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Gli stati africani dicono no alla fine del protocollo di Kyoto

14 dicembre 2009 0 commenti

Sventata la rottura dei negoziati dopo la protesta e la sospensione dei lavori da parte dei delegati africani, a quattro giorni dalla conclusione, la conferenza sul clima di Copenaghen registra più divisioni che punti di intesa. E sullo sfondo delle tensioni tra Cina e Stati Uniti si alza un castello di incomprensioni e distinguo che rallenta il cammino verso l’obiettivo perseguito: trovare un accordo su come limitare il riscaldamento del pianeta a un massimo di due gradi centigradi. “Ci sono molte questioni da risolvere nei prossimi giorni – riassume il ministro britannico dell’Ambiente Ed Miliband – i dirigenti sono praticamente in strada per venire qui a Copenaghen. Il loro ruolo è importante ma i negoziatori e i ministri non possono lasciare tutto a loro”. Venerdì per il vertice conclusivo sono attesi oltre 110 capi di stato e governo. L’allarme negoziale quotidiano è scattato oggi con l’abbandono dei lavori da parte dei Paesi africani, appoggiati dal G77, il club dei Paesi in via di sviluppo. Una mediazione della presidenza danese ha poi convinto i delegati a partecipare alla seduta plenaria, con la promessa che una parte dei lavori sarebbe stata dedicata esclusivamente al Protocollo di Kyoto. La preoccupazione africana, e in generale dei Paesi meno industrializzati, è l’assenza di dibattito sul Protocollo che sino ad ora è l’unico strumento vincolante. Un poco interesse che si traduce in poca voglia di rinnovare l’impegno per una seconda fase, dopo il 2013. Ad alimentare veramente i timori di un fallimento del summit, però, è il duello a distanza tra Usa e Cina. Gli Stati Uniti ritengono che la bozza di accordo stilata da Pechino – e per ora non respinta – sia squilibrata a vantaggio dei Paesi in via di sviluppo, Cina in particolare. I cinesi però mettono le mani avanti: “non saremo d’ostacolo a un accordo”, ha dichiarato il viceministro agli Esteri cinese He Jafei. “In caso di mancato accordo, so che qualcuno dirà che è colpa della Cina. E’ un sotterfugio dei Paesi sviluppati: devono considerare le loro posizioni e non usare la Cina come pretesto”, ha sottolineato il diplomatico. Intanto a Copenaghen è arrivato Al Gore, paladino degli ecologisti americani e profeta del disastro imminente se non si cambia direzione in modo drastico. Il cambiamento è già in atto, ha detto, e la calotta polare artica potrebbe scomparire, nel periodo estivo, già tra 5 o 7 anni. Oggi, poi, un migliaio di persone hanno manifestato per reclamare l’apertura delle frontiere ai ‘rifugiati climatici’. Ma la vera calca si è verificata all’ingresso del Bella Center, dove centinaia di giornalisti, delegati, membri di organizzazioni non governative in attesa di accredito hanno formato una enorme fila, con sei/otto ore di d’attesa nel gelo danese. Un trionfo di inefficienza targato Nazioni Unite nella civile Danimarca.