche i libri di testo scolastici di ogni ordine e grado, gli stessi testi universitari  e, ancora di più,  i mezzi di comunicazione di massa, dai giornali alle televisioni. 

Per dirla in altri termini, la concezione collettiva della vita sembra essere  generalmente molto più aderente ad una serie di metafore, originariamente sviluppate per “semplificare” la conoscenza dei sistemi viventi, che alla realtà, e, cosa ancora più preoccupante, é spesso sulle metafore  che si accendono dibattiti, si scontrano fazioni, si levano bandiere, non sulla vita vera. Il risultato è preoccupante perché così facendo di fatto si rimuove la realtà dinamica della Biosfera di cui noi facciamo parte e con cui si vive e si muore. Come vedremo la “vita virtuale” in cui ci muoviamo prevede strategie e progetti che collidono con la realtà e rischiano di portare la nostra specie ad una sorta di suicidio collettivo vissuto nella beata (o non beata) incoscienza del mondo virtuale da noi creato.

Paradossalmente le stesse comunità scientifiche non sono immuni da questo fenomeno tanto che valenti ricercatori sembrano avere comportamenti schizoidi quando, pur conoscendo a fondo la loro disciplina, rimuovono i dati in contrasto con la metafora collettiva, nella vita, nella divulgazione, nel dibattito e anche nelle azioni.

Vediamo allora per chiarire quanto sta avvenendo nelle scienze della vita dalla Biologia molecolare all’ecologia, alla stessa medicina. Questa area scientifica, come è noto, è stata fino alla metà dell’ottocento essenzialmente descrittiva e quando ha portato alla formulazione di teorie queste sono state raramente e solo in parte falsificate attraverso l’uso di metodi ed operazioni concettuali già ampiamente usati in altre discipline come la fisica e la chimica. Quando la sperimentazione è entrata di forza anche nella Biologia e nelle Scienze naturali, lo ha fatto in accordo con lo spirito della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, fortemente influenzato dalla “utopia meccanica” di stampo positivista e quindi tendente anche se in modo generalmente inconscio, a trovare conferme della assoluta equivalenza fra stato vivente e non vivente della materia.

Gregorio Mendel, ad esempio, fisico di formazione e struttura mentale, nei suoi studi sulla ereditarietà condotti sulla pianta di pisello, ha scelto di analizzare di generazione in generazione il comportamento di singoli caratteri (il colore del fiore, la forma del baccello) scelti perché sono presenti in varianti alternative (bianco/rosso, liscio/rugoso) tali da permettere di contare ad ogni generazione le piante che li mostravano. Mendel fece una prima serie di esperimenti analizzando un solo carattere e poi una seconda studiandone due insieme. I concetti che ne derivarono quasi quaranta anni dopo, all’inizio del Novecento, quando gli esperimenti di Mendel, rimasti a lungo nel dimenticatoio sono stati ripresi contemporaneamente da tre ricercatori, erano perfettamente adeguati alla concezione meccanica della vita che intanto si andava affermando. Le varianti (gli “alleli”), scelte ben distinte l’una dall’altra, si conservavano come  tali nelle progenie successive, i “fattori” che le determinavano si comportavano come indipendenti e si assortivano a caso di generazione in generazione. L’ereditarietà appariva quindi da un lato deterministica (un fattore = un carattere) e dall’altro probabilistica (distribuzione casuale degli alleli e dei geni). L’organismo, secondo quei dati, era determinato interamente dalla somma degli effetti degli alleli trasmessi dai genitori in una combinazione del tutto dovuta al caso.

Implicito in questa concezione è il concetto di “programma”, dato appunto dalla somma delle “informazioni” contenute nei geni ed alleli trasmessi. Ho usato non a caso i termini programma e informazione perché sono le parole chiave della “metafora informazionale” (Gagliasso, 1998) di cui un altro fisico, Erwin Schrödinger, gettò le basi negli anni “40 del Novecento traendo dai dati della giovane disciplina Genetica, la convinzione che ci doveva essere nei sistemo viventi  una macromolecola capace di contenere l’informazione necessaria alla “costruzione” degli organismi. Concludeva Schrödinger con perfetta consequenzialità, che se si fosse riusciti a “leggere” la macromolecola in questione si sarebbe potuto prevedere esattamente l’organismo ( E.Schrodinger, 1942).

Nei decenni successivi queste previsioni sembrarono confermate dalla scoperte della macromolecola in questione (il DNA) e del processo che permette di tradurre le informazioni per il progetto contenute nel DNA negli strumenti per eseguirlo ( le proteine).

Nel 1958 quindi, Francis Crick, anche lui fisico come Mendel e Schrodinger, che , insieme a Watson , biologo ma anche lui influenzato dal volume “Cos’è la vita” dello stesso Schrodinger, aveva scoperto la struttura cristallizzata del DNA, completa la “metafora informazionale” enunciando il “Dogma centrale della genetica molecolare “così da lui chiamato un po’ seriamente, un po’ per scherzo.

Il termine Dogma viene qui usato per sottolineare il carattere di universalità della “legge” che definisce e regola la vita. Si compie così il processo di reificazione della metafora informazionale e si passa dalla affermazione “gli esseri viventi sono come computer” a stabilire che sono dei computer e anche che la informazione in essi contenuta è di fatto utile per un solo programma.

La proposta implicita è quindi di affinare le tecniche di lettura dei programmi e imparare a modificarli permettendo così la autocreazione di esseri umani “ottimali” in quanto forniti dei geni che li rendono tali. Ovviamente l’ottimo, per definizione è uno solo, e quindi la proposta implicita è anche un invito alla omogeneizzazione dei sistemi viventi ad un “modello unico”.

Questo invito era stato già accolto da chi selezionava già piante ed animali cercando di raggiungere “ideotipi” ottimali (questo era il termine che si usava negli anni “60 del Novecento).

C’era quindi allora una perfetta coerenza fra dati e teorie scientifiche da un lato e prassi tendente alla omogeneizzazione e “macchinizzazione del Mondo” dall’altra. Anche in campo applicativo per un lungo periodo scienza, economia e prassi coerente sembravano essere vincenti anche se sia in Biologia che in Fisica permanevano correnti di pensiero diverse e si facevano luce teorie innovative. La strategia affidata a questi concetti è sembrata a lungo vincente tanto che uno degli esempi che ancora oggi si portano per  giustificarla  fu la “rivoluzione verde” lanciata su scala mondiale negli anni “60 del Novecento con l’obiettivo di eliminare la fame nel Mondo, proprio utilizzando varietà ottimali di piante che crescevano e producevano molto in qualsiasi ambiente con il supporto della chimica (fertilizzanti, pesticidi) dell’energia e della meccanica fornite dall’uomo.

Il grande programma della rivoluzione verde, fortemente finanziato dalla Comunità internazionale, portò alla istituzione di una rete di Centri di ricerca di eccellenza in cui fu raccolta una parte consistente della diversità delle piante coltivate ancora esistente, che fu la base per sviluppare nuove varietà altamente produttive secondo il modello dominante di ottimizzazione. La produzione di cibo pro capite mondiale subì una impennata e portò a notevoli effetti positivi sulle condizioni di vita in particolare in Asia e in America Latina, anche se non in Africa dove le debolissime economie locali non permettevano l’acquisto delle macchine e dei prodotti chimici indispensabili. Sembrava allora che l’ipotesi di un Mondo interamente meccanico e quindi prevedibile da parte degli esseri umani, corrispondesse interamente alla realtà della materia vivente e non vivente, ambedue “governate” degli stessi principi di base e cioè costituiti da elementi indipendenti assemblabili secondo programmi e progetti. Forse i primi, in ambito non solo scientifico, a mettere in dubbio questa “verità universale” che era alla base della ideologia utopica della crescita senza limiti delle attività umane e quindi delle loro produzioni, sono stati alcuni fra i fondatori di quello che sarà poi chiamato movimento ambientalista. Non a caso Rachel Carson, nel suo libro del 1962, “La Primavera silenziosa”, mette innanzitutto in discussione il concetto di prevedibilità degli effetti dell’intervento degli esseri umani sulla natura vivente descrivendone gli effetti negativi e mettendo in guardia dai pericoli. In modo ancora più concreto e con maggior durezza intervennero poi nel dibattito mondiale che si stava accendendo Barry Commoner nel 1972, con la prima edizione del suo volume “Chiudere il cerchio” e il Club di Roma che mise in guardia l’umanità offrendo dati precisi sulla dinamica del consumo delle risorse e introducendo il concetto di “limite dello sviluppo”. Si apre in quegli anni una discussione accesa fra i sostenitori del “modello meccanico” e la nuova corrente, con scambio di dati contrastanti sullo stato del Pianeta e sull’impatto di Homo Sapiens su di esso, conflitti duri e scambio di reciproche accuse. Come ciclicamente avviene il “paradigma” diffuso e dominante nelle società umane e soprattutto in quelle “sviluppate” cominciava a mostrare delle crepe e il dibattito in corso apriva la strada all’intensificarsi delle ricerche tendenti a risolvere le questioni poste sul tappeto. In fisica in particolare, in cui il determinismo era andato in crisi già da tempo, acquistavano rilevanza gli studi di dinamica non lineare da cui emergeva il concetto di “imprevedibilità intrinseca” dei sistemi costituiti da componenti connessi e fuori dall’equilibrio, sia viventi che non viventi.

I riscontri nella realtà delle teorie proposte in questo campo dalla nuova corrente di pensiero scientifico furono immediati in particolare in meteorologia con la scoperta dell’esistenza di limiti invalicabili alla capacità di previsione, mentre ci si cominciava a preoccupare della esistenza di fenomeni globali imponenti derivanti dallo sviluppo industriale senza limiti come l’effetto serra, il buco nella fascia d’ozono, le piogge acide ecc.

Nei primi anni ottanta anche fuori dalle comunità scientifiche si apriva un dibattito allargato che trovava terreno fertile soprattutto nell’area dell’ambientalismo e nella cultura diffusa a cui questo faceva riferimento.

Forse per la prima volta nella storia la discussione scientifica sui livelli di imprevedibilità e di rischio degli effetti delle azioni umane diventava oggetto di aspro scontro politico. Questo fatto nuovo era determinato dalla richiesta diffusa sulla base dei dati che arrivavano dalla ricerca, di modificare il modello economico del Mondo al fine di prevenire ed impedire i rischi di sconvolgimenti imprevisti della natura provocati dall’intervento della nostra specie. In un certo senso si faceva luce dopo molto tempo l’ipotesi che la natura non potesse essere considerata un oggetto inerte da modellare in modo del tutto prevedibile secondo progetti umani. A ben guardare in realtà si svolgevano due discussioni parallele che però si intersecavano e mescolavano in modo negativo.

Da una parte, nelle comunità scientifiche si entrava nel merito del comportamento dei sistemi che, insieme, costituiscono la Terra, lavorando sui dati anche con un grande sforzo di modellizzazione nel tentativo non solo di chiarire strutture e dinamica dei sistemi ma anche di ottenere indicazioni quantomeno sullo “spazio delle fasi” di questi e di cercare di ridurre il livello di incertezza delle dinamiche. Si passava da una serie di modelli più o meno matematizzati essenzialmente ad opera di matematici e fisici, spesso basati su concetti del tutto nuovi, allo studio ancora matematico sulle dinamiche da sistemi reali, alla raccolta dei dati ed alla sperimentazione condotta sia al fine di falsificare concetti e teorie. Questo con lo scopo di conoscere la situazione reale e predire gli sviluppi futuri, fatta salva l’incertezza intrinseca ormai confermata in molti casi.

Al di fuori delle comunità scientifiche ma con il contributo attivo di membri di queste si svolgeva invece lo scontro più vasto non fra modelli della materia vivente e non vivente ma fra diversi ipotesi di struttura sociale ed economica del mondo dietro le quali c’erano come sempre precise ideologie. In questo contesto lo stesso concetto diffuso di scienza ha subito profonde trasformazioni. In particolare verità locali della Scienza, passibili di essere continuamente modificate, completate, ripensate, sono diventate verità universali da utilizzare a mo’ di randelli contro altre verità spesso di opposto significato, altrettanto rigide e “certe”, tanto da confondersi, nell’immaginario collettivo, con dogmi di fede. Si è andato perdendo il concetto di falsificazione delle ipotesi e con esso si è rimossa la continua necessità di confrontare le verità  locali con la realtà materiale a cui si riferiscono. Questa si è quindi lentamente  andata offuscando mentre prendevano forza autonoma al suo posto le affermazioni in quanto tali che si tramutavano in bandiere, in slogan, in strumenti per giustificare scelte di campo e di progetto.

In questo modo, paradossalmente, le verità locali che vengono dalla scienza di fatto scomparivano perché diventate equivalenti a verità , questa volta considerate universali, opposte. Si perdeva così la possibilità di arrivare a conclusioni comuni e magari utili proprio perché si evitavano il confronto sulla realtà e la falsificazione. Questo fenomeno ha investito i campi più disparati. E’ stato ad esempio evidentissimo in certe fasi della discussione sul nucleare, dei dibattiti sull’effetto serra, ma è diventato particolarmente pesante quando si è esteso ai sistemi viventi.

Sono stati infatti  il già citato Dogma Centrale, le trasformazioni ideologiche che ne sono derivate e contemporaneamente lo sviluppo di metodi molecolari per la modificazione del DNA nonché le nuove tecniche riproduttive, in particolare per la clonazione degli animali, che hanno portato a considerare come veramente fattibile la tanto agognata “costruzione” di esseri viventi “ottimali”.

I termini “OGM” (organismi geneticamente modificati”) e “clonazione” sono diventati così da una parte simbolo del “progresso” umano e dall’altra prova del tentativo blasfemo e per questo pericoloso e condannabile dell’uomo di sostituirsi a Dio nella “creazione della vita”. Anche in questa discussione come in quella sui processi di cambiamento globale del Pianeta da parte di Homo Sapiens, i progressi reali delle conoscenze della scienza ed anche l’analisi dei successi e insuccessi delle nuove tecniche sono passati in secondo ordine, rimossi dall’immaginario scientifico e collettivo e dagli organi di informazione e divulgazione.

Tanto che nel momento in cui scrivo una vasta maggioranza delle persone sembra essere convinta, come risulta anche da una serie di sondaggi, che gran parte delle derrate alimentari di origine vegetale sia “OGM” e che la clonazione anche di esseri umani sani sia perfettamente fattibile e alle porte. Altrettanto diffusa è la credenza che la soluzione di tutti i mali, inclusa la infedeltà coniugale, sia l’individuazione del gene che la provoca e la sua modificazione con le tecniche dell’ingegneria genetica.

Non a caso infatti, la concezione deterministica della vita si estende sempre di più al comportamento umano ed è sempre più difficile sconfiggere la credenza diffusa della sua determinazione genetica. Permane così ad esempio, la classificazione degli esseri umani in “razze” o comunque in gruppi di persone definite non solo da singoli caratteri fisici come il colore della pelle ma anche da comportamenti collettivi tutti, nella credenza popolare e non solo, rigidamente controllati da geni.

Anche se non sempre apertamente le teorie e le prassi della eugenetica vengono sostenute per coprire le varie “pulizie etniche” che avvengono con sempre maggiore frequenza in molte parti del globo. Non si parla più, spesso solo per falso pudore, di “razza pura” come ai tempi del nazismo, ma le idee che sottendevano a questa concezione sono più che mai vive. Così come la falsa idea di un “progresso” basato sulla “ottimizzazione” degli esseri umani e sulla costruzione di un unico ideotipo “umano” ottimale da affermare in tutto il mondo, così come di ideotipo di piante ed animali si parlava nel caso della rivoluzione verde. La cosa per me particolarmente preoccupante non è tanto che questi concetti siano ancora presenti ma che tutto ciò avvenga in un periodo di straordinario cambiamento delle nostre conoscenze biologiche che sta facendo saltare, anche nel caso delle scienze della vita, come già è avvenuto nella fisica del Novecento, la concezione deterministica e meccanica del Mondo. Proverò qui a sintetizzare alcuni degli elementi fondamentali delle nuove scoperte, partendo dal concetto di adattamento molto chiaro nell’opera di Charles Darwin e poi distorto dalla corrente prevalente del neo – darvinismo e dal determinismo biologico del “Dogma centrale”. Per Darwin i processi con i quali gli esseri viventi si adattano ed evolvono sono:

la riproduzione e quindi la selezione naturale; b) la variazione; c) l’effetto diretto ed indiretto dell’ambiente; d) la variazione correlata. Adattarsi quindi significa cambiare costantemente in funzione del contesto non solo per opera della selezione naturale dal punto di vista genetico, ma anche modificandoci durante la vita per “l’effetto diretto e indiretto dell’ambiente”. Questo concetto è chiaro in molto Darwin ma soprattutto nella “Origine della variazione”, opera purtroppo quasi completamente dimenticata.

È implicito in questo pensiero che essendo i cambiamenti dell’ambiente in parte almeno imprevedibili, tali sono anche le modificazioni di “percorso” dei singoli organismi in risposta ad essi. Come avevano scoperto da tempo i fisici e aveva compreso implicitamente Darwin, anche nei sistemi viventi ci sono livelli intrinseci di imprevedibilità. Non solo, ma la plasticità è necessaria per la vita che è tale proprio grazie alla capacità di cambiare continuamente percorso, naturalmente entro i limiti imposti dagli strumenti disponibili. In altre parole, le “configurazioni” che ogni sistema vivente inclusi noi può assumere non sono infinite ( io sono stato e sarò finchè campo , moltissimi Marcello Buiatti diversi ma non diventerò mai un elefante). Ogni “individuo” ( cellula, organismo, specie, ecosistema) si muoverà durante la sua vita lungo un percorso imprevedibile ma pur sempre entro il suo “attrattore” costituito da tutti i percorsi resi possibili dal patrimonio genetico specifico del sistema, che , appunto , gli fornisce un “set” ampio di strumenti con i quali si può “auto-costruire” via via in modi diversi.

È ormai chiaro ai biologi che l’adattamento si consegue attraverso “strategie esplorative” (Gerhart e Kirschner) fondata sulla capacità di variare e, contemporaneamente di essere in grado di “scegliere” quale parte di variabilità usare di momento in momento, di luogo in luogo, di contesto in contesto. Diversi gruppi di organismi hanno sviluppato durante l’evoluzione, strumenti e processi differenti per ottenere la variabilità necessaria. I batteri, che hanno tempi di vita dell’ordine di decine minuti, e un solo cromosoma, cambiano modificando il loro DNA (mutando) e scambiandosi DNA fra individui anche appartenenti a specie molto lontane. Questo perché in questi organismi qualsiasi mutazione “positiva” in un dato contesto ha immediatamente effetto e la velocità di riproduzione ne permette una diffusione nella popolazione estremamente rapida.

Coerentemente con questa strategia i batteri hanno anche sviluppato sistemi molto sofisticati che aumentano la frequenza di mutazione spontanea in caso di stress “segnalato” da un particolare gene che, mediante un suo prodotto che percepisce la condizione di stress, ne attiva altri che riparano o replicano il DNA commettendo “errori”. L’aumento di mutazioni permette quindi di disporre di una variabilità molto superiore a quella normale e quindi incrementa la probabilità di specifici mutanti adatti a resistere allo stress che quindi vengano selezionati.

Nelle piante e negli animali esistono meccanismi di questo tipo che però agiscono in particolare su geni in cui la variabilità è particolarmente importante. È questo il caso dei geni delle immunoglobuline (gli anticorpi) in cui muta ad alta frequenza proprio la parte di DNA corrispondente alla zone dell’anticorpo che serve a “riconoscere il nemico” (l’antigene).

Le mutazioni in questo caso avvengono solo nelle nostre cellule produttrici di anticorpi e non nella linea germinale. Questo fa sì che ogni essere umano sia in grado di rispondere a “nemici” molto diversi “riconoscendoli” con gli anticorpi e bloccandoli. Qualcosa di simile avviene per i geni che permettono di produrre le “caderine”, proteine coinvolte nella formazione di connessioni fra i neuroni. Qui l’importanza della variabilità sta nella possibilità di variare il più possibile le combinazioni di neuroni che si collegano. Ambedue questi “generatori” di variabilità agiscono durante i cicli vitali e non portano alla formazione di varianti ereditari. E infatti, la vita di animali e piante è molto più lunga di quella dei batteri per cui è durante la vita e non solo di generazione in generazione che è necessaria una forte plasticità. È per questo che oltre ai meccanismi di aumento di frequenza di mutazioni alcuni dei quali anche in animali e piante si attivano di più in ripresa di stress, negli organismi “superiori” si sono affermati molti processi che non si basano sulla modificazione dei geni ma sulla modulazione della loro espressione e sulla “ambiguità” che sembra essere la regola in questi esseri viventi.

La dimostrazione del fatto che i geni possono essere “ambigui” e cioè contenere informazioni per più di una proteina, ci viene da quanto si è scoperto sul nostro genoma in cui solo lo 1.5% del DNA è costituito da geni “classici” e cioè da sequenze che contengono informazioni per proteine. Noi abbiamo infatti solo circa 23000 geni ma siamo in grado di produrre più di 100.000 proteine il che implica ovviamente che ogni gene può essere “letto” in più modi e/o lo RNA che viene da esso trascritto può essere “riarrangiato” prima di essere tradotto. Inoltre, si stanno scoprendo una serie di meccanismi molto sofisticati, formatisi durante l’evoluzione per cui non solo combinazioni diverse dei geni che possediamo possono essere attivate ma la attivazione può essere modulata quantitativamente con una serie molto complessa di processi.

Animali e piante posseggono quindi una enorme capacità di cambiare che usano modificandosi in dipendenza del contesto in cui si trovano di momento in momento durante il loro ciclo vitale. Le “scelta” di come, quando e quanto cambiare è resa possibile da un complesso ed efficiente sistema di riconoscimento dei segnali che vengono recepiti e “passati” all’interno delle cellule, giungendo al DNA in modo da attivarlo, reprimerlo, modularne l’espressione, leggerlo in più modi ecc. Il recepimento dei segnali a tutti questi livelli avviene per “riconoscimento” fra forme complementari delle proteine e del DNA. Quest’ultimo infatti non ha affatto sempre la forma a doppia elica tipica del DNA cristallizzato scoperto da Watson e Crick ma ne assume di diverse a seconda della sequenza in cui si trovano i suoi componenti.

I processi e gli strumenti per indurre variabilità e per scegliere di volta in volta quella utile presente nelle piante e negli altri animali ovviamente sono anche patrimonio della nostra specie.  Homo sapiens come si è discusso parlando della sua evoluzione, ha adottato una strategia diversa basata sulla enorme capacità di informazione del suo cervello.

 Il cervello infatti  cambia continuamente in funzione dei segnali che ci giungono dall’esterno e la sua modificazione oltre ad essere in qualche modo correlata con il pensiero ha effetti estremamente importanti anche sul piano fisico. Corpo e cervello infatti sono in dialogo intenso e continuo e non divisi come è opinione corrente. È del 2005 la scoperta che l’attitudine “affettuosa” delle madri nei topi, determina nei figli e nelle figlie lo sblocco di un particolare gene che a sua volta, se attivo, porta ad una maggiore vivacità e tendenza all’affetto verso le future generazioni. Il processo di “sblocco” di questo gene si ripete poi automaticamente di generazione in generazione per via materna senza che cambi in alcun modo la struttura del gene per cui si può adesso dire che il comportamento può essere trasmesso dalle madri ai figli attraverso modificazioni di funzionamento ma non mutazioni di geni che regolano la vita. Anche qui è la comunicazione che determina il percorso dei sistemi viventi e infatti questi si mantengono tali fino a quando viene conservata intatta la loro armonia e le reti che li costituiscono. È vera quindi anche l’ultima “legge” di Darwin, quella della “variazione correlata”, per la quale il cambiamento dei singoli componenti di un sistema è limitato dalla presenza degli altri con cui deve mantenere un rapporto compatibile con l’intera struttura e dinamica della rete. E infatti, come ho discusso ampiamente in un recente volume (Buiatti 2004), il “benevolo disordine” (la plasticità) serve proprio a mantenere le connessioni anche in presenza del “disordine malevolo”, quello dei continui “colpi” che vengono inferti ad ogni organismo quasi casualmente e ne possono “rompere” e disgregare la struttura. Plasticità, comunicazione, struttura a rete sono alla base di tutti i sistemi viventi ad ognuno dei diversi livelli di organizzazione gerarchica, dalla cellula alla colonia di cellule, all’organismo, alla popolazione, agli ecosistemi, alla Biosfera. Si può anzi dire che nella Biosfera i collegamenti non sono solo “orizzontali” fra gli elementi presenti nelle reti allo stesso livello gerarchico, ma anche verticali per cui qualsiasi modificazione non ha solo effetti, positivi o negativi che siano, solo sulla rete a cui appartiene l’elemento, ma si ripercuote su  tutta la “piramide”. Ecco perché l’impatto della specie più generalista di tutte, la nostra, con i suoi atti localizzati in varie parti del Globo, lo influenza tutto in modo imprevedibile. Ecco perché le conseguenze degli impatti locali delle nostre azioni non si sommano soltanto ma hanno sinergie positive determinando fenomeni globali del tutto impensati fino agli anni 70-80 del Novecento.

 

3. Il conflitto fra immaginario reificato e realtà

 

Il punto di vista ora discusso è ormai ampiamente accettato nelle scienze della vita e costituisce una importante novità nelle nostre conoscenze, molto diverse da quanto si pensava precedentemente. Le nuove concezioni sono state rese possibili negli ultimi anni dai progressi delle scienze di cui ho parlato fino ad ora, prima in fisica e poi in Biologia e Scienze naturali e anche dai dati ottenuti grazie alla   alta efficacia raggiunta dai metodi di monitoraggio delle condizioni della Terra che sfruttano conoscenze e tecniche sempre più sofisticate. Ne è testimonianza ad esempio una opera monumentale di iniziativa ONU conclusa temporaneamente nel 2005 e disponibile tutta on-line per chiunque,  il “Millenium ecosystem assessment”. In questi volumi si fa una sintesi di grande interesse dello stato del Pianeta non soltanto dal punto di vista dei cambiamenti che avvengono a livello biologico ma anche da quello della interazione intensa fra opera dell’uomo e delle sue economie da una parte e Biosfera dall’altra.

Si possono così consultare una serie di capitoli che riguardano i cosiddetti “servizi degli ecosistemi”, in termini di valore economico ed anche monetario delle risorse naturali, non singole ma integrate come sono nella realtà degli ecosistemi stessi. Questo a chiarire che se si danneggia un elemento di un ecosistema (ad esempio lo “stato vitale” di un terreno agricolo) il danno si ripercuoterà sull’intero sistema e sui servizi da questo resi (ad esempio la quantità, prezzi e i costi dei prodotti agricoli). Ormai queste nozioni di base e anche i dati più recenti sono alla portata di tutti, così come lo sono, anche se  ancora soprattutto in ambito scientifico, le modificazioni che hanno subito e subiscono rapidamente le scienze della vita. Contemporaneamente gli stessi giornali e almeno una parte degli altri mezzi di comunicazione di massa, riportano, anche con risalto, i segnali di pericolo che ci vengono dal comportamento della natura intorno a noi che, come tutti ormai sanno è in parte consistente determinato dalle nostre azioni.

È anche sempre più evidente che il consumo sconsiderato delle risorse naturali sta rapidamente diventando un elemento fondamentale di crisi delle economie. Tutti conoscono i problemi creati dalle crisi energetiche, il costo delle sempre più frequenti “catastrofi naturali” legate al cambiamento climatico, i pericoli derivanti dalla rapida diminuzione dell’acqua dolce disponibile, dall’aumento dei rifiuti da smaltire, dalla incapacità della agricoltura di sostenere senza l’aiuto dei Governi i costi aggiuntivi derivati dalla erosione, desertificazione e degrado dei terreni  provocati proprio dalla pervicacia con cui si continua a considerare come obiettivo  un unico modello di agricoltura ottimale in tutti gli ambienti fisici e culturali basato sulla utilizzazione di chimica ed energia al posto delle risorse naturali ecc.

Infine, a differenza di quanto avveniva ancora dieci, quindici anni fa nella scienza, l’utopia meccanica non è più la linea di pensiero dominante e le voci di chi nega l’impatto della nostra specie nel determinare il futuro della Terra sono sempre più deboli e contraddittorie. Nonostante questo, le conoscenze attuali giungono presentate alla gente sempre più distorte e vengono rapidamente o dimenticate e rimosse o interpretate in modo falsato, mentre i tentativi di porre rimedio ai danni creati si fanno sempre meno convinti e più deboli. Negli anni ’90 del Novecento sembrava in realtà che le società umane avessero compreso la gravità della situazione e si accingessero ad utilizzare di nuovo la strategia del cambiamento in positivo ritrovando un nuovo rapporto con la Natura.

Nel 1992 si tenne la Conferenza di Rio de Janeiro da cui uscirono una serie di Convenzioni sul clima, la biodiversità, la desertificazione,ecc. che contenevano impegni ben precisi e furono firmate dalla maggioranza dei Paesi. Alla Conferenza erano presenti non solo Capi di Stato e di Governo ma anche gli altri attori dello scenario internazionale quali le imprese, le organizzazioni sindacali, le organizzazioni non governative ecc., e sembrava aperta la strada, sotto l’egida dell’ONU, per il primo accordo globale della storia che riguardava i temi ambientali. Non è successo così.

Le Convenzioni, che non hanno mezzi coercitivi a loro disposizione, si sono riunite più volte discutendo accanitamente e concludendo le discussioni con nuovi documenti e nuovi progetti che però non vengono mai attuati dai Governi che pure li avevano firmati. Non solo ,ma , come è noto, gli Stati Uniti, dove hanno ancora sede molte delle grandi imprese multinazionali, non hanno mai firmato la Convenzione per la Biodiversità e si sono ritirati da quella di Kyoto che sancisce la necessità di controllare i gas serra. Con il risultato che si grida la vittoria quando si raggiunge un accordo che ppoi non verrà generalmente rispettato su una riduzione del tutto insufficiente delle emissioni.

Contemporaneamente si assiste alla crisi di tutti gli organismi internazionali, dalle stesse Nazioni Unite, alla Organizzazione Mondiale per il Commercio per nominarne solo due di grandissima importanza. Così decisioni fondamentali per la vita nostra e degli altri esseri viventi, come le guerre, le azioni di sfruttamento delle risorse, le stesse leggi che regolano il commercio internazionale incluse quelle sui diritti di proprietà intellettuale e delle risorse stesse,vengono sempre più prese unilateralmente o con accordi presi autonomamente da pochi attori. Questo è quanto avviene ad esempio nel caso di alcuni argomenti cruciali come quello della protezione della proprietà intellettuale ( leggi brevetti industriali) e anche le regole di scambio fra Paesi. Ecco, su questo argomento , che investe ad esempio tutto il problema della “sovranità sul cibo” e sulla variabilità genetica delle piante coltivate e degli animali allevati, nonché le regole del commercio fra Sud e Nord del Mondo, fallito il WTO, si sono fatti recentemente ben 2000 accordi bilaterali , ognuno diverso dall’altro , per singoli prodotti o gruppi di prodotti, alla stesura dei quali contribuiscono in genere gi Stati Uniti e l’Europa da una parte e alcuni Paesi in via di sviluppo dall’altra. E’ facile comprendere come in queste situazioni , i più deboli, che non si possono coalizzare come hanno fatto nel WTO, si trovano in una condizione di inferiorità e firmano condizioni capestro che non sarebbero passate a livello globale e che spesso smentiscono le regole internazionali.

Non solo, ma lo stesso potere dei Governi va diminuendo e viene di fatto sostituito da quello delle grandi imprese che costituiscono ormai una rete alternativa di consultazione, discussione, decisioni. Contemporaneamente la stessa struttura delle economie mondiali cambia, lo scambio di moneta è sempre meno coperto dallo scambio di beni materiali ed acquista vita propria sempre più globale anche grazie all’enorme potenza dei mezzi informatici.

È coerente con questo contesto la affermazione del parametro “Prodotto interno lordo” come praticamente unico indicatore di benessere. Non che non lo sia in parte, naturalmente. Non vi è dubbio che la circolazione monetaria e la quantità di spesa sono correlati, in particolare nei Paesi sviluppati, con l’occupazione, il lavoro e la crescita nel suo complesso. Tuttavia, ad esempio, il PIL aumenta in molti casi in cui invece diminuisce il benessere come avviene in coincidenza con catastrofi naturali per l’aumento di investimenti per la ricostruzione o con lo sfaldarsi dei servizi collettivi fra cui quello sanitario per l’intervento delle imprese che rafforzano così la circolazione monetaria.

Non è nemmeno detto che la riduzione delle risorse naturali abbassi necessariamente il PIL. Hanno visto bene da questo punto di vista imprese come Monsanto, quando ha iniziato una campagna di acquisti delle riserve di acqua dolce a cominciare dal Kasakhstan prevedendone l’aumento di prezzo dovuto alla crescente scarsità, o, diverso tempo fa, la Merck quando si è aggiudicata le riserve di biodiversità del Costarica.

In ambedue i casi le risorse , che erano “beni comuni”, vengono trasformate in “commodities” il che determine di per sé un aumento di spesa per l’incidenza del dovuto profitto delle imprese, senza apprezzabili miglioramenti dello strato delle persone che abitano nei Paesi in cui , nell’esempio, acqua e biodiversità si trovano. Si sta cioè apparentemente assistendo ad un distacco progressivo delle stesse economie dal valore materiale delle risorse e anche dei prodotti che ne derivano, e ad una corrispondente distorsione del concetto stesso di valore nelle menti individuali e collettive.

Nel quadro di questa progressiva virtualizzazione della economia non meraviglia l’affermarsi di una concezione anch’essa virtuale della vita che impedisce alla discussione democratica sulle scelte di incidere sul mondo reale. È questa la probabile ragione del potente meccanismo di rimozione delle notizie che corrono il pericolo di obbligarci ad una non voluta “verifica di realtà”. È stato probabilmente per questo che sono stati passati ad esempio sotto silenzio i ben otto articoli apparsi in un recente numero di Science, sulla accelerazione imprevista dello scioglimento dei ghiacci ai poli. Eppure da quegli articoli emergeva la previsione, ad esempio, che nel 2100, quando molti dei nostri nipoti potranno essere vivi, una parte molto consistente dell’Italia sarà sommersa. Così come non vengono nemmeno notate le notizie ricorrenti di invasione da parte di meduse delle nostre acque, del cambiamento rapidissimo degli ecosistemi montani, della scomparsa dei ghiacciai una volta noti come meraviglia del Mondo ecc. La attitudine ad imitare gli struzzi evidentemente si sta diffondendo in modo veramente preoccupante e tutti sembrano ragionare in termini di vita virtuale staccata da quella reale con una ovvia e conseguente perdita immediata di capacità di adattamento al continuo fluire nel tempo dei contesti reali

Ma forse l’esempio più cogente di quanto sta avvenendo ci viene proprio dal modo con cui vengono presentate scienza e tecnologia. La prima appare sempre di più nei mezzi di comunicazione di massa come erogatrice di verità universali ed assolute che sembrano confermare i concetti della onnipotenza umana, della prevedibilità e quindi staticità del Mondo e conferire a chi fa scienza capacità magiche di cambiare il mondo a volontà. Si fa strada così la convinzione che le nostre sorti future siano in mano a maghi della scienza, un bel modo per scaricare delle responsabilità delle scelte chi le compie. Così saranno gli OGM o altre fantasmagoriche tecniche che salveranno gli esseri umani dalla piaga della fame e non le politiche di interazione economica positiva con il Paesi più poveri,  la modificazione dei geni e non il miglioramento delle storie di vita e i servizi sanitari che ci faranno vivere di più e meglio ecc. Questo naturalmente non certo per demonizzare le nuove tecnologie che invece potranno essere utilmente usate ma solo se si terrà conto della necessità di cambiare , anche co il loro aiuto, le politiche alienate attuali tornando ad una concezione più realista della vita e delle sue necessità.

Purtroppo ilo valore della scienza come acquisizione di conoscenza attraverso il dubbio , la solo capace di cambiare e proporre sempre nuove soluzioni,  esce completamente snaturata dal processo in corso mentre si avvalora una visione deterministica e meccanica della Natura diretta e programmata da una sorta di “scienziati – Dei” del tutto virtuali. Per quanto riguarda la tecnologia gli occhi del Mondo appaiono ora puntati proprio sulla “utopia meccanica” e cioè sul sogno perverso della costruzione di una natura vivente tutta ottimale ed omogenea.

Nel campo delle scienze della vita i simboli di quella “ideologia” corrente sono la clonazione e la “ingegneria genetica” erroneamente denominata biotecnologia. Che si tratti di una vera e propria ideologia è chiarito dal fatto che ambedue le tecnologie si sono per ora rivelate fallimentari sul piano dello sviluppo di prodotti utili e vengono invece presentate come quelle che risolvevano i problemi della salute e della produzione di cibo. Nel caso della clonazione vera e propria che punta alla produzione di tante copie degli organismi “migliori” da cellule di individui “ottimali” adulti, il magro risultato è costituito, dopo tanti anni di ricerca da poche centinaia di organismi nessuno dei quali stia bene in salute a detta di Wilmuth, il padre di Dolly.

D’altra parte la ingegneria genetica e cioè il trasferimento di geni da una specie ad un’altra non interfertile, ha solo permesso , dopo trenta anni di ricerca mondiale,  l’immissione in commercio di alcuni ceppi batterici produttori di farmaci, di soli due tipi di piante (resistenti a diserbanti e/o insetti) e di nessun animale. La ragioni biologiche di questi fallimenti sono note. Per la clonazione da adulti sta nel fatto che le cellule di un animale maturo sono diverse le une dalle altre in quanto in ognuna sono attivi solo i geni utili alla sua funzione specifica nella “divisione del lavoro” dei nostri organismi, mentre gli altri sono spesso bloccati permanentemente e in modo irreversibile.

I pochi individui clonati hanno quindi sempre dei problemi funzionali dovuti proprio alla difficile utilizzazione di geni essenziali dell’organismo prodotti . Nel caso degli animali e delle piante geneticamente modificati il problema sta nel fatto che un gene “alieno” introdotto in un organismo complesso che interagisca con il suo metabolismo provoca inevitabilmente squilibri della “rete” dell’ospite. Nel caso degli animali, che peggio sopportano modificazioni di questo tipo, si hanno individui tanto disturbati da non essere produttivi. Nonostante questi magri risultati ben 90 milioni di ettari al Mondo sono coltivati ad OGM e le imprese di ricerca in quello come in altri campi fioriscono. Questo avviene perché il fallimento materiale è mascherato dalle cospicue sovvenzioni alle imprese soprattutto per l’esportazione, il profitto ricavato dai brevetti non è necessariamente collegato al loro uso nella produzione  ma alla quotazione in borsa delle imprese e al “venture capital” che riescono a raccogliere. Così come succede nel caso delle nanotecnologie, un’altra serie di pratiche innovative che senza dubbio possono diventare utili nel futuro ma che per ora sono in gran parte nei laboratori e, naturalmente nei mercati azionari. Così si perde di fatto ogni possibile impatto positivo della trasposizione in tecnologia delle nuove conoscenze scientifiche utilizzate essenzialmente solo come strumenti di controllo e di attivazione di circolazione monetaria.

Tutti i processi  discussi fino ad ora appaiono in costante accelerazione come in accelerazione sono i fenomeni globali del pianeta come risulta chiarissimo dal “Millennium ecosystem assessment “ precedentemente citato da cu risulta che sono in accelerazione tutti i parametri , dall’uso della energia alla emissione di gas serra, al numero di disastri naturali per anno, all’aumento di temperatura, allo scioglimento dei ghiacciai , fino alla perdita di biodiversità che è stata stimata a mille volte quella avvenuta in occasione delle altre cinque estinzioni di massa avvenute nel nostro pianeta. E d’altra parte , come abbiamo visto, è proprio con la plasticità e la diversità che gli esseri viventi si adattano e sopravvivono. E purtroppo, come si perdono le finti di plasticità degli altri esseri viventi così avviene con noi esseri umani, come è testimoniato dalla riduzione rapidissima del numero di lingue monitorata da “Terra-Lingua” una meritoria organizzazione che insieme al WWF internazionale ha pubblicato ondine un altro volume di grande interesse. Del resto tutti noi sappiamo che anche nei Paesi in via di sviluppo la tendenza alla omogeneizzazione è sotto i nostri occhi e investe i prodotti che si trovano sui mercati dei diversi Paesi ma anche i comportamenti , sempre meno diversificati in culture anche con storie molto diverse.  La sensazione che si trae da tutto questo è che bisogna compiere una collettiva verifica di realtà e anche rapidamente appunto per la accelerazione dei processi negativi. Non sarà facile tuttavia che questo avvenga e che si riesca ad andare ad una inversione di tendenza che deve essere globale per avere veramente effetto. Questo perché , mentre si perde diversità, contemporaneamente si perdono le connessioni fra i componenti umani del sistema Terra, che sono poi quelli con maggiore impatto su di esso. E, come ho accennato prima, un sistema vivente , e così anche ogni nostra società, ha bisogno di plasticità ma contemporaneamente anche di armonia e connessioni. Un sistema disconnesso è un sistema che va alla distruzione come avviene anche a ciascuno di noi quando la capacità di connettere i nostri componenti si riduce.  Infatti per questo si muore e si ritorna in “polvere” e cioè ad elementi separati ed indipendenti l’uno dall’altro perdendo via via con l’invecchiamento la capacità di cambiare e cioè di recepire segnali, trasmetterli e mettere in atto sistemi di difesa.

Purtroppo la frammentazione delle società e in genere del Mondo umano è una conseguenza abbastanza logica proprio della imposizione di un unico modello culturale, di vita, di economia in quanto come sanno bene i fisici , ogni struttura rigida ed omogenea è una struttura fragile , che si spezza facilmente. Se questo è vero in genere, lo è ancora di più nel caso dei sistemi viventi e fra questi, dei sistemi umani, per la importanza che per noi hanno sempre assunto le comunità e con esse i legami fra individui e famiglie, le identità culturali e anche religiose ecc. Ora, la velocissima perdita dei linguaggi, non è che un piccolo segnale di quanto sta avvenendo. I linguaggi  infatti, non a caso, in particolare nelle zone del Sud del Mondo, più ricche di culture diverse, si perdono insieme alla variabilità genetica di piante ed animali ad uso agricolo. La ragione sta nel fatto che i contadini, per i costi crescenti e i prezzi bassi delle agricolture del “modello unico”, sono costretti ad abbandonare le campagne e vanno nelle città, dove però non si inseriscono in comunità operaie come è avvenuto nel Nord del Mondo, ma nelle favelas  , dove perdono lingue e identità e parlano strani miscugli di parole cadendo spesso a livelli bassissimi di colloquio e di conoscenza. Allo stesso tempo la variabilità genetica dei semi e degli animali si perde perché vengono abbandonati animali domestici e piante. Nel Nord del Mondo la situazione è diversa anche se anche lì con la scomparsa dell’artigianato e delle piccole imprese e dei caratteri di identità locale di comunità, si va verso una rigida omogeneizzazione e un aumento corrispondente del tasso diffuso di violenza in cui si inseriscono malamente i profughi dal Sud povero e alla fame. Contemporaneamente sembra ridursi anche lo strumento principe dell’adattamento umano, il pensiero individuale e collettivo, costretto come è ad adeguarsi in un sempre più ristretto codice di comportamento coerente con il rigido modello imperante. I segnali di questo processo stanno nei mezzi di comunicazione di massa ma anche nel rapido aumento della frammentazione del lavoro in coerenza con il modello statunitense, che distrugge anche questo tipo di identità individuale ma soprattutto di comunità , degrada la qualità del lavoro stesso, ne distrugge il valore e la autonomia. La frammentazione in gruppi di individui e in individui singoli si estende ormai a livello mondiale, fra gli Stati ma adesso sempre di più all’interno degli Stati, fra gruppi etnici,  religioni, gruppi politici ecc. Contemporaneamente , come ho sottolineato prima, le organizzazioni internazionali perdono capacità di impatto, e quindi anche la forza necessaria a intraprendere il cambiamento di rotta globale necessario ed urgente. Non pare che il Mondo si renda ben conto di quello che sta accadendo o meglio sembra che non voglia sapere . Come è schizofrenico a volte il pensiero di chi fa scienza così lo è quello individuale e collettivo. Basti dire che ancora , la vastissima maggioranza degli esseri umani in particolare nel Paesi industrializzati rifiuta di ammettere lo stretto collegamento fra ambiente ed economia considerando la salvaguardia del primo semmai solo come valore morale, estetico, o tutt’al più, come modo per conservare nicchie piacevoli in cui andare in vacanza. E’ impressionante come , in tutti i progetti , in tutte le leggi promulgati dai Governi di ogni livello nella scala gerarchica del potere democratico, la salvaguardia dell’ambiente occupi capitoli separati e sia gestita conseguentemente da strumenti di governo anch’essi separati. In Italia ad esempio i Comuni, le Province, le Regioni , hanno assessorati all’ambiente separati da quelli che si occupano di attività  produttive industriali e dagli altri che invece si occupano di agricoltura.

Così Piani Regionali di sviluppo e leggi finanziarie nazionali contengono decisioni separate e frammentate e Assessori e Ministri dell’Ambiente si vantano di avere ottenuto qualche finanziamento “anche” per questa area, considerata anche da loro quindi implicitamente del tutto staccata dal resto . Per questo non si progettano strategie di sviluppo , che veramente contengano da un lato  obiettivi di uso oculato delle risorse e dall’altro abbiano la sufficiente lungimiranza per vedere gli effetti futuri delle operazioni economiche proposte sulle risorse stesse e cioè ancora una volta su aria, acqua , fuoco ( energia), terreni, la base di sempre della vita.

E’ ovvio poi , che se questo avviene a livello locale e nazionale , ancora di più sarà presente a quello globale. Il lavoro che aspetta l’umanità se vuole sopravvivere è quindi immenso e intanto consiste nel recuperare gradi di libertà al nostro pensiero individuale e collettivo e contemporaneamente ricostruire i legami fra pensieri, fra individui, fra etnie e religioni , fra Stati con una visione veramente globale dei problemi , l’unica che ci possa salvare. Non si tratta cioè di imporre un modello omogeneo rigido opposto a quello ora in atto, ma invece di liberare la nostra capacità di adattamento dai vincoli pesanti che le abbiamo dato e utilizzarne gli strumenti per inventare comportamenti diversi ma armonici delle nostre comunità. In questo rientra ad esempio, tanto per chiarire, non la eliminazione del libero mercato ma la sua reale attuazione, non solo all’interno degli Stati ma su scala globale. Viene da chiedersi , anche se la risposta è facile, come mai nessuno abbia mai veramente proposto una legge antitrust a valore internazionale . Un atto di questo genere , da solo, avrebbe conseguenze positive enormi perché toglierebbe il vantaggio che hanno sulle altre imprese quelle internazionali, mai o quasi mai in  condizioni di monopolio nei singoli Paesi ma tendenti a questo a livello globale e proprio per questo tanto forti da imporre un loro modello unico di omogeneizzazione. Forse  sarebbe il momento di smettere di considerare queste imprese come prodotto della azione del Diavolo e invece tentare nel concreto di ridare libertà al sistema e di favorire le connessioni fra diversi prendendo magari a modello un oggetto veramente e solamente umano , il nostro cervello, e la nostra capacità logica e di invenzione adattativa che il milione di miliardi di connessioni possibili fra neuroni ci dà.       

 

–M.Buiatti, 2000, Lo stato vivente della materia, UTETlibreria

–M.Buiatti, 2004, Il benevolo disordine della vita, UTETlibreria

–R.Carson, 1962, La primavera selezione , Ed. it. Feltrinelli, 1963

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 Marcello Buiatti