Dopo Copenaghen serve una “lobby del pianeta”
Le luci della ribalta sulla COP 15 si sono spente. I riflettori da settimane ormai non sono più puntati sull’ambiente e i cambiamenti climatici. Dopo che l’Italia, come il resto del mondo, è rimasta attaccata alla TV seguendo con la solita morbosità la notizia del momento, ora di clima si parla perlopiù solo in riferimento al fatto che fa molto freddo e quindi forse la situazione tanto grave non è.
A Copenhagen i governi del pianeta hanno fallito. I capi di stato hanno dimostrato di non essere in grado di portare avanti un progetto a lungo termine per la terra, si sono presentati nella capitale danese sostanzialmente a mani vuote, cercando di salvare la faccia con un accordo di 3 pagine che è vergognosamente ridicolo rispetto al lavoro fatto per preparare la COP 15.
È altrettanto drammaticamente vero però che a fallire a Copenhagen è stata anche la società civile. E non le migliaia di persone di tutto il mondo che si sono impegnate giorno e notte per fare pressione in ogni modo possibile sulle delegazioni incaricate di portare avanti le trattative sul post Kyoto. Ma chi dalla propria poltrona e dalla propria scrivania ha seguito appassionato le vicende della COP 15 ed ora se n’è già dimenticato.
Il meccanismo è vizioso e senza dubbio le responsabilità non sono da una parte sola. Ma il rischio ora è che il processo che ha generato il flop del Summit sul clima si ripeta. Il pericolo è che per mesi la stampa non riprenda più i temi legati ai cambiamenti climatici se non magari per proporre la tesi del nuovo negazionista di turno che dirà, com’è già accaduto, “fa freddo, ergo non è vero che il pianeta si sta surriscaldando” e che si arrivi a dicembre 2010 dopo un anno di pseudo silenzio, con un intervallo magari a maggio quando a Bonn riprenderanno i “Climate talk”, senza che sui cambiamenti climatici il dibattito sia realmente rimasto acceso.
Il cittadino comune attribuirà la colpa a stampa e Tv, perché se i media non ne parlano (quelli tradizionali si intende, perché nel web il dibattito resta accesissimo) è ovvio che l’opinione pubblica si assopisca e pensi “beh, forse l’urgenza non è poi così forte”. I politici quindi non verranno spinti ad agire e non prenderanno nuovi provvedimenti e il ritardo si sommerà al ritardo ed i rischi continueranno a moltiplicarsi e a riprodursi. Le associazioni ambientaliste nel frattempo proseguiranno cercando di sopperire a questo gap, ma la loro resterà pur sempre un’azione di nicchia, identificata con un determinato e specifico movimento. Nel mezzo si attiveranno le lobby del mondo dell’economia e dell’industria che spingeranno affinché l’argomento si affronti in un modo o nell’altro a seconda dell’interesse che rappresentano. La scienza intanto continuerà inesorabile a produrre silenziosamente i propri dati che, in rapporto alla loro stravaganza, verranno sparati in prima pagina o nelle notizie di apertura dei TG, provocando una catena di San Antonio di commenti, che diranno tutto ed il contrario di tutto, generando ulteriore confusione nell’opinione pubblica.
E’ il normale gioco delle parti, verrebbe da dire, succede così nella società di oggi. Non fosse che purtroppo si da il caso che del problema cambiamenti climatici nessuno, ma proprio nessuno, si possa più lavare le mani.
La giostra va fermata. Serve un’analisi condivisa e tutti gli attori coinvolti è necessario che si prendano le proprie responsabilità e reagiscano immediatamente per creare dinamiche sociali alternative.
E se è vero che il nostro mondo è mosso dagli interessi, è necessario allora stimolare la nascita di un concetto diverso di cittadinanza, una nuova lobby, quella del pianeta, che consideri le foreste, l’acqua e la terra un bene da difendere, proprio come il petrolio.
E’ una questione di bisogni, ce l’hanno insegnato a scuola, l’uomo deve soddisfare innanzitutto quelli primari e poi quelli secondari. La comunità scientifica ci sta spiegando e le testimonianze da molte parti del mondo ci stanno dimostrando che non stiamo parlando di come migliorare la qualità della nostra vita, ma di come fare in modo che nel breve termine questa possa essere conservata e non interrotta. E siccome fino a prova contraria l’uomo per sopravvivere ha bisogno di aria, acqua e cibo, allora la tutela del pianeta diventa automaticamente la difesa di un interesse legittimo, basilare.
Non è un’utopia, è una necessità e c’è da essere abbastanza certi che, se al posto dell’immagine simbolo dei cambiamenti climatici, del bistrattato povero orso polare, utilizzassimo quella di Fuffy che non riesce più a passeggiare nel parco perché il prato è allagato, completamente sommerso dall’acqua, ci sarebbe qualche cittadino in più a darsi da fare.Se il meccanismo non verrà fermato, se la giostra continuerà a girare con la stessa nenia di sempre, se l’uomo non deciderà di stare dalla parte del pianeta, allora a Mexico City, la spettacolare e commovente campagna realizzata da Greenpeace, in occasione della Cop 15, con i volti dei capi di stato del mondo invecchiati che affermano “Mi spiace avremmo potuto fermare gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici ma …. non l’abbiamo fatto”, dovrà essere modificata. Dovrà riprodurre invece l’immagine di una persona comune, mentre guarda suo nipote seduto sulle sue ginocchia e dice:
“Scusami tesoro, sapevo dei cambiamenti climatici, ne vedevo gli effetti ma sai tra il lavoro, i conti, la crisi, … non ho trovato il tempo per salvare il tuo futuro”.