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Cancun, l’America di Obama opta per il”piano B”. Pochi tagli, ma subito

22 novembre 2010 0 commenti

 

Il presidente Obama alla conferenza di Copenaghen

Il presidente Obama alla conferenza di Copenaghen

Gli Stati Uniti arriveranno alla conferenza dell’Onu sul clima, che si aprirà il 29 novembre a Cancun, con un’agenda molto ridotta e meno ambiziosa di quella presentata da Barack Obama al vertice di Copenhagen

Un vero e proprio «piano B», scrive il Washington Post, dopo che il «piano A» dell’amministrazione democratica, che puntava all’approvazione da parte del Congresso di una legge per la riduzione delle emissioni basata sul modello del «cap and trade», in effetti giù defunto prima del voto, è stato definitivamente «sepolto» dalla vittoria repubblicana del due novembre scorso.

 Nel nuovo Congresso, che si insedierà il prossimo 5 gennaio, non solo avrà molto più peso il partito che si oppone all’idea che il problema delle emissioni dei gas serra che provocano il riscaldamento globale debba essere affrontato nel modo indicato dalla Casa Bianca, ma quasi la metà dei nuovi deputati e senatori del Gop, 43 su 98, non crede neanche che sia provato che i cambiamenti climatici siano stati provocati dall’uomo.  «Non credo che che vi siano prove scientifiche a sufficienza per sostenerlo», ha dichiarato, per esempio, Marco Rubio, neo eletto senatore della Florida e stella del Tea Party in ascesa nel partito. Queste premesse fanno ipotizzare che i repubblicani non renderanno facile la vita anche all’agenda molto più ridotta – che prevede riduzioni di emissioni per industrie e centrali elettriche – che sta approntando l’amministrazione democratica. 

 Il nuovo piano, del resto, «non è sufficiente a raggiungere i livelli di riduzione delle emissioni indicati dall’amministrazione», spiega al Post Robert Stavins, docente della Kennedy School of Government dell’università di Harvard ricordando che Obama a Copenhagen aveva detto che gli Stati Uniti avrebbero ridotto le proprie emissioni «nell’ordine del 17%» in meno rispetto ai livelli del 2005. L’obiettivo in teoria è ancora confermato dall’amministrazione, ma per Stavins «non lo raggiungeremo, anche se raggiungeremo in ogni caso qualcosa». 

La battaglia al Congresso per un’efficace legge sul cambiamento climatico è stata persa da Obama già prima delle elezioni, quando – dopo una facile approvazione alla Camera nell’estate del 2009 – il testo si arenato al Senato dove anche diversi democratici erano contrari all’idea di approvare, in mezzo ad una crisi economica, una misura che  impone controlli e oneri maggiori sull’industria e fa alzare il prezzo dei carburanti.  Ma ora lo tsunami del Tea Party rischia di farsi sentire anche alla conferenza che si aprirà la prossima settimana in Messico, già senza aspettative di un accordo globale – per il quale si rimanda all’appuntamento in Sudafrica nel 2011 – ma con la speranza di raggiungere piccoli accordi di compromesso su singoli problemi collegati, come la deforestazione e il sostegno ai paesi più piccoli e poveri minacciati dai cambiamenti climatici. Il timore, spiegano gli esperti, che gli Stati Uniti siano costretti, dopo la svolta e l’apertura di Obama, dalla mancanza di sostegno politico interno a tornare all’immobilismo sulle emissioni, che era stata la posizione di George Bush, che per anni ha bloccato i negoziati globali. Un ritorno di Washington su queste posizioni, argomentano ancora gli esperti, rischierebbe di giustificare l’inazione anche dell’altro grande inquinatore, la Cina.

 La Casa Bianca, comunque, sta cercando di andare avanti, individuando le misure che può varare senza dover ricorrere all’assenso da parte del Congresso, sottolineando, come ha fatto il presidente Obama subito dopo la sconfitta elettorale, che la legge basata sul cap and trade «era solo un modo di affrontare il problema, non l’unico». Tra gli altri allo studio, un accordo negoziato con le principali società fornitrici di energia elettrica per una riduzione volontaria delle emissioni, sul modello del patto fatto lo scorso anno con l’industria automobilistica.

  Quello che non si riesce a fare a livello federale, poi, l’amministrazione democratica cercherà di farlo direttamente negli stati ai quali dal prossimo anno l’Epa, l’agenzia nazionale per l’ambiente, chiederà di imporre limiti per le emissioni dei gas serra a industrie e centrali elettriche. Nonostante la feroce opposizione dei gruppi industriali, finora quasi tutti gli stati – tranne il Texas – si stanno preparando all’entrata in vigore delle nuove misure: ma la nuova maggioranza repubblicana alla Camera ha già fatto capire che intende, subito dopo il suo insediamento, approvare una risoluzione che blocchi le nuove regole dettate dalla Epa.