Home » Redazione Ecquo » Clima »

Cmcc: ecco il rapporto sul clima in Italia

15 aprile 2010 0 commenti

Autorevole, scientifico, puntuale, il rapporto del Cmcc, il Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici “fotografa” le prospettive per il nostro paese in termini di impatto dei cambiamenti climatici. Quella che presentiamo è una ampia sintesi, lontana da catastrofismo e, ovviamente, negazionismo. Non contiene dati nuovi, ma cosegna lo stato dell’arte delle conoscenze attuali. Chiunque volesse sapere quello a cui andiamo incontro, dovrebbe leggerselo.

Illuminante.

 

(Alessandro Farruggia)

 

image

La variabilità e le tendenze del clima in Italia nel corso degli ultimi due secoli
Teresa Nanni, Maurizio Maugeri, Michele Brunetti

E’ stata realizzata una banca dati di serie storiche ultrasecolari di parametri meteorologici che copre uniformemente il territorio italiano e che ha consentito di colmare una fondamentale lacuna della comunità scientifica nazionale in questo ambito. La banca dati contiene oltre a temperatura e precipitazioni anche pressione atmosferica, copertura nuvolosa, eliofania, umidità relativa e pressione parziale di vapore. La risoluzione delle serie è per molte stazioni giornaliera. Assieme ai dati sono state raccolte anche tutte le notizie relative alla storia delle varie stazioni meteorologiche (spostamento delle stazioni, sostituzioni di strumenti, malfunzionamenti degli stessi, etc.); tutte queste preziose informazioni si sono rivelate di fondamentale importanza nella fase di “omogeneizzazione” dei dati, necessaria per “ripulire” le serie meteorologiche da tutti i segnali di origine non climatica. La qualità di questa banca dati, ha garantito una ricostruzione attendibile della variabilità e delle variazioni climatiche avvenute in Italia negli ultimi 200 anni. In particolare, l’analisi delle serie medie relative a varie aree del territorio nazionale ha evidenziano come in Italia, nel corso degli ultimi 150-200 anni, la temperatura dell’aria sia cresciuta di circa 1 °C per secolo, con un comportamento geograficamente uniforme e senza evidenti modulazioni stagionali. Contemporaneamente si è osservato un decremento delle precipitazioni, anche se di lieve entità e spesso poco significativo dal punto di vista statistico.

È interessante soprattutto notare che tutti i primi 10 anni più caldi dal 1800 ad oggi in Italia sono successivi al 1990 e che, di questi, sei su 10 sono successivi al 2000. Si tratta di dati che confermano la tendenza positiva della temperatura. Altrettanto indicativo che ben 16 anni tra i primi 20 più caldi siano successivi al 1980.
La top ten per temperature degli ultimi due secoli è infatti la seguente: 2003, 2001, 2007, 1994, 2009, 2000, 2008, 1990, 1998, 1997. L’anomalia media di questi primi 10 anni è di 1,2°C in più rispetto al periodo di riferimento, mentre l’anomalia media dei sei anni successivi al 2000 è leggermente superiore, di 1,3°C.

Per quanto riguarda le precipitazioni, se consideriamo il periodo novembre 2008-aprile 2009, abbiamo registrato un primato: 54% in più della media climatologica del periodo 1961-1990, mai negli ultimi due secoli era piovuto così tanto in Italia nello stesso periodo.
Scendendo nel dettaglio, nel 2009 le stagioni più degne di nota sono state la primavera, al quarto posto tra le più calde negli ultimi duecento anni con 1,76°C di anomalia positiva rispetto alla media 1961-1990, e l’estate, al quinto posto con 1,87 gradi in più. Per quanto concerne i mesi, notevoli il maggio, che si pone al terzo posto tra i mesi corrispondenti degli ultimi due secoli, con 2,9°C di anomalia positiva, e l’agosto, con 2,75°C. Questi dati confermano un comportamento statisticamente non significativo a livello mensile e stagionale, però è interessante che, in coincidenza di questa casualità nel comportamento delle anomalie, si registri una presenza diffusa durante l’anno di quelle positive.
Ben 10 mesi su 12 del 2009, infatti, hanno un’anomalia positiva rispetto alla media convenzionale. E un analogo andamento di diffusa presenza di anomalie positive di temperature si è registrato in ognuno dei primi dieci anni in classifica.
È ancora interessante il quadro delle anomalie massime e minime della temperatura media nei 200 anni per ciascun mese dell’anno. Se si escludono gennaio, novembre e dicembre (i più caldi di questi tre mesi si ebbero rispettivamente nel 1804, 1926 e 1825) le temperature massime di tutti i mesi sono state registrate in anni recenti: il febbraio 1990 con +2,93°C, il marzo 2001 con 3,5, l’aprile 2007 con 3,13, il settembre 1987 con 2,92, l’ottobre 2001 con 2,9. C’è poi il 2003, l’anno più caldo degli ultimi duecento: un record ottenuto soprattutto a causa di una straordinaria ondata di calore tra maggio e agosto, con anomalie positive consistenti e prolungate: rispettivamente 3,05, 5,12, 2,84 e 4,45°C in più della media 1961-90 di ciascun mese. Per converso, si nota che le temperature minime di ciascun mese, da gennaio a dicembre, si sono avute tutte in anni molto distanti: dieci risalgono addirittura all’800, il settembre è del 1912 e l’ottobre del 1974.
Per quanto riguarda le precipitazioni, infine, per il 2009 c’è poco da segnalare. L’anomalia è stata del + 11% rispetto alla media convenzionale, che pone l’anno al 58° posto nella classifica. Il maggio è stato però il più secco degli ultimi 200 anni e anche agosto si è collocato al quarto posto per scarsità di precipitazioni. Molto piovoso, invece, luglio. Non dobbiamo poi dimenticare che, se consideriamo il periodo novembre 2008-aprile 2009, abbiamo registrato un primato: 54% in più della media climatologica del periodo 1961-1990, mai negli ultimi due secoli era piovuto così tanto in Italia nello stesso periodo.

 

 

Proiezioni di cambiamento climatico nella regione Euro-Mediterraneo ottenute da simulazioni globali e regionali
Silvio Gualdi, Filippo Giorgi, Antonio Navarra

Le proiezioni di cambiamento climatico per la regione Euro-Mediterraneo ottenute da modelli globali, forniscono un’immagine complessivamente coerente dei possibili cambiamenti per la regione e sulla quale c’è un sostanziale consenso tra i diversi modelli. Secondo queste proiezioni, la regione potrebbe essere soggetta a un sensibile riscaldamento, che nel bacino del Mediterraneo sarebbe più pronunciato d’estate e che alla fine del XXI secolo potrebbe raggiungere i 4°-5° C di incremento della temperature superficiale media stagionale rispetto alla fine del XX secolo. Il riscaldamento della regione sarebbe accompagnato da un incremento della precipitazione invernale a nord delle Alpi, mentre nell’Europa meridionale e nell’area del Mediterraneo la precipitazione subirebbe una drastica riduzione, più marcata d’estate (–25-30%). Le proiezioni globali, inoltre, indicano che il segnale del cambiamento climatico è chiaramente visibile anche nella variabilità interannuale, la quale mostra una spiccata tendenza ad aumentare così come l’occorrenza di eventi estremi di calore (ondate di calore) e di siccità (Beniston et al., 2007). Per quanto riguarda più specificamente la penisola italiana, invece, le conclusion principali che si traggono dall’analisi delle simulazioni regionali di PRUDENCE sono le seguenti: 72 Proiezioni di cambiamento climatico nella regione Euro-Mediterraneo ottenute da simulazioni globali e regionali. Il segnale di cambiamento climatico mostra una spiccata stagionalità. Le proiezioni indicano un riscaldamento in tutte le stagioni, ma questo è massimo in estate e minimo in inverno. La precipitazione diminuisce marcatamente su tutta la penisola in estate e, in maniera minore, primavera e autunno. In inverno la precipitazione aumenta sull’Italia settentrionale e diminuisce su quella meridionale.
La variabilità interannuale di temperatura e precipitazione aumenta in estate e, solo per la temperatura, diminuisce in inverno.
Le distribuzioni delle anomalie stagionali di temperature mostrano sia uno shift verso stagioni più calde sia un allargamento, specialmente in estate. Questo implica un aumento di temperature stagionali estreme maggiore dell’aumento di temperatura media. Le PDF delle anomalie stagionali di precipitazione mostrano un forte aumento della frequenza di stagioni con bassissima precipitazione, specialmente in estate, ma anche un aumento delle anomalie massime positive.
Questo indica un aumento della frequenza sia di eventi siccitosi che di eventi ad alta intensità di precipitazione. I segnali di cambiamento di precipitazione e temperatura mostrano una struttura fine legata all’effetto della topografia della penisola. Questo implica la necessità di alta risoluzione per una simulazione accurata dei cambiamenti climatici sull’Italia. In questo capitolo non abbiamo analizzato statistiche di eventi giornalieri, ma alcune informazioni a riguardo possono essere ottenute da lavori precedenti. Per esempio, Giorgi et al. (2004) trova che la diminuzione di precipitazione estiva e primaverile sul Mediterraneo è dovuta ad una diminuzione della frequenza di eventi di precipitazione e non della loro intensità. Questo implica un aumento della lunghezza dei periodi siccitosi. Lo stesso risultato è mostrato da Pal et al. (2004) e Gao et al. (2006). Gli stessi lavori attribuiscono l’aumento di precipitazione invernale sulle Alpi ad un aumento di frequenza ed intensità degli eventi. Da un’analisi di diversi tipi di eventi estremi nelle simulazioni di PRUDENCE, Beniston et al (2007) presentano le seguenti conclusioni per la penisola italiana:
i) aumento della frequenza, intensità e durata di ondate di calore;
ii) aumento di eventisiccitosi;
iii) aumento dell’intensità di precipitazione sull’Italia del nord in inverno e diminuzione sull’Italia c entrale e meridionale in estate e primavera
.
Conclusioni simili sono anche trovate da Kjellstrom et al. (2007) con un’analisi delle temperature giornaliere massime e minime dei dati PRUDENCE. È importante sottolineare che, anche se le conclusioni presentate qui derivano dall’analisi di un solo insieme di simulazioni, esse sono consistenti, almeno dal punto di vista qualitativo, con i risultati trovati sull’area del Mediterraneo da diverse generazioni di simulazioni per diversi scenari e diversi periodi del XXI secolo (Jones et al., 1997; Kittel et al., 1998; Raisanen et al., 2004; Giorgi et al., 2001; Giorgi, 2006a) e questo aumenta la loro robustezza. Bisogna altresì enfatizzare che i segnali di cambiamento climatico individuati in questo capitolo sono segnali medi ottenuti da insiemi di simulazioni, che quindi tendono a filtrare la variabilità inter-decadale. In realtà questa variabilità è pronunciata, specialmente a scale regionali, quindi uno scenario di cambiamento climatico per uso in analisi di impatti deve essere compost dai segnali medi individuati qui più una componente di variabilità inter-decadale (Giorgi, 2005b).
I segnali di cambiamento descritti brevemente in questo capitolo, quindi, appaiono essere considerevolmente robusti in quanto presenti nella maggior parte delle proiezioni ottenute con diversi modelli (globali e regionali) e diversi scenari di emissione di gas serra. È importante comunque sottolineare ancora una volta che i modelli utilizzati per eseguire le proiezioni di cambiamento climatico presentano ancora forti limitazioni. Come più volte ricordato, per esempio, i modelli globali hanno una risoluzione spaziale ancora troppo bassa e i modelli regionali sono afflitti dalla propagazione degli errori ai bordi. Inoltre, sia nei modelli globali che regionali, la rappresentazione del Mar Mediterraneo è completamente assente o comunque così primitiva da rendere poco affidabili le caratteristiche locali delle proiezioni. Allo scopo di migliorare la nostra conoscenza di quali possono essere le risposte del clima dell’Euro-Mediterraneo ai forzanti di varia natura e alla variabilità climatica globale è quindi necessario costruire una nuova classe di modelli, in grado di rappresentare adeguatamente i processi locali di variabilità climatica e, in particolare, i meccanismi di interazione tra l’atmosfera e il Mar Mediterraneo. Il progetto europeo CIRCE (2007-2011, www.circeproject.eu) sta sviluppando questa nuova generazione di modelli, inserendo in maniera interattiva il Mar Mediterraneo sia nei modelli globali che in quelli regionali. Questo permetterà di produrre nuovi scenari ad hoc per la regione Mediterranea per il 5° rapport dell’IPCC (AR5) la cui pubblicazione è prevista per l’anno 2013.

Figura: Differenza tra il valor medio della temperatura dell’aria a 2 metri (T2m) nel periodo 2071-2100 e nel periodo 1971-2000 ottenute da simulazioni del 20° secolo e del 21° secolo (scenario A2 eseguite col modello SXG del CMCC, seguendo il protocollo CMIP3 (Gualdi et al. 2008). Il pannello superiore mostra la differenza per il periodo invernale (Dicembre, Gennaio e Febbraio, DJF), mentre il pannello inferiore mostra la differenza per il periodo estivo (Giugno, Luglio e Agosto, JJA). La temperatura è espressa in °C.

 

 

Eventi climatici estremi: tendenze attuali e clima futuro sull’Italia
Piero Lionello, Marina Baldi, Michele Brunetti, Carlo Cacciamani,
Maurizio Maugeri, Teresa Nanni, Valentina Pavan, Rodica Tomozeiu

Attualmente, sul territorio italiano è in corso un aumento delle temperature massime e minime giornaliere, collegato ad una traslazione di tutta la distribuzione statistica delle temperature verso valori piu’ caldi e quindi anche un aumento della temperatura media. Tale andamento e’ coerente con l’aumento della  frequenza delle ondate di calore (triplicatasi negli ultimi 50anni) e le proiezioni dei modelli climatici indicano diventera’ progressivamente piu’ marcato durante il 21mo secolo. Le mareggiate intense non presentano un andamento con una simile  coerenza, ma evidenziano grande fluttuazioni, e una lieve tendenza alla diminuzione che alcuni studi suggeriscono continui negli scenari climatici futuri. Quest’ultima affermazione  deve tuttavia essere confermata da ulteriori ricerche per acquisire una  ragionevole certezza. Infine, in Italia, e’ in corso  una diminuzione del numero di giorni poco piovosi e un aumento di quello con precipitazioni intense  in alcune regioni dell’Italia settentrionale. La forte variabilita’ intrinseca nei regimi di precipitazione non consente tuttavia di fare per le piogge affermazioni con un livello di confidenza alto come per le temperature, e, benche’ numerosi studi siano attualmente in corso, al momento della pubblicazione del libro, cambiamenti futuri degli estremi di precipitazione sul territorio italiano non risultano analizzati in modo sufficiente a fare affermazioni con un ragionevole livello di confidenza.

 

 

Temperatura: valori minimi e massimi. Valori medi ed estremi di precipitazione

Sono presentati in questo capitolo le proiezioni a scala locale dei cambiamenti climatici per la temperatura e le precipitazioni relative al period 2070-2100. Queste proiezioni regionali sono ottenute attraverso tecniche di regionalizzazione statistica, utilizzando lo scenario A2 del modello globale sviluppato all’Hadley Centre for Climate Prediction. I risultati per l’Emilia-Romagna indicano che i valori minimi e massimi della temperatura saranno significativamente più caldi per tutte le stagioni. L’incremento medio per la temperatura massima raggiunge i 5°C nella stagione estiva, 3°C in primavera e 2°C nelle alter stagioni. L’aumento delle temperature minime è più intenso durante l’estate e l’autunno, con valori fino a 4°C, mentre per l’inverno l’aumento è di circa 3°C. Anche i valori estremi di temperatura minima e massima aumentano, comportando una diminuzione del numero di giorni di gelo durante l’inverno (fino a 40 giorni) e un aumento delle ondate di calore sia in primavera che in estate. Per lo stesso periodo, gli scenari di precipitazione, sia quelli dedotti direttamente da modelli globali che quelli ottenuti mediante procedure di regionalizzazione, evidenziano durante l’inverno un increment delle precipitazioni nell’Europa settentrionale, mentre durante la stagione estiva una generale diminuzione nell’Europa centrale e nell’area Mediterranea. Per quanto riguarda la Penisola Italiana le simulazioni prevedono una diminuzione del numero di giorni con precipitazioni in tutte le stagioni, più debole durante l’inverno e più intenso durante le altre stagioni.

 

 

Impatti sul ciclo idrologico e risorse idriche
Ivan Portoghese, Michele Vurro, Annarita Mariotti

Il ciclo idrologico nell’area Mediterranea varia su scala interannuale e interdecadale in relazione a fluttuazioni climatiche di larga scale quale l’Oscillazione Nord Atlantica (periodo invernale/primaverile; NAO in breve) ed El Niño (autunno). Per esempio durante la seconda metà del 20esimo secolo, a fluttuazioni interannuali di +1 dell’indice NAO è corrisposta una riduzione della precipitazione invernale sul territorio italiano di circa il 15% del valore climatologico. Corrispondentemente, la riduzione della portata dei fiumi è stata del 10% nel caso del Po e del 20% nel caso dell’Arno e del Tevere; valori positivi medi dell’indice NAO dalla metà degli anni ‘70 fino all’inizio degli anni ’90 hanno comportato una diminuzione su scala interdecadale delle precipitazioni invernali nell’area mediterranea ed in particolare un incremento del deficit d’acqua del Mar Mediterraneo. Secondo le proiezioni dei modelli che hanno partecipato al Fourth Assessment Report dell’IPCC (IPCC WGI, 2007), il ciclo idrologico mediterraneo sara’ influenzato il maniera significativa dai cambiamenti climatici globali previsti per il 21esimo secolo in relazione all’aumento dei GHG. Infatti le proiezioni indicano una diminuzione della precipitazione media annuale nell’area Mediterranea di circa il 20% (scenario SRES A1B, anomalie nel periodo 2070-2099 rispetto al periodo 1950–2000). In termini percentuali, le anomalie sono maggiori in estate, che è anche il periodo quando si riscontra la massima consistenza tra i modelli. Le proiezioni indicano che alla diminuzione delle precipitazioni si accompagnerà anche un aumento dell’evaporazione nella regione Mediterranea. Sul mare, questo implicherà un aumento del deficit di acqua (E-P) alla superficie. Su terra, questo condurrà molto probabilmente ad una diminuzione nell’umidità del suolo, che sarà particolarmente accentuata durante il periodo estivo. Infatti, considerando i cambiamenti al 2050 (scenario SRES A1B, media di 24 simulazioni con 12 modelli diversi) il Mediterraneo risulta tra le regioni con il maggiore accordo tra i modelli, con una diminuzione del 10-30% delle acque di superficie. Le implicazioni di queste proiezioni sono che la regione Mediterranea soffrirà una diminuzione nelle risorse idriche (questa proiezione è data con livello di confidenza molto alto in IPCC WG II, 2007), con la diminuzione nelle acque di superficiali esacerbata dalla diminuzione di acque sotterranee. Queste proiezioni sono affette dalle incertezze relative alla formulazione dei modelli (inclusa l’insufficiente risoluzione spaziale delle simulazioni) e agli scenari di emissione futuri ed altre forzanti radiative. Inoltre, la variabilita’ decadale naturale contribuira’ a determinare le anomalie del ciclo idrologico nell’area Mediterranea nei prossimi decenni.

 

 

Impatti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura
Franco Miglietta, Marco Bindi, Francesco Primo Vaccari

La ricerca va avanti molto velocemente e nuovi dati si aggiungono quasi ogni giorno.  Così ci si accorge che quanto fino a poco tempo fa si prevedeva che potesse accadere, sta accadendo davvero. Le osservazioni più eclatanti riguardano gli ecosistemi terrestri ed in particolare le foreste. E’ stato un italiano, il Prof. Federico Magnani dell’Università di Bologna a pubblicare su Nature un articolo in cui analizzando boschi europei di varia età, ha concluso che l’attività umana, causa prima delle deposizioni azotate di origine atmosferica, sta causando un forte incremento della crescita degli alberi. Dopo quell’articolo Nature Geoscience ha pubblicato altri dati che dimostrano che le foreste europee stanno crescendo oggi circa il 67% in più di quanto crescessero qualche decennio fa.  Ed è apparso sempre su Nature uno studio di una equipe di ricerca inglese che ha dimostrato, dati alla mano, che anche le foreste tropicali ed equatoriali africane stanno crescendo più che in passato. Ancor più recente il contributo del team americano di McMahon che ha pubblicato su PNAS dati analoghi anche per i boschi d’oltreoceano. Insomma, esistono ormai prove innegabili che il sistema terrestre sta rispondendo a stimoli ambientali di cambiamento con una maggiore produttività. Le cause non sono del tutto chiare, anche se è ragionevole supporre che l’aumento di concentrazione atmosferica di CO2, l’aumento di deposizioni azotate, le variazioni del clima, la variazione nella radiazione solare e persino quella dei raggi cosmici galattici associati all’attività solare, possano spiegare il fenomeno. Ma anche i mutamenti dei sistemi di gestione possono concorrere a determinare questa straordinaria risposta. Le conseguenze possono essere molte, straordinariamente complesse e forse non interamente prevedibili. La prima, e forse la più ovvia, riguarda il ciclo del Carbonio; se le piante crescono di più, fissano anche più CO2 atmosferica sottraendola all’atmosfera e sequestrandola nei tronchi e nella sostanza organica del suolo. Se le piante crescono di più, immettono anche maggiori quantità di vapor acqueo in atmosfera con possibili conseguenze sulla piovosità. Se le piante crescono di più, conservano meglio il suolo, ne favoriscono la permeabilità, riducono la quantità di acqua piovana che ritorna rapidamente al mare per ruscellamento superficiale. Se le piante crescono di più, infine, aumentano le risorse alimentari per una lunga catena di organismi che vivono dei prodotti del bosco: dai microorganismi, ai vermi, agli insetti e su su fino ai mammiferi. Portando ad ipotizzare che possa alla fine addirittura aumentare la biodiversità.
La ricerca ha il traguardo di capire cause e conseguenze del cambiamento globale. Bisogna fare rapidi passi avanti su questo terreno, per sfruttare il grande potenziale ed i grandi servizi che la natura ed il bosco ci mettono gratuitamente a disposizione. La natura ancora una volta si rivela il nostro più importante “alleato” nella lotta al cambiamento climatico. Abbiamo il dovere di favorire questo alleato, e dargli il modo di difenderci dai danni che stiamo forse causando al nostro pianeta.

 

 

TRASFORMAZIONI DELL’ALTA MONTAGNA

I dati presentati confermano che sulle Alpi Italiane è in atto dalla metà del XIX secolo un ritiro generalizzato dei ghiacciai, con limitati episodi di riavanzata fra gli Anni 1970 e 1980 del XX secolo e nei primi Anni ‘20. Questo in accordo con quanto verificatosi in generale sulla catena alpina (dove la superficie glaciale è scesa da circa 4474 km2 del 1850 a 2000 km2 nel 2003 con una riduzione del 55 %) e con l’evoluzione del clima alpino degli ultimi 80 anni che ha fatto registrare un incremento di temperatura quasi doppio rispetto alla media globale. Valori analoghi di riduzione areale si sono riscontrati sui massicci montuosi italiani: i ghiacciai del versante piemontese del Gran Paradiso avevano perso il 50% della loro area ottocentesca già nel 1991 e in seguito si sono ulteriormente contratti. Sul versante valsesiano del Monte Rosa la riduzione è stata del 53% tra il 1850 e il 2006. Per l’intera Valle d’Aosta la riduzione areale dalla Piccola Età Glaciale è valutata del 41,5%, mentre per altri gruppi montuosi delle Alpi Centrali, come quello dell’Ortles-Cevedale la riduzione è stata del 47%. Alla riduzione delle aree ha fatto riscontro la riduzione delle lunghezze con arretramenti delle fronti talora chilometrici rispetto alle posizioni di due secoli fa (-1,6 km ai ghiacciai del Lys sul Monte Rosa, Pré de Bar sul Monte Bianco, dei Forni sul Cevedale). Dalla metà dell’800 anche lo spessore dei ghiacciai ha subito sensibili riduzioni, quantificabili in qualche caso in oltre un centinaio di metri. I dati dei bilanci di massa, cioè la misura annuale delle variazioni di spessore, hanno evidenziato un’accelerazione del fenomeno negli ultimi anni dopo la caldissima estate 2003, con valori annui che in alcuni casi hanno toccato i 3 m a quota 3000. Il fenomeno non si è invertito neanche nel 2009 quando, nonostante l’imponente innevamento invernale, le elevate temperature hanno provocato ancora bilanci negativi, seppur lievemente meno sfavorevoli rispetto agli anni precedenti.
Il fenomeno in corso sulle Alpi Italiane può essere definito per la sua intensità una rapida “disintegrazione dei ghiacciai”, un vero e proprio “collasso” della criosfera, che si concretizza con l’estinzione dei ghiacciai di minori dimensioni, la frammentazione dei ghiacciai maggiori (ad esempio Brenva sul Monte Bianco, Lys sul Monte Rosa, Fellaria Orientale sul Bernina), l’emersione di “finestre” rocciose sempre più ampie, la formazione di numerosi laghi di contatto glaciale e l’incremento della copertura detritica superficiale con la trasformazione dei ghiacciai delle Alpi Italiane dai classici apparati “bianchi” in “ghiacciai neri”, la cui area di ablazione è completamente ricoperta da detrito con spessori superiori ad 1 m. Quest’ultimo fenomeno è legato anche all’accresciuta dinamica dei versanti in rapporto alla fusione del permafrost e delle lenti di ghiaccio sepolto, che, insieme alle precipitazioni concentrate, determina eventi di crollo in quota (> 3000 m) anche di cospicua volumetria, talora con esposizione di ghiaccio in nicchia, e l’imbibizione dei depositi glaciali sciolti con la conseguente formazione di colate di fango e di detriti.
Come conseguenze di questa evoluzione si hanno alterazioni dei regimi idrologici che vedranno inizialmente picchi estivi di portata maggiore seguiti, in rapporto alla riduzione delle masse glaciali, da portate sempre più ridotte e da una conseguente maggiore esposizione alle siccità estive.
Se non avverranno nei prossimi decenni sensibili cambiamenti delle tendenze climatiche (gli scenari futuri proposti dai modelli numerici indicano incrementi termici estivi dell’ordine di 3÷6 °C entro il 2100 sulle Alpi), sarà probabile l’estinzione dei ghiacciai posti al di sotto dei 3500 metri. Ne deriveranno non solo alterazioni dei regimi idrologici e incrementi della instabilità dei versanti, ma soprattutto una decisa trasformazione del paesaggio dell’alta montagna alpina, che perderà uno dei suoi connotati più caratteristici.
Di fronte a questo tipo di scenario così foschi, la comunità scientifica  sta intensificando gli studi di base ed applicativi, anche per rispondere a richieste che vengono dagli enti pianificatori, in merito, ad esempio, alla disponibilità di acqua allo stato solido, alle strategie da adottare per il turismo, alla
mitigazione dei rischi geologici.

Impatti sullo stato degli ecosistemi di alta montagna:

L’abbassamento della falda freatica e la contrazione del periodo di innevamento sono tra le cause dirette del collasso degli ecosistemi forestali e di quelli di alta quota degli Appennini, che non appaiono in grado di recuperare, a causa della rapidità dei cambiamenti climatici in corso e della indisponibilità di adeguate risorse genetiche a breve distanza. Già oggi i primi sintomi di questi processi sono verificabili. Studi effettuati sulle Alpi Centrali dimostrano il progressivo spostamento in aree più elevate di specie vegetali di alta quota, mentre osservazioni effettuate sugli Appennini Centrali evidenziano una tendenza all’adattamento degli ecosistemi di alta quota ad un aumento dell’aridità: in questi casi, la composizione specifica ha subito cambiamenti, negli ultimi dieci anni, dell’ordine del 10-20%, con preoccupanti sintomi di un processo di degenerazione ormai in atto (incremento delle specie vegetali più adattate all’aridità ed agli stress e parallela diminuzione di quelle più adattate a maggiore disponibilità idrica, basse temperature e maggiore innevamento).
Nei prossimi 100 anni è da attendersi una progressiva “disgregazione” degli ecosistemi forestali, dei quali solo poche componenti potranno migrare in aree più adatte ai mutati scenari climatici, mentre la maggior parte di esse saranno destinate all’estinzione, almeno a livello locale. Le specie con elevata capacità di spostamento (ad esempio i grandi mammiferi come orso, lupo ed ungulati), in grado quindi di tentare di “sfuggire” alla disgregazione del loro habitat, si troveranno in condizioni di “disadattamento”, in quanto sarà per loro impossibile adattarsi in così breve tempo ai nuovi ecosistemi in via di formazione, che potranno ricostituirsi solo nell’arco di alcuni secoli. Questo potrebbe essere il futuro delle foreste dell’Italia Centrale (più colpite di quelle delle Alpi dai cambiamenti climatici), secondo uno scenario che emerge dagli studi in corso sui possibili effetti dei cambiamenti climatici sulla distribuzione delle principali specie arboree forestali in Italia.
Secondo questi studi, entro la fine del secolo potrebbe verificarsi un generale aumento dei limiti altitudinali di distribuzione di tutte le specie forestali, con il loro potenziale spostamento a quota maggiore; si creeranno quindi condizioni favorevoli per una significativa espansione dell’areale di distribuzione delle specie mediterranee, a causa di un processo di progressiva mediterraneizzazione delle zone interne della penisola; si verificherà una forte riduzione dell’areale di distribuzione delle specie più mesofile e microterme (faggio, castagno, carpino bianco, farnia), che saranno minacciate di estinzione a livello locale. Le reali possibilità di “spostamento” degli ecosistemi forestali sono comunque al di sotto delle necessità: la rapidità del cambiamento climatico in atto è infatti di gran lunga maggiore della velocità di colonizzazione di nuovi spazi della quale sono capaci le specie arboree. Inoltre le specie vegetali ed animali ad esse associate posseggono ognuna una diversa capacità di dispersione e colonizzazione: è quindi da attendersi la progressiva disgregazione degli ecosistemi forestali, già in atto in particolare nelle foreste più sensibili ai cambiamenti climatici, in quanto strettamente dipendenti dall’abbondanza di acqua negli strati superficiali del suolo. In questi casi, si sono verificate ripetute ed estese morie di grandi alberi di farnia, cerro e carpino bianco, che hanno frammentato e disgregato la foresta.
Tutti i programmi europei di monitoraggio delle foreste indicano un anticipo medio di 3 giorni ogni 10 anni di tutte le fasi vitali delle principali specie forestali (emissione delle foglie, fioritura e fruttificazione). Negli ultimi 50 anni, quindi, tutti cicli naturali delle foreste hanno subito un anticipo di circa 15 giorni, in grado di provocare gravi danni all’equilibrio delle componenti vegetali, animali e del suolo delle nostre foreste.
Al fine di limitare i danni che i cambiamenti climatici stanno determinando e produrranno sempre più nei prossimi anni a carico degli ecosistemi, occorre favorire il loro adattamento, rafforzando le misure di protezione delle aree di rifugio e degli ecosistemi più minacciati (foreste umide, planiziali e di alta montagna, comunità di alta quota), istituire reti di aree protette in grado di favorire la migrazione delle specie sulla spinta dei cambiamenti climatici ed infine rafforzare tutti i programmi di monitoraggio e ricerca ecologica a lungo termine, per poter disporre di un efficace sistema di primo allarme delle conseguenze in atto, su scala nazionale. La Rete per la Ricerca Ecologica a Lungo Termine LTER-Italia, opportunamente consolidata, estesa e rafforzata, è in grado di fornire un efficace sistema di monitoraggio comprendente sia gli ecosistemi terrestri (foreste, laghi, fiumi, aree di alta montagna) che quelli marini, superando la frammentarietà di iniziative locali non coordinate ed episodiche.

 

 

La biodiversità nell’era dei cambiamenti climatici:
un’eredità da salvaguardare

Marino Gatto, Adriana Zingone, Giulia Fiorese, Giulio A. De Leo

La specie umana dipende completamente dal capitale naturale costituito dalla totalità degli organismi viventi che tuttavia è in gran parte ancora sconosciuto: le specie descritte finora sono quasi 2 milioni, ma si stima che il numero totale, per gli ecosistemi terrestri, sia 14 milioni. Gli ecosistemi marini sono molto meno conosciuti: le specie finora descritte sono circa 250.000, ma i mari potrebbero ospitare fino a 10 milioni di specie. Grazie a questa ricca varietà di geni, specie ed ecosistemi sono garantiti importanti servizi naturali che forniscono all’uomo cibo, farmaci, legna, fibre, energia e materie prime, riversando ogni anno fiumi di denaro nell’economia mondiale.
Gli effetti dei cambiamenti climatici sui sistemi naturali sono molteplici: il clima è uno dei fattori che ne determinano la composizione, la produttività e la struttura. Molte specie possono riprodursi e svilupparsi con successo solo all’interno di un determinato intervallo di temperature e di precipitazioni. Il clima influisce anche sulla distribuzione geografica delle specie. Come già si osserva da numerosi anni, i cambiamenti climatici modificano direttamente (ad es. tramite l’aumento della temperatura) o indirettamente (ad es. tramite la modifica della disponibilità di cibo per le specie animali) gli ecosistemi, nonché gli individui e le popolazioni che li abitano.
Impatti possono avvenire sulla struttura e il funzionamento degli ecosistemi terrestri, sulla fisiologia e fenologia delle specie vegetali e animali, sulla distribuzione delle specie. Le specie che tendono a spostare maggiormente il proprio areale di distribuzione saranno quelle che vivono in ambienti fortemente limitati dalla temperatura (specie alpine) e quelle caratterizzate da elevata mobilità (insetti, uccelli migratori o invertebrati marini). Risulteranno più vulnerabili specie con areali di distribuzione molto piccoli, con limitata tolleranza alle variazioni e con limitate capacità di dispersione. Spesso queste caratteristiche sono in contrapposizione: ungulati alpini di grande taglia hanno buone capacità di dispersione, ma areali piccoli e frammentati che saranno ulteriormente ridotti dalla necessità di portarsi a quote più elevate. Negli ecosistemi di acqua dolce gli impatti saranno dovuti all’aumento della temperatura dell’acqua e ai cambiamenti del regime idrico dei fiumi. In ambiente marino, sarà probabile un’accentuazione dei processi già osservati in Mediterraneo: l’introduzione e il successivo insediamento di specie di origine tropicale (tropicalizzazione) e lo spostamento verso nord di specie ad affinità calda (meridionalizzazione).
In risposta al riscaldamento globale, le specie potranno essere in grado di adattarsi, oppure di spostarsi per rimanere alle stesse condizioni climatiche oppure saranno destinate all’estinzione. Stime globali (ad esempio quelle formulate da Thomas e colleghi in una pubblicazione scientifica del 2004) indicano che il rischio di estinzione al 2050 dovuto ai cambiamenti climatici sarà compreso tra il 18% e il 35%, a seconda di cambiamenti climatici contenuti o elevati. Anche se questi studi fossero sbagliati di un ordine di grandezza e la perdita di specie fosse del 1,8-3,5% invece che del 18-35%, si avrebbe comunque la perdita di centinaia di migliaia di specie.
Per valutare gli impatti e stimare i costi sociali del riscaldamento globale è necessario approfondire la conoscenza di come i cambiamenti climatici abbiano agito e di come agiranno in futuro. Questo implica uno sforzo nella raccolta, organizzazione e elaborazione dei dati necessari e nello sviluppo di nuove metodologie di calcolo. Lo sviluppo delle conoscenze degli impatti dei cambiamenti climatici sugli ambienti naturali è necessario per ridurre le incertezze, per migliorare la comprensione dei processi che indirizzano il cambiamento, per sviluppare la capacità di previsione dei cambiamenti futuri e, infine, per individuare politiche di adattamento efficaci. Purtroppo, ad oggi, questa base di conoscenze in Italia è piuttosto debole: le Alpi sono le aree più studiate, mentre mancano studi di impatti su tutto il resto del territorio nazionale. Questo mostra una grave lacuna di ricerche di lungo termine in un paese vulnerabile e al tempo stesso appartenente alla lista degli “hotspots” mondiali della biodiversità.

 

 

Variabilità, trend e cambiamenti climatici delle masse d’acqua
del Mar Mediterraneo nel XX secolo

Vincenzo Artale, Volfango Rupolo, Fabio Raicich, Salvatore Marullo,
Sandro Calmanti, Gianmaria Sannino, Giannetta Fusco

Il Mar Mediterraneo – funzionamento e caratteristiche fisiche
Il Mar Mediterraneo, nonostante abbia dimensioni trascurabili in confronto ai grandi oceani, è invece un bacino in cui avvengono, a scala più piccola, una varietà di processi ed interazioni atmosfera-oceano tipiche dei grandi oceani. Il Mediterraneo consuma per evaporazione più acqua di quella che riceve dalla pioggia e dai fiumi, in media il deficit è di circa un metro l’anno, e quindi il generoso Atlantico tramite lo stretto di Gibilterra ci fornisce ciò di cui il bacino ha bisogno. L’acqua atlantica (AW) che entra nel Mediterraneo forma uno strato d’acqua superficiale variabile sia nello spessore (100-200 metri) sia nei valori di temperatura e salinità. Questa acqua perde galleggiabilità lungo il suo percorso, ossia perde acqua per evaporazione ma non il sale (il sale non evapora!), che a questo punto assolve lo stesso ruolo dei pesi per i sommozzatori: più sale rimane in gioco in superficie, più a fondo va l’acqua. Questa acqua continua poi il suo percorso lasciandosi la costa sulla destra (a causa della forza di Coriolis). Nella parte orientale del bacino, vicino all’isola di Rodi, in virtù degli intensi venti Etesiani, si forma un’acqua intermedia, detta acqua levantina (LIW), con caratteristiche saline molto elevate (a questo punto l’acqua ha acquistato quasi tre grammi in più per chilo, quasi il massimo possibile nel mediterraneo!) e con una temperatura relativamente elevata (circa 14.5 gradi centigradi). Quest’acqua è il ramo di ritorno dell’acqua atlantica, il funzionamento è simile a quello delle scale mobili: quando lo scalino ha finito di trasportarvi in cima, sparisce e ricompare all’inizio della scala, pronto a rifare la stessa fatica. Allo stesso modo il flusso dell’acqua levantina, propagandosi principalmente in modo antiorario (ciclonico), ad una profondità tra i 200-800 metri, dopo intense variazioni di temperatura e salinità dovute al mescolamento con altre acque incontrate lungo il suo cammino, finalmente arriva nell’Oceano Atlantico, dopo circa 20 anni.
Ora manca ancora un pezzo importante per completare la storia del Mediterraneo, manca un fondamentale elemento caratteristico della conveyor belt mediterranea (la scala mobile oceanica!): la produzione d’acqua profonda (DW), che costituisce un importante indicatore climatico. Questo tipo d’acqua si forma principalmente nel Golfo del Leone, nel Nord e Sud Adriatico, nella regione Nord-Est del bacino Levantino e nel Mar Egeo. Formazioni d’acque dense avvengono durante intensi fenomeni evaporativi, in cui l’oceano cede all’atmosfera notevoli quantità di calore a causa dei venti freddi e secchi che perturbano la superficie marina (e.g. Maestrale, Etesiani e Bora), lasciando a disposizione tantissimo sale in poco tempo (3-4 giorni), tanto da rendere così instabile l’acqua superficiale da inabissarsi improvvisamente, ventilando l’intera colonna d’acqua e ossigenandola in modo da garantire così la sopravvivenza dell’intero sistema bio-geo-chimico marino. Una caratteristica interessante di questi fenomeni consiste nella loro limitata dimensione spaziale e temporale a fronte dell’enorme impatto sull’intera circolazione generale e le limitate aree oceaniche in cui si osservano. Un simile ruolo lo gioca la regione sub-polare del Labrador nella circolazione del Nord Atlantico. Quando questi processi si interrompono il mare muore, per mancanza di ossigeno e questo è già accaduto decine di volte nell’ultimo milioni di anni.

Facciamo il punto sulle attuali condizioni “fisiche” del Mar Mediterraneo

Studio della temperatura superficiale (SST):

Dal confronto tra l’andamento globale della temperatura dal 1854 al 2009 del bacino del Mar Mediterraneo, ottenuta quindi dalla media di tutti i dati disponibili si evince un aumento continuo della temperatura media con sovrapposte delle ampie oscillazioni. Le oscillazioni multi-decennali sono molte vistose: l’andamento della temperatura sembra essere dato dalla sovrapposizione di un’oscillazione la cui ampiezza delle anomalie di temperatura sono pari a 0.3-0.6°C e con un periodo temporale di circa 60-70 anni, tuttavia è molto evidente, a partire dall’inizio del XX secolo (minimo del 1910), una tendenza al riscaldamento con un aumento della temperatura di quasi 1.0°C e con una accelerazione al riscaldamento negli ultimi vent’anni. In particolare, dopo l’ultimo minimo di temperatura della metà degli anni ’70, la temperatura è aumentata con un tasso pari a 0.026±0.005°C/anno. Infine, il raffreddamento della SST del Mediterraneo osservato tra il 1965 ed il 1975 appare associato ad una fase di aumento dell’indice NAO.
A partire dal 1985 sono stati resi disponibili dati satellitari che permettono una misura sinottica, ad alta risoluzione spaziale e temporale, del campo di temperatura della superficie marina. Le temperature medie annuali dal 1985 al 2006 mostrano un tasso di crescita di 0.037±0.007°C/anno, quindi con valori maggiori di quelli osservati in situ, sovrapposto ad intense oscillazioni interannuali cui si distinguono in particolare quelle associate agli anni freddi 1992-1993 e il massimo assoluto di temperatura registrato nel 2003, il quale ha tutte le caratteristiche per essere considerato un anno anomalo con ondate di calore nel periodo estivo (eventi climatici estremi), mai osservate in precedenza.
Se dall’analisi regionale passiamo ad una analisi ancora più di dettaglio, ossia a scala locale, notiamo che la distribuzione spaziale di questi andamenti, a fronte di un tasso di crescita positivo in tutto il bacino, presenta caratteristiche locali piuttosto pronunciate, con valori per esempio molto più elevati nel mar Adriatico e nel bacino Levantino, dove a sud e ovest di Creta si avvicina al valore di 0.1°C/anno.
La tendenza al riscaldamento è molto più pronunciata nei mesi estivi che contribuiscono in larga misura all’andamento positivo che si osserva in tutto il bacino su base annuale. In particolare si nota che, nei mesi da maggio a luglio, con massimo in giugno, il tasso di crescita positivo è assai marcato anche nel Mediterraneo centrale al contrario di quanto si osserva su base annuale, a causa del fatto che in questa zona sono i tassi positivi estivi che sono bilanciati da tassi di crescita negativi durante i mesi invernali. Quindi si sta osservando la tendenza all’aumento dell’ampiezza del ciclo stagionale; ovvero della tendenza ad avere inverni con picchi anomali di freddo ed estati con maggiori possibilità di avere ondate anomale di calore, come quella del 2003.

Analisi della temperatura e salinità delle acque intermedie e profonde:

In un recente lavoro (Rixen et al., 2005) il dataset MEDAR è stato analizzato per ricostruire la variabilità dei campi 3D di temperatura e salinità nel Mediterraneo dal 1950 al 2000. Tale studio mostra che il Mediterraneo mostra un alternarsi di fasi di riscaldamento/raffreddamento e salinificazione/desalinificazione.
In particolare per quanto riguarda la temperatura nel primo strato superficiale (0-150 m), è stato osservato che nel Mediterraneo Occidentale, la temperatura decresce lentamente fino alla metà degli anni 80 per poi aumentare con un tasso simile a quello osservato in superficie. Il Mediterraneo Orientale invece è stato soggetto ad un notevole raffreddamento tra il 1970 ed il 1980 prima di sperimentare successivamente un riscaldamento leggermente inferiore rispetto alla parte occidentale del bacino. Negli strati intermedi (150 – 600 m) la variabilità della temperatura è simile nei due sottobacini orientale ed occidentale, alternando fasi di riscaldamento (1960-1980, 1990-2000) a fasi di raffreddamento (1980-1990).
Gli strati di profondità infine (600 m – fondo), mostrano per tutto il periodo (1950-2000) una monotona tendenza di riscaldamento dal 1950, con un notevole aumento negli ultimi 15 anni.
Complessivamente il contenuto totale di calore dal 1950 al 2000 è aumentato di circa 1.3-1.5 1021 J, corrispondente ad un aumento di temperatura di circa 0.1°C e pari ad un flusso medio di energia di 0.38 W m-2. Contemporaneamente il contenuto di sale è aumentato di circa 1.4-1.6 1014 m3, corrispondenti ad un aumento medio di salinità di 0.035-0.04. Tali tassi di aumento hanno mostrato una notevole accelerazione negli ultimi 15 anni. Il confronto con l’oceano globale è complesso, data la differenza di volume, tuttavia l’assorbimento di calore è equivalente a 0.21 W m-2, ossia un valore minore di quello relativo al Mar Mediterraneo.

Variazioni del livello del mare:
Se si considerano le stazioni con lunghe serie temporali relative al Mar Mediterraneo, come quelle di Marsiglia, Genova e Trieste si stimano aumenti medi del livello marino di 1.2-1.3 mm/anno su 120-130 anni, quindi valori leggermente minori di quelli ottenuti su scala globale. Se consideriamo solo i dati posteriori al 1950, nel Mediterraneo troviamo 40 stazioni utili, di cui 24 con almeno 30 anni di dati; la maggior parte di esse mostra andamenti di crescita tra 0 e 2 mm/anno. Infine, a partire dal 1992 sono disponibili i dati altimetrici satellitari da cui si ricava un tasso medio di crescita nell’intero bacino di 2.1 mm/anno.

Sintesi e conclusioni:

Il Mediterraneo negli ultimi anni è sempre costantemente sopra la media climatologia, in particolare negli ultimi dieci anni, ed alcuni bacini come il Mar Adriatico e il Mar Tirreno sta mostrando dei picchi d’anomalie di temperatura superficiale (la differenza tra la temperatura media osservata negli ultimi trenta-quaranta anni e quella del mese o del giorno preso in considerazione) durante il periodo estivo di oltre tre-quattro gradi. L’analisi di dati raccolti durante il corso di numerose campagne oceanografiche nell’ultimo secolo ed oltre, mostrano un graduale aumento della temperatura delle acque superficiali, intermedie (la famosa acqua levantina, LIW) e profonde. Tale aumento della temperatura è accompagnato da un contemporaneo aumento della salinità: più l’acqua è calda maggiore è la sua capacità di diluire il sale! Pensate quando vi preparate l’acqua per cuocere gli spaghetti!
Tuttavia la variabilità osservata della temperatura, salinità e dell’elevazione della superficie del Mediterraneo è abbastanza complicata. Una grande variabilità spaziale, dovuta al sommarsi di effetti diversi si somma a mutamenti delle tendenze (a volte non compresi) su scale di tempo relativamente brevi e variazioni delle caratteristiche idrologiche su lunghi tempi (probabilmente dovuti al riscaldamento globale) si sommano ad eventi più rapidi e più ‘drammatici’ dal punto di vista del cambiamento della circolazione.

 

 

Variazioni relative del livello del mare e vulnerabilità
delle pianure costiere italiane

Fabrizio Antonioli, Sergio Silenzi

La comunità scientifica internazionale è ormai unanimemente d’accordo nel considerare il cambiamento climatico del pianeta non solo in atto, ma come principalmente connesso all’alterazione degli equilibri naturali da parte dell’uomo. Tale riscaldamento avrà conseguenze anche sul mare, aumentandone il livello e la frequenza degli eventi estremi. Ciò, molto verosimilmente, potrà provocare l’accelerazione dei processi erosivi e notevoli danni, in termini economici e di qualità della vita, alle popolazioni rivierasche.
La peculiare conformazione geografica rende l’Italia, con oltre 7500 km di coste e numerose pianure costiere, particolarmente vulnerabile ai cambiamenti globali. Grazie ad anni di raccolta di dati geomorfologici ed alla modellistica è ora sempre più possibile determinare con realistica approssimazione i possibili scenari di sollevamento del mare in una località, come sommatoria di eustatismo, espansione termica, distribuzione delle masse d’acqua, movimenti verticali, glacio-idro-isostasia, subsidenza (geologica ed antropica). Da ora in poi è questa la tipologia di dati necessaria per iniziare a programmare strategie di adattamento locali al livello marino atteso per il futuro; in tal senso l’Italia si trova molto indietro rispetto ad altri Paesi. Interventi come i ripascimenti delle spiagge, che hanno un carattere d’efficacia temporale limitato non “risolvendo” il problema erosione, devono essere affiancati da una corretta gestione e programmazione del territorio. Per esempio le opere ingegneristiche sulla costa devono essere pensate, o riadattate, considerando che la linea di riva, e quindi il livello del mare, si muovono e si muoveranno nel futuro con modalità diverse da luogo a luogo.
Inoltre, molte delle strutture esistenti sono state realizzate quando l’evidenza del cambio climatico non era ancora stata considerata: molte di esse, fra pochi anni, non risponderanno più alle esigenze per cui sono state costruite.

 

 

Impatto dei cambiamenti climatici sulla biogeochimica
del Mare Mediterraneo

Maurizio Ribera d’Alcalà, Mario Sprovieri, Giuseppe Civitarese,
Vincenzo Saggiomo
 
Gli scenari più probabili prevedono una diminuzione sia delle precipitazioni che degli apporti fluviali, e poichè il Mediterraneo dipende in larga misura da questi apporti sia per i nutrienti che per gli elementi in traccia, questo dovrebbe portare ad una maggiore oligotrofia del bacino. Questo impoverimento potrebbe essere contrastato da un incremento della deposizione secca da sud, conseguente ad una maggiore aridità, che potrebbe a sua volta mitigare la limitazione da fosforo, ed eventualmente da ferro, rendendo l’azotofissazione un processo quantitativamente piu importante nel ciclo dell’azoto rispetto alla situazione attuale. Per quel che riguarda il carbonio, anche una previsione qualitativa risulta più difficile data la maggiore complessità dei processi in gioco. Una maggiore stratificazione ed una riduzione degli apporti superficiali di nutrienti dovrebbero diminuire la capacità del bacino di immagazzinare CO2 e di esportarla verso l’Atlantico, ma la forte variabilità della dinamica fisica interna del bacino potrebbe anche contrastare questo ipotetico scenario. Inoltre i processi costieri, considerate l’alto impatto antropico, potrebbero a loro volta svolgere un ruolo più attivo di quanto gia non facciano nel presente.

 

 

Impatto dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini
nel Mediterraneo
Maurizio Ribera d’Alcalà, Alessandro Crise, Fabrizio D’Ortenzio

Nel seguito sono stati selezionati non tanto conclusive evidenze di novità in processi o caratteristiche del bacino quanto la loro complessità, i gap di conoscenza esistenti e gli elementi da considerare in aggiunta alle semplificazioni che di solito vengono fatte quando li si analizza.
Il Mediterraneo è un bacino marginale e semichiuso, ovvero è posizionato ai margini dell’oceano, lo scambio con quest’ultimo avviene attraverso una connessione di estensione minima rispetto al suo volume ed ha un contorno molto esteso rispetto alla sua sueprficie. Bacini con queste caratteristiche sono fortemente condizionati dai flussi da terra che avvengono o attraverso i fiumi o attraverso l’atmosfera. Inoltre, il Med attuale funziona al contrario di un estuario, in cui l’acqua che del fiume scorre ‘verso il largo’ in superficie. Nel caso del Mediterraneo, l’acqua suoerficiale e’ quella che viene dall’oceano e va quindi ‘verso terra’. Considerando che la capacita’ del bacino di sostenere una maggiore o minore biomassa dipende dal pool interno degli elementi essenziali per la vita (C, N, P, Si, Fe etc.) e che questo dipende dai flussi in entrata (da terra, dall’Atlantico e via trasformazioni chimiche) ed in uscita (verso l’Atlantico, seppellite nel fondo, o via trasformzioni chimiche), si giunge alla conclusione che le modificazioni possibili nel funionamento del bacino sono legate alle variazioni ed alle caratteristiche di quei flussi. L’analisi dei informazioni disponibili ha portato alle seguenti considerazioni:

1)I flussi fluviali tenderanno a diminuire sia per ragini climatiche che antropiche e questo potrebbe ridurre il flusso di alcuni elementi. E’ meno facile prevedere l’andamento dei flussi dall’atmosfera. Questi sono tendenzialmente piu’ ricchi di elementi utili (N e C respirabile) e in caso di maggiore aridita’ aumenteranno per la componente cosiddetta secca, quindi ricca di oligoelementi come il Fe, tutti fattori favorenti la produzione biologica Lo scambio con l’oceano via Gibilterra potrebbe diminuire, il che comporterebbe un accumulo all’interno del bacino sia di elementi essenziali che di inquinanti.
Va comunque sottolineato che non esiste un nesso lineare tra il flusso di elementi e la ripartizione delle biomassa tra i vari comparti della rete trofica. Questo mette in discussione la semplificazione che un piu’ alto flusso di nutrienti comporti l’instaurarsi di fenomeni di eutrofizzazione ovvero, di eventi di distrofia. Persino per l’alro Adriatico e’ stata dimostrato che il nesso tra eventi distrofici ed apporto fluviale e’ debole. Per cui la prevista riduzione degli approti fluviali non puo’ portare alla previsione di una diminuzione di eventi distrofici. Per quanto riguarda infine il ciclo del C, e quindi della CO2, il Med sembra funzionare come un canale di esportazione del C inorganico continentale verso l’oceano. Il suo contributo al ciclo alla CO2 atmosferica e’ molto vicino allo zero, nel senso che ne assorbe quanto ne riemette ed il postivo flusso netto verso l’oceano e’ sostenuto dai flussi da terra. Se (v. punto 3) lo scambio con l’oceano dovesse ridursi si ridurrebbe e’ prevedibile che il bacino diventi una sorgente di CO2. Assunti i vincoli schematizzati piu’ sopra il Mediterraneo si conferma un bacino molto complesso e biogeograficamente diversificato al suo interno.
2)La caratterizzazione biogeografica del bacino ottenuta sulla base della composizione specifica di poplamenti bentonici e nectonici trova una sorprendente conferma dall’analisi del ciclo stagionale del fitoplancton derivato dai dati satellitari. Il Mediterraneo è suddivisible in bio-provicie di estensione relativamente piccola che copronoun ampio range di funzionamento degli ecosistemi pelagici. Queste bio-provincie sono legate da un lato ai processi fisici prevalenti nell’area ed alla struttura della rete trofica adattata a quelle condizioni che mostra notevole resilienza rispetto alla variabilita’ interannuale.
La piccola dimensione delle bioprovincie suggerisce che persistenti cambiamenti climatici con paralleli cambiamenti nei processi fisici dovrebbero comportare una rididistribuzione nella superficie di quelle bioprovincie, e quindi diventare un indicatore sintetico del cambiamento.La ‘tropicalizzazione’ del bacino, ovvero l’espansione degli areali di specie termofile è confermata dai dati esistenti, ma le implicazioni sulla rete trofica nel suo complesso non sono ancora chiare
Esistono punti di vista contrastanti sulla possibilita’ che a meta’ degli anni ’80 abbia avuto luogo un cambiamento di regime (‘regime shift’) nelle reti trofiche del bacino similmente a quanto avvenuto in altre regioni oceaniche. Un contributo recente di Conversi et al. (non citato perche’ molto recente) porta evidenze a favore, mentre altre osservazioni sembrano non supportarlo.

 

 

Cambiamenti climatici e impatti sugli insediamenti urbani Andrea Filpa, Giorgia Cacciotti, Mara Cossu, Matteo Barile

Gli insediamenti urbani sono drivers fondamentali del climate change e nel contempo i luoghi ove gli effetti del climate change si presentano più estesi per la specie umana. Gli insediamenti urbani sono inoltre quelli dove è minore la naturalità, e dunque dove la resilienza deve essere assicurata in misura quasi esclusiva dall’uomo. La valutazione della loro vulnerabilità, la considerazione dei rischi cui sono esposte popolazioni e beni, la formulazione di consapevoli strategie di mitigazione e adattamento sono di conseguenza un banco di prova importante, suscettibile di incidere sulla qualità di vita della porzione largamente maggioritaria della popolazione italiana.
Il capitolo del testo inerente gli insediamenti urbani ha sviluppato in particolare gli impatti potenziali dell’innalzamento del livello del mare sull’edificato e sulle infrastrutture litoranee (compresi i porti), quelli indotti dai mutamenti nel regime delle piogge sugli insediamenti prossimi ai corpi idrici superficiali e sulle reti di collettamento delle acque reflue, ed infine gli impatti connessi agli incrementi di temperatura nelle aree urbane, che hanno effetti negativi sulla qualità insediativa (soprattutto per le fasce sociali deboli) e sulle aree verdi.
Gli elementi raccolti hanno evidenziato l’urgenza di predisporre – come già fatto in molte realtà europee ed extraeuropee – sia incisive politiche urbane tese al risparmio energetico (a livello di città, di quartiere, di singoli edifici) sia veri e propri piani di adattamento capaci di coinvolgere amministratori e cittadini in quella che si profila come la sfida più impegnativa che attende le realtà urbane nel XXI secolo.

 

 

Cambiamenti climatici e trasporti: il contesto e gli impatti
Stefano Caserini, Roberta Pignatelli

Negli ultimi decenni il sistema dei trasporti italiano ha contribuito in modo significativo al problema del cambiamento del clima ed è destinato a contribuirvi in misura ancora maggiore nel prossimo futuro a causa della crescita dei consumi di combustibili fossili da parte del settore. L’aumento dei consumi è determinato dall’enorme crescita della domanda di trasporto e dal ruolo preponderante svolto, nel rispondere a questa domanda, dalla modalità di trasporto stradale, poco efficiente dal punto di vista energetico. Queste due tendenze hanno, negli ultimi anni, controbilanciato i benefici pur conseguiti attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie veicolari, la costruzione di nuove infrastrutture e il miglioramento di quelle esistenti. L’intensificarsi dei cambiamenti climatici determinerà, a sua volta, rilevanti impatti sul settore stesso, condizionandone le politiche di sviluppo e richiedendo conseguenti azioni di adattamento.
L’intensificarsi dei cambiamenti climatici porterà ad impatti sulle infrastrutture di trasporto, principalmente per la stabilità dei manufatti stradali, ferroviari o portuali o la tenuta di asfalti stradali e binari ferroviari, ma porterà anche a impatti più generali sulle dinamiche del settore, per la ripartizione modale in ambito urbano e per il trasporto marittimo. Ad esempio il mercato della navigazione commerciale nella zona del mediterraneo risentirà della maggiore competitività delle nuove rotte che si apriranno dei decenni futuri attraverso il mare artico, rispetto alle rotte tradizionali fra l’Europa e l’Estremo Oriente, che attualmente passano dal Canale di Suez fino ai porti del Mediterraneo.
Sono anche da considerare impatti indiretti, fra cui ad esempio le variazioni delle caratteristiche dispersive dell’atmosfera che possono rendere ancora più critico il contributo dei trasporti alla qualità dell’aria in ambito urbano.
L’analisi condotta ha rilevato l’esistenza di importanti carenze conoscitive, sia per quanto riguarda la letteratura esistente, sia a livello di buone pratiche nelle azioni di adattamento e dei loro costi. L’analisi quantitativa sulle potenziali implicazioni in diversi scenari futuri è ancora ad uno stadio iniziale; alcune ricerche sono stati effettuate o sono in corso a livello internazionale, mentre in Italia il problema non è stato ancora affrontato in maniera organica.
I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni dovrebbero, invece, già da ora essere inseriti e tenuti in considerazione nelle attività di pianificazione, progettazione, costruzione e manutenzione delle infrastrutture di trasporto, nonché più in generale in quella che dovrebbe configurarsi come una politica dei trasporti.

Tab. 18.1 Matrice degli impatti potenziali dei cambiamenti climatici sul sistema dei trasporti in Italia.

 

 

Gli impatti dei cambiamenti climatici in Italia. Una valutazione economica
Carlo Carraro, Jacopo Crimi, Alessandra Sgobbi

L’Italia si troverà ad affrontare dei costi a causa dei cambiamenti climatici. Le stime economiche settoriali presentate nei diversi capitoli del libro mostrano come alcuni settori guadagneranno dal cambiamento climatico, mentre altri perderanno. Il capitolo conclusivo del libro dimostra tuttavia come non sia sufficiente sommare i singoli contributi settoriali per arrivare ad una stima complessiva dei danni del cambiamento climatico a livello nazionale: bisogna infatti tenere conto dell’adattamento autonomo al cambiamento climatico realizzato attraverso le variazioni di prezzo e i nuovi equilibri sui mercati mondiali.
Considerando gli effetti redistributivi tra i diversi settori economici italiani in uno scenario di innalzamento della temperatura di 0,93 °C nel 2050 rispetto al 2001, i settori che registrano una maggiore riduzione nella quantita fisica prodotta sono quelli dei servizi (da –0,71% a –0,87%), ed alcuni settori dell’energia (petrolio –1,88%, gas –3,72%). Questi ultimi riflettono un calo nella domanda mondiale di gas e petrolio, dovuto principalmente alle minori necessita di riscaldamento invernale, mentre aumenta la domanda e la produzione di energia elettrica (+1,8%), anche per il maggior utilizzo di condizionatori. In uno scenario in cui al cambiamento climatico si affianchi in Italia anche un aumento dei fenomeni di desertificazione, sarebbe ovviamente il settore agricolo a registrare un forte calo di produzione, soprattutto per quel che riguarda la produzione di grano (–1,45%), ma anche di frutta e verdura. Si osserva anche una significativa riduzione nella produzione di beni di investimento. Tuttavia, questo fenomeno e legato al calo degli investimenti, che avviene in Italia ma non in tutti i paesi del mondo.
Considerando dunque gli effetti redistributivi del cambiamento climatico a livello nazionale, questo potrebbe costare al sistema economico italiano tra lo 0,12 e lo 0,16% del PIL nel 2050, pari a una riduzione del reddito nazionale di circa 20/30.000 milioni di euro, l’equivalente di un’importante manovra finanziaria. Cifre che nel 2100 potrebbero sestuplicare.