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Il rapporto Wwf sulle specie a rischio clima. INTEGRALE

14 marzo 2009 0 commenti

REPORT WWF


LE 10 SPECIE SIMBOLO MINACCIATE

DAL CAMBIAMENTO CLIMATICO


L’ORSO POLARE

SPECIE, STATUS E MINACCE

L’orso polare è un’icona dell’Artico e un simbolo del catastrofico impatto che ha il riscaldamento globale sul mondo intero. La sopravvivenza a lungo termine dell’orso polare in natura è ora letteralmente appesa ad un sottile strato di ghiaccio.

Ad oggi, vi sono approssimativamente 20.000-25.000 orsi polari in natura, la maggior parte in Canada (13 sottopopolazioni su 19). Sei di queste sottopopolazioni sono già in declino o mostrano critici segni di declino.

L’orso polare può vivere 25-30 anni, predando principalmente le foche dalla criniera e quelle dagli anelli. Gli spostamenti stagionali dell’orso dipendono dalla disponibilità di ghiaccio. Per la sopravvivenza dell’orso polare, il ghiaccio è fondamentale, perché funge da piattaforma per cacciare, riposare, accoppiarsi e riprodursi. Durante la primavera e l’inizio dell’estate gli orsi vi cacciano intensamente le foche per accumulare l’energia necessaria per affrontare il lungo e buio inverno artico. Gli orsi polari spesso percorrono lunghe distanze durante l’anno, e la peggiore minaccia per la loro sopravvivenza è la perdita del pack dovuta ai cambiamenti climatici. Con l’incremento delle temperature, fino a 5° nell’Artico negli ultimi 100 anni, sta scomparendo l’habitat vitale per questo predatore. Tra il 1979 e il 2006, la piattaforma di ghiaccio artico è diminuito del 21%, un’area quasi equivalente all’estensione dell’Alaska. A maggio 2008, la United States Fish & Wildlife Service ha individuato nella perdita di habitat la principale futura minaccia, ed ha inserito l’orso polare tra le specie a rischio di estinzione nel US Endangered Species Act, perché “tutta o comunque una significante percentuale della popolazione globale sarà in pericolo nell’immediato futuro”.

Gli orsi polari sono minacciati anche dall’espansione delle attività industriali come lo sviluppo e il commercio di petrolio e gas, da prelievi insostenibili, e dalla scomparsa delle principali prede, le foche, come risultato della perdita di quell’habitat costituito dal ghiaccio.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Da un recente studio fatto da United States Geological Survey risulta che all’attuale tasso di riduzione di ghiaccio, il 42% dell’ habitat estivo dell’orso polare andrà perso entro la metà del 21 secolo. L’impatto più violento si avrà in primavera ed estate, periodi cruciali per gli orsi polari

per assicurarsi il cibo e per la riproduzione prima del lungo inverno. In base a questa previsione sui cambiamenti delle dimensioni delle superfici ghiacciate, approssimativamente due terzi degli orsi polari ancora esistenti scomparirà. Se non si intraprendono azioni drastiche per ridurre le emissioni di gas serra e, dunque, per ridurre l’impatto del riscaldamento terrestre, l’orso polare potrebbe scomparire nel giro di soli 75 anni.

Una delle peggiori conseguenze del riscaldamento globale sull’Artico è l’assottigliamento dello strato di ghiaccio e la sua sempre più facile spaccatura. Nell’area delle baie di Hudson e Baffin, in Canada, il ghiaccio si rompe 3 settimane prima rispetto al 1979. Ciò lascia meno tempo ai maschi e alle femmine di orso polare di metter su massa corporea cacciando e cibandosi. Il peso medio di una femmina adulta è sceso da 290kg nel 1980, a 230kg nel 2004. Il peso soglia al di sotto del quale una femmina non è più in grado di riprodursi è 189kg. Se la riduzione di peso continua allo stesso tasso, le femmine non saranno più in grado di riprodursi entro il 2012.

La precoce spaccatura dei ghiacci mette a rischio anche la sopravvivenza dei cuccioli di orso polare. A causa della modificazione delle superfici ghiacciate, diminuiranno le tane che le femmine possono usare come rifugio. L’alterazione dell’andamento delle precipitazioni potrebbe provocare la caduta dei tetti delle tane prima che madre e cuccioli siano in grado di abbandonare la tana, lasciando loro esposti alle intemperie e ai predatori. Le aree usate come rifugio e quelle di caccia potrebbero iniziare ad essere troppo distanti le une dalle altre per le femmine con cuccioli ancora vulnerabili e non ancora in grado di resistere nell’acqua ghiacciata che divide le due aree.

Come per l’orso polare, anche il ciclo di vita della loro principale specie preda, la foca, è strettamente legato alla presenza della banchisa polare. Quando i livelli della banchisa scendono, la foca dagli anelli ha difficoltà a riprodursi e le popolazioni di foca sicuramente andranno in contro ad un calo. Meno foche vuole dire minor quantità di cibo per l’orso, e nell’Artico, non vi sono risorse così abbondanti di prede ad alto valore calorico.

L’orso polare è una specie altamente specialistica, fortemente adattata all’ambiente polare, caratteristica che la rende una specie estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici e alla perdita di habitat. La drastica riduzione del suo habitat e i suoi effetti sulle condizioni fisiche e la capacità di riprodursi degli orsi, hanno radicalmente ridotto alcune popolazioni e molte sono quelle si stima avere lo stesso destino.

COSA SI PUO’ FARE?

Le istituzioni, gli enti, le comunità civili e i singoli individui giocano un ruolo importantissimo nel salvare l’orso polare dall’estinzione riducendo le emissioni di gas serra, e intervenendo su tutti i fattori che rappresentano una minaccia per l’orso polare e il loro habitat artico. Gli orsi polari non sono semplicemente un’icona dell’Artico, ma facendo integralmente parte di questo critico ecosistema ne rappresentano lo stato di salute. Avendo un ruolo chiave nella regolazione del clima globale, un Artico vivente è importante non solo per gli orsi polari, ma per l’intera umanità.

La difficile condizione di questa maestosa creatura è un avvertimento iniziale e un richiamo ad agire per cambiare ciò che spetterà a tutti noi, se non prendiamo subito dei provvedimenti per ridurre le emissioni di gas serra e creare delle comunità sostenibili.

Il WWF sta lavorando per aumentare la resilienza dell’Artico proteggendo habitat critici, promuovendo un uso sostenibile delle risorse naturali, e riducendo le minacce dovute all’incremento delle attività umane in questa regione prioritaria.

LE TIGRI DELLE SUNDERBANS

SPECIE, STATUS E MINACCE

Negli ultimi 100 anni, il numero delle tigri ha avuto un declino del 95%, attualmente in natura si stima siano sono rimasti solo 4000 esemplari. Tre sottospecie si sono estinte e una quarta non è stata avvistate in natura da oltre 25 anni. La tigre del Bengala è una delle cinque sottospecie sopravvissute e, con una popolazione di circa 1400 esemplari, è quella più numerosa.

La maggior parte delle tigri del Bengala occupano le foreste e le praterie dell’India, ma si trovano anche in Bangladesh, Bhutan, Myanmar e Nepal. L’area delle Sunderbans, patrimonio mondiale dell’UNESCO, compreso tra il delta dei fiumi Gange e Brahmaputra, è la più grande foresta di mangrovie del mondo. A cavallo tra due paesi India e Bangladesh, questa è l’unica foresta di mangrovie dove sono state trovate delle tigri.

Le Sunderbans, che in sanscrito significa bellissima foresta, è la casa per circa 400 tigri, che vagano per 10000 Km2 di paludi ecologicamente ricche e di acquitrini inframmezzati da isole.

Le tigri sono state cacciate per oltre 1000 anni e, fino al 1930, questa è stata la principale minaccia per la loro sopravvivenza. Sebbene ora le tigri siano legalmente protette, ancora oggi sono cacciate per il commercio illegale di parti del corpo, come pelli e ossa, ricercati per la medicina tradizionale cinese e per l’abbigliamento. Le popolazioni di tigri sono diminuite anche per la considerevole riduzione dei loro habitat e per la loro frammentazione. Questi felini hanno bisogno di grandi aree per sopravvivere e la maggior parte delle zone rimaste sono troppo piccole o frammentate da poter ospitare popolazioni vitali di tigri e di loro prede

Le ultime popolazioni del mondo sono minacciate sia dalla distruzione degli habitat di foresta che dal declino delle loro prede, come ungulati selvatici. Si pensa, inoltre, che la riduzione delle prede selvatiche e degli habitat siano responsabili dell’aumento del conflitto tra uomini e tigri, visto che le tigri, a causa degli habitat naturali sempre più piccoli, sono costrette a entrare sempre più in contatto con persone e animali domestici.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Non è ancora noto quanto i cambiamenti climatici influenzeranno tutte le sottospecie di tigri nel mondo ma è probabile che le tigri nelle Sunderbans già sentano i loro effetti a causa dell’innalzamento del mare.

Con l’innalzamento del livello del mare la sommersione diventa una reale minaccia per le isole delle Sunderbans e questo può significare un disastro non solo per le tigri, ma anche per le diverse forme viventi di animali e piante della regione, incluse le specie minacciate come gli squali del Gange, le tartarughe marine e d’estuario e del gatto pescatore.

Studi recenti suggeriscono che entro 50 anni più del 70% dell’habitat delle tigri delle Sunderbans potrà essere perso a causa dell’innalzamento del livello del mare. Se questo accadesse i restanti habitat non potranno essere sufficienti per mantenere una popolazione di tigri vitale. L’ecosistema delle Sunderbans è estremamente fragile e sensibile ai cambiamenti di salinità. A causa dell’innalzamento del livello del mare come risultato dei cambiamenti climatici globali, alcune mangrovie sono esposte all’acqua salata; ciò può portare, nel tempo, ad un drastico e negativo cambiamento nella sopravvivenza delle piante. Se gli habitat cambiano e diventano più aperti le tigri possono diventare un bersaglio molto più facile per i bracconieri.

Nelle Sunderbans, ogni anno dozzine di persone muoiono a causa degli attacchi da parte delle tigri, aumentando di conseguenza il conflitto tra uomini e tigri.

In futuro la riduzione degli habitat, inghiottiti dal mare, potrebbe costringere le tigri ad entrare sempre più spesso in contatto con l’uomo, con tragiche conseguenze per entrambi, aumentando così il conflitto tra uomini e tigri.

COSA SI PUÒ FARE?

Il WWF sta lavorando su 13 aree prioritarie in 11 Paesi per il recupero delle tigri selvatiche, per restaurare e collegare i loro habitat, per rafforzare gli sforzi antibracconaggio, ridurre il conflitto uomini-tigri, per fermare il commercio di parti e derivati e affinché le popolazioni locali diventino attori nella conservazione di questa specie.

Nelle Sunderbans gli scienziati stanno lavorando per combattere l’impatto potenziale dell’innalzamento del livello del mare sulle tigri e per restaurare le foreste di mangrovie in modo da compensare quelle perse a causa dell’innalzamento del mare, riducendo la dipendenza delle comunità locali dalla foresta, controllando il bracconaggio sulle specie preda attraverso programmi educativi e di capacity building e riducendo le uccisioni di persone da parte delle tigri.

Il WWF chiama tutti a sentirsi coinvolti e ad impegnarsi a ridurre l’emissione di gas serra per assicurarsi che la pericolosa soglia di 2 C°di riscaldamento non sia raggiunto.

LE BARRIERE CORALLINE

SPECIE, STATUS E MINACCE

Le barriere coralline sono uno tra i più diversi ecosistemi della terra. Le colonie di coralli consistono di molti piccoli animali chiamati “polipi”, ognuno dei quali secerne uno esoscheletro calcareo che, ramificandosi e crescendo, costruisce la struttura della barriera corallina. Così come supportano milioni di altre specie, le barriere coralline contribuiscono all’economia mondiale con 30 miliardi di dollari l’anno (UNEP 2008). Il reale contributo delle barriere coralline alle comunità umane può essere addirittura più elevato; qualcuno stima il loro valore, in termini ecologici ed economici, pari a 375 miliardi di dollari. Questa stima deriva dal fatto che le barriere proteggono le isole tropicali, forniscono redditi, cibo e lavoro attraverso le industrie del turismo e della pesca, con benefici che influenzano l’economia di molti paesi.

Le barriere coralline si trovano sia in ambienti di acqua profonda (temperatura di 3-14°C), come i fiordi norvegesi, che in ambienti di acqua poco profonda (temperatura di 21-30°C) dei mari tropicali, come intorno alle isole del Pacifico meridionale. I coralli di acqua fredda sono solitari, vivono in totale oscurità, in acque altamente produttive e ricche di nutrienti e per la loro sopravvivenza dipendono da piante morte, materia animale e zooplancton. Le reti a strascico e il dragaggio dei fondali sono una seria minaccia per questi coralli.

I coralli delle acque tropicali vivono in simbiosi con delle minuscole alghe fotosintetizzanti che forniscono ai polipi il fabbisogno di energia quotidiano. I coralli e le loro alghe simbiotiche sono molto sensibili ai cambiamenti della salinità, della temperatura marina superficiale, e ai cambiamenti della radiazione UV e dei livelli dei nutrienti. Le sostanze inquinanti prodotte dalle attività costiere, la pesca eccessiva, il prelievo eccessivo e l’inquinamento marino sono tra le cause principali che minacciano la sopravvivenza delle barriere coralline tropicali. Se queste cause non vengono ridotte si prevede, nei prossimi 30-50 anni, una distruzione del 50% della Grande Barriera Corallina.

L’IMPATTO DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Gli effetti del cambiamento climatico stanno già agendo su tutte le barriere coralline. Lo sbiancamento dei coralli è un sintomo dello stress che si ha quando viene superata la soglia termica dei coralli e l’alga simbiotica (zooxantelle), da cui il corallo dipende, viene espulsa. La morte dei coralli dovuta allo sbiancamento è uno degli effetti più devastanti del riscaldamento globale.

Nel 1998, il 16% delle barriere coralline di tutto il mondo morì a seguito di un evento massivo di sbiancamento. Quasi la metà dei coralli dell’Oceano Indiano occidentale ne sono stati affetti. In Kenia, Maldive, Tanzania e Golfo Persico, la perdita di corallo raggiunse il 95%. Si prevede che, agli attuali livelli di riscaldamento, lo sbiancamento del 1998 diventi un evento regolare nei prossimi 50 anni. L’UNEP (2008) ritiene che come effetto del cambiamento climatico più dell’80% delle barriere coralline mondiali possa morire in qualche decina di anni. Ciò avrebbe un impatto devastante non solo per la perdita dei coralli, ma anche per l’eliminazione delle molte specie che dai coralli dipendono, con conseguenze negative sulle comunità locali, che soffrirebbero della perdita di una così importante fonte di reddito (pesca ed ecoturismo) e di sostentamento.

Mentre in alcune barriere si riscontrano segnali di ripresa dopo l’evento di sbiancamento del 1998 (per esempio un’apparente resilienza allo sbiancamento in qualche popolazione di corallo del Golfo Persico), in altre barriere la ripresa è debole (per esempio l’Oceano Indiano Occidentale, parte delle Filippine e dell’Indonesia), soprattutto a causa di continui impatti antropici, come la pesca eccessiva. Se non limitiamo il riscaldamento globale ed i suoi effetti sugli oceani, si prevede che nel 2050 rimarrà solo il 5% della Grande Barriera Corallina Australiana. Un’altra conseguenza del riscaldamento globale riguarda l’aumento dei livelli di anidride carbonica e la conseguente acidificazione degli oceani che avrà effetti sulla capacità dei coralli di costruire il loro esoscheletro calcareo. Infatti, diminuirà la concentrazione marina di carbonato di calcio e di conseguenza diminuirà la capacità del corallo di costruire e rigenerarsi. La Grande Barriera Corallina sta già iniziando ad indebolire il suo scheletro a causa del costante calo di calcificazione degli ultimi 25 anni, i coralli della Grande Barriera Corallina hanno un tasso di crescita inferiore del 15% rispetto a prima del 1990.

L’insorgenza di malattie nei coralli e l’esplosione di specie distruttive come la stella di mare, l’Acanthaster planci, possono amplificare gli effetti dovuti al cambiamento climatico. L’inquinamento e la pesca eccessiva di specie che controllano altre specie invasive potrebbero causare problemi peggiori.

COSA SI PUÒ FARE?

Non è troppo tardi per salvare le barriere coralline, però non c’è tempo da perdere perché gli effetti del riscaldamento globale già stanno agendo.

Il WWF sta lavorando per fare modo che il riscaldamento globale sia mantenuto al di sotto dei 2°C, attraverso un taglio netto alle emissioni di CO2, e contemporaneamente sta lavorando in tutto il mondo sulle altre cause che minacciano le barriere coralline e le specie che esse ospitano.

Per guadagnare tempo, il WWF sta lavorando con governi ed imprese per ridurre l’inquinamento, perché siano migliorate le attività di pesca e sia costituita una vasta ed adeguata rete di aree marine protette. Il WWF ha convinto il Governo australiano a investire 375 milioni di dollari in misure atte alla riduzione dell’inquinamento, ma la pesca eccessiva ancora continua a minacciare le barriere coralline. Il WWF sta lavorando per la conservazione del Coral Sea, adiacente alla Grande Barriera Corallina, e per la conservazione del Coral Triangle, che si estende tra Malesia, Indonesia, Filippine, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Fiji e Australia settentrionale, ed ospita il 75% di tutte le specie di corallo nel mondo. Queste coraggiose iniziative aiuteranno le barriere coralline a sopravvivere ai cambiamenti climatici mentre noi cercheremo una rapida riduzione delle emissioni di CO2 nel prossimo decennio.

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I CANGURI

SPECIE, STATUS E MINACCE

I canguri appartengono alla superfamiglia dei Macropodeida, noti anche come macropodi, che in greco significa “piedi lunghi”. Oltre ai canguri, i macropodi comprendono i wallaby, i tilogali, i canguri arboricoli e i ratti canguro. Le dimensioni dei macropodi variano, dal minuscolo ratto canguro muschiato, che pesa appena mezzo chilo, al canguro rosso gigante, che può pesare fino a 100 kg.

Quando gli europei si sono stabiliti in Australia, esistevano 83 specie di macropodi: da allora 9 si sono estinte e 28 sono considerate minacciate. Alcune specie sono comuni, come il canguro grigio, ma molte tra le specie più piccole, come il wallaby dal pelo rosso sono a rischio di estinzione. I motivi principali della diminuzione sono la vasta perdita di habitat, i predatori, gli incendi e la lotta con alcune specie importate come gatti e volpi europee. I cambiamenti climatici aumentano queste minacce e si ritiene che la maggior parte delle specie di canguri non saranno in grado di adattarsi né ai cambiamenti genetici né a quelli climatici.

La maggior parte dell’estinzione dei macropodi è avvenuta tra gli animali di dimensioni critiche (35-5.500 grammi) perché questi sono più vulnerabili ai predatori invasivi. Molti dei wallabi delle rocce, rattti canguro, canguri arboricoli e wallabi pelosi sono a rischio estinzione, così come il crescent naitail wallaby e quello toolache. In Nuova Guinea 11 delle 12 specie di canguri arboricoli nativi sono minacciate, mentre 4 sono in via di estinzione, soprattutto a causa della caccia umana.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

I cambiamenti climatici che si prevedono in Australia sono gli eventi estremi, come siccità più secche e di lunga durata, inondazioni più estese e cicloni tropicali più devastanti. Potrebbero aumentare la quantità e l’estensione degli incendi durante le stagioni calde e secche, potrebbero cambiare la quantità d’acqua o la sua disponibilità stagionale in alcune regioni. Per i macropodi le conseguenze di questi cambiamenti sono molte e diverse.

La previsione di temperature più calde e piogge più scarse potrebbero causare pozze d’acqua che si potrebbero asciugare e pascoli che si potrebbero esaurire, portando fame e disidratazione nelle specie meno mobili. Già 2°C di riscaldamento in più potrebbero scatenare cambiamenti nei flussi pluviali ai quali sono legate molte specie di macropodi. Modelli bioclimatici recenti prevedono che l’habitat del wallaby saltatore, abituato a condizioni tropicali umide, possa diminuire dell’89% con 2°C in più, portando questo animale vicino al punto di estinzione. Anche per le specie relativamente più mobili, come il canguro rosso e il canguro comune, un aumento della temperatura di 2°C li decimerebbe. Per le specie minacciate che già vivono in habitat ridotti e frammentati il surriscaldamento globale può comportare una loro diminuzione. Alcune di queste specie, già minacciate, come il wallabi dalle briglie, saranno particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Questo canguro è già ridotto a una piccola popolazione nel Queensland centrale, e non riesce a spostarsi verso Sud a causa della presenza di volpi importate. I canguri arboricoli nel Nord del Queensland sono confinati in habitat freddi e situati in cima alle montagne: l’aumento della temperatura li può spingere ancora più in alto e può ridurre la quantità di habitat adatti. I canguri arboricoli sono anche molto sensibili ai cicloni forti a causa della loro bassa motilità all’interno del loro home range. I cicloni più forti, in Nuova Guinea, che fanno cadere il fogliame più denso potrebbe renderli più vulnerabili ai cacciatori.

I modelli bioclimatici rivelano che già con un aumento di temperatura di 0,5°C gli habitat di alcune specie, come il wallaby delle rocce e il wallaby lepre che popolano la parte sudoccidentale dell’Australia, possono non essere più adatti. Queste specie hanno già una distribuzione limitata e ristretta e poco spazio in cui muoversi, per cui i cambiamenti climatici potrebbero essere catastrofici per la loro piccola popolazione frammentata.

L’aumento di frequenza e di intensità degli incendi potrebbe tradursi in un disastro per i potoroo, piccoli marsupiali australiani, che dipendono per la loro alimentazione da una varietà di tartufi. Gli incendi frequenti riducono le varie specie di tartufi, creando conseguenze serie agli potoroo.

Le volpi e i gatti selvaggi sono la causa dell’estinzione di 22 specie di mammiferi australiani. Gli eventi estremi, come siccità e inondazioni dovuti ai cambiamenti climatici, sono condizioni favorevoli per l’ulteriore espansione di specie non native e invasive in Australia e Nuova Guinea. I piccoli mammiferi australiani, come gli opossum pigmei di montagna, sono anch’essi a rischio di essere uccisi dalla volpi, e il numero crescente di conigli nell’Isola Macquarie dipende dai cambiamenti climatici.

COSA SI PUÒ FARE?

Ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici abbassando le emissioni è un passo essenziale per favorire la capacità di ripresa ecologica dei canguri minacciati in Australia e Nuova Guinea. Il WWF Australia sta lavorando con gruppi comunitari e governi per gestire meglio le specie importate, proteggere gli habitat dei macropodi e insegnare agli indigeni a controllare gli incendi. In Nuova Guinea il WWF lavora per conservare le foreste in cui vivono i canguri arboricoli, collabora con le comunità per stabilire delle moratorie sulla caccia e promuove fonti alternative di cibo per le specie native.

BALENE & DELFINI

SPECIE, STATUS E MINACCE

Nel mondo esistono 86 specie di balene, delfini e focene, che insieme costituiscono il gruppo dei cetacei. Malgrado i cetacei siano protetti da decenni, nove delle 15 specie di balene continuano ad essere minacciate di estinzione, a cui si sono aggiunte 22 tra specie e sottospecie di delfini e focene.

Fino al 1986, anno del divieto internazionale di caccia alle balene, alcune specie sono state portate sull’orlo dell’estinzione. Alcune specie, come la balena franca nordatlantica e la balenottera azzurra, non sono ancora fuori pericolo. Solo nell’Antartico, sono state uccise dai balenieri, più di 22 milioni di balene. Oggi, la moratoria internazionale sulla caccia alle balene non l’ha completamente fermata, infatti, il Giappone, ancora conduce una caccia che definisce “scientifica”, la Norvegia e l’Islanda continuano a farlo grazie ad una “riserva” avanzata

In tutto il loro areale di distribuzione i cetacei continuano ad essere minacciati, le cause includono la caccia, il rimanere impigliati nelle reti da pesca (bycatch), l’inquinamento chimico ed acustico, la perdita di habitat, gli incidenti con le navi e la pesca eccessiva. Ogni giorno vengono uccisi dal bycatch circa 1000 cetacei, oltre i 300.000 l’anno. La specie più in pericolo, il delfino di fiume dello Yangtze, potrebbe essere la prossima specie estinta, se già non lo è, ciò a causa del bycatch e della degradazione dell’habitat. Negli habitat di acqua dolce, la sopravvivenza dei delfini di fiume e delle focene è seriamente messa in pericolo dall’inquinamento, dalla costruzione di dighe ed da altre attività umane svolte nel loro già frammentato habitat.

L’IMPATTO DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Con il riscaldamento degli oceani, molti cetacei sono costretti a spostarsi in cerca di habitat più adatti alle loro caratteristiche. La specie adattate a vivere in condizioni polari possono subire un declino, non essendo per loro possibile trovare un altro habitat. Per esempio, la Vaquita, gravemente minacciata, con una distribuzione limitata alle acque calde del nord del Golfo della California in Messico, non sarebbe in grado di spostarsi in habitat più freddi. I delfini di fiume, con il loro areale così limitato, è probabile che siano influenzati negativamente dai cambiamenti climatici.

Come risultato del riscaldamento globale, i ghiacci polari si stanno sciogliendo rapidamente. Dagli anni ’70, il ghiaccio del Mare Artico è diminuito del 14% e si prevede che per il 2040 nel bacino del Mare Artico, durante l’estate, non sarà più presente il ghiaccio. La perdita di habitat glaciali può essere particolarmente dannosa per i cetacei artici, come il narvalo, il beluga e il globicefalo, che da tali habitat dipendono. I cambiamenti del pattern della banchisa artica possono aumentare gli incidenti di “intrappolamento”, questo accade quando i buchi, necessari alla respirazione dei cetacei, cambiano locazione o si chiudono completamente. Recentemente nella Baia di Baffin, in Canada, sono morti più di 500 narvali, proprio a causa di un intrappolamento.

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La riduzione dei ghiacci artici, inoltre, renderà accessibili allo sfruttamento umano aree prima inaccessibili, come il Passaggio a Nord-Est. Questo aumenterà l’impatto negativo sulle popolazioni di balene, aumentando gli incidenti con le navi, le attività legate alla pesca commerciale ed l’inquinamento.

Nei mari antartici, i modelli promossi dall’IPCC prevedono che, con gli attuali livelli di emissione, entro il 2042 si assisterà ad una diminuzione media dei ghiacci polari meridionali compresa tra il 10 ed il 15%, con un riscaldamento globale di 2°C. In alcune aree la perdita potrebbe essere, addirittura pari al 30%. Cetacei, come la balenottera minore antartica, strettamente dipendenti per la loro alimentazione dal margine della banchisa, potrebbero essere seriamente minacciati. Inoltre, la riduzione del margine della banchisa potrebbe causare un sovraffollamento di animali appartenenti a specie come la megattera e l’orca, e quindi un aumento della competizione per il cibo e per lo spazio con altre specie, come le foche. Il sovraffollamento potrebbe, inoltre, aumentare la predisposizione dei cetacei alle malattie. Nei mari antartici, i fronti oceanici, sono habitat molto importanti per numerose specie, vista la abbondanza, stagionale, di nutrienti come il fitoplancton e il krill. In un clima più caldo questi fronti si muoverebbero verso sud, ciò significherebbe per le balene, come ad esempio le megattere, un aumento delle distanze delle loro migrazioni. Migrazioni più lunghe, non costituirebbero solo un più alto costo energetico per queste balene, alcune delle quali già viaggiano per migliaia di chilometri, ma gli lascerebbero meno tempo per alimentarsi.

La riduzione della banchisa antartica lascia prevedere una diminuzione del krill, che per molte balene costituisce l’unica fonte di cibo. La balenottera azzurra, visto il suo status già fragile, potrebbe diventare, per la diminuzione dl krill, una specie particolarmente vulnerabile. Questa specie non si è mai ripresa dalle attività di caccia condotte nell’ultimo secolo, nell’Antartico dei 239.000 esemplari stimati prima della caccia a fini commerciali, attualmente ne sono rimasti circa 1700.

L’aumento dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, provoca un’acidificazione degli oceani, che ne assorbono la maggiore quantità. Balene, come il capodoglio, possono essere negativamente influenzate dall’acidificazione vista l’influenza che questa ha sulle loro prede principali, i calamari.

COSA SI PUÒ FARE?

Così come la riduzione delle emissioni porterebbe ad un riscaldamento globale inferiore alla pericolosa soglia dei 2°C, altre azioni potrebbero essere intraprese per ridurre l’impatto del riscaldamento globale sulle balene. Il WWF, con la protezione di numerosi habitat marini e di acqua dolce e il tentativo di limitare il bycatch, sta lavorando, insieme ai suoi partner, per ridurre tutte le altre minacce sui cetacei. Considerata l’incertezza degli impatti che il cambiamento climatico avrà su queste specie, il WWF sta lavorando per garantire che la gestione delle specie più minacciate sia cautelativa, flessibile ed adattabile.

I PINGUINI

SPECIE, STATO E MINACCE

I pinguini sono uccelli che non volano e si trovano nei climi freddi nell’emisfero meridionale, a Nord fino alle Isole Galapagos, e nelle coste subtropicali del Sud Africa, Australia e Sud America. Tuttavia la maggior parte dei pinguini vive nell’Antartide e nelle isole sotto l’Antartide. Si dividono in quattro specie: il pinguino Imperatore, il pinguino di Adelia, il pinguino Antartico e il pinguino Papua. Tra queste specie, il pinguino di Adelia e quello Imperatore sono “ghiacciai dipendenti”, nel senso che i loro habitat sono situati sulla banchisa per buona parte dell’anno.

Delle 19 specie di pinguini, 11 sono minacciate di estinzione. I pinguini sono una parte integrale della catena alimentare dell’Antartide. Si cibano di krill, piccoli crostacei, calamari e pesci e alimentano orche e foche. Gli skua simili ai gabbiani mangiano anche i pinguini appena nati e le uova. I pinguini adulti non hanno nemici naturali sulla terra e quindi non hanno paura degli esseri umani.

I pinguini più grossi e robusti sono gli Imperatore, che pesano fino a 40 kg e raggiungono in altezza il metro e quindici. Superano il lungo e oscuro inverno, malgrado le temperature rigidissime, che raggiungono i meno 49°C. Come tutti i pinguini, hanno uno strato spesso di grasso e piume idrorepellenti che li proteggono dalle temperature così fredde. Le femmine di pinguino Imperatore affrontano viaggi lunghi anche 200 km sul ghiaccio per deporre un uovo; poi lasciano l’uovo al maschio e ritornano all’oceano per cibarsi. Il ghiaccio spesso e le distese ghiacciate, e le temperature rigide, sono essenziali per questo viaggio e per la sopravvivenza dei piccoli.

I pinguini di Adelia vivono tutta la loro vita vicino al ghiaccio marino, e per sopravvivere hanno bisogno di terra senza ghiaccio né neve. Questa specie ha esigenze molto particolari, poiché ha bisogno di mare aperto all’interno della banchisa d’inverno e all’inizio della primavera per riprodursi con successo. Quindi solo una piccola percentuale del continente antartico è adatto a loro; ecco perché sono molto sensibili ai cambiamenti climatici.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Il ghiaccio marino copre il 6% degli oceani del globo ed ha un impatto maggiore sull’atmosfera terrestre, gli oceani e gli ecosistemi polari. E’ molto sensibile ai cambiamenti climatici. Nella penisola antartica occidentale il ghiaccio marino copre un’area che si è ridotta del 40% in 25 anni. Ai poli, l’IPCC ha verificato che la temperatura dell’aria si riscalda il doppio che nel resto del pianeta.

Con il surriscaldamento globale, la banchisa sta sparendo dall’Antartide con una velocità doppia della media di quella del resto della terra. Per le due specie di pinguini che hanno bisogno di ghiaccio le conseguenze saranno devastanti. Con un aumento della temperatura di 2°C il 50% dei pinguini Imperatore e il 75% dei pinguini di Adelia sono destinati a diminuire sensibilmente o a scomparire. Il pinguino Imperatore è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici per la sua forte dipendenza dalla banchisa. Le temperature invernali più calde assottigliano il ghiaccio e alcune popolazioni di questa specie stanno già diminuendo. Al contrario dei pinguini di Adelia, che possono spostarsi per trovare nuovi siti dove deporre le uova, i pinguini Imperatore hanno difficoltà a trovare nuovi siti dove allevare i loro piccoli, perché hanno bisogno di ghiaccio di un certo spessore.

I pinguini di Adelia nidificano su terreni senza ghiaccio né neve, vicino al mare aperto. Le nevicate molto abbondanti nella penisola antartica, dovute ai cambiamenti climatici, rendono difficile il nidificare a questi pinguini. Le nevicate più recenti facilitano gli spostamenti delle specie che si adattano meglio a temperature più calde, come i pinguini Papua e quelli Antartici, facendo allontanare così i pinguini di Adelia dalle loro aree di nidificazione e scaricando ulteriori pressioni su queste ultime popolazioni.

Molti pinguini devono anche lottare per trovare il cibo, poiché quando il ghiaccio si scioglie, diminuisce anche la fonte primaria della quale si cibano, il krill. Alcune colonie della specie Antartica sono diminuite del 30-66% negli ultimi 26 anni, a causa della scarsità di cibo.

I pinguini sono adatti alle condizioni fredde ed estreme dell’Antartide, un ambiente che sta cambiando rapidamente giorno dopo giorno, e si sta scaldando più velocemente del resto del pianeta. Con un aumento mondiale della temperatura di 2°C e con la diminuzione dei ghiacciai marini nell’Antartide, molti pinguini dovranno affrontare una dura lotta per la sopravvivenza.

COSA SI PUÒ FARE?

Il WWF sta incalzando i governi, le associazioni e coloro che hanno potere decisionale perché raggiungano un accordo per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Lo scopo è quello di mantenere la temperatura al di sotto dei 2°C di innalzamento previsti entro il 2042, onde evitare conseguenze catastrofiche per i pinguini e le altre specie selvatiche dell’Antartide. Nell’Oceano meridionale il WWF sta cercando di combattere le altre minacce all’ecosistema antartico e di creare una rete di aree marine protette, che ricoprano almeno il 10% dei 20 km.2 dell’Oceano meridionale.

LE TARTARUGHE MARINE

SPECIE, STATUS E MINACCE

Esistono sette specie di tartarughe marine, cinque delle quali considerate dalla International Union for Conservation of Nature (IUCN) come specie in pericolo o in pericolo critico di estinzione. La tartaruga embricata, la tartaruga bastarda e la tartaruga liuto sono specie in pericolo critico. Le femmine non si riproducono ogni anno e possono impiegare decenni per raggiungere la maturità sessuale. L’accoppiamento avviene in acque limitrofe alle spiagge dove depongono le uova, in zone tropicali, subtropicali o temperate calde. Le cure parentali sono minime, anche se varie covate vengono deposte ogni stagione rirpoduttiva, con un centinaio di uova a covata.

I piccoli di solito emergono di notte quando la temperatura è più bassa, usando la luminosità del mare per trovare l’acqua. Sebbene sia prodotto un gran numero di piccoli, il tasso di mortalità è elevato, poiché molti predatori catturano i piccoli ancor prima che raggiungano il mare aperto.

Oggi le probabilità che una tartaruga viva a lungo o che raggiunga la maturità sessuale sono esigue. Le tartarughe sono vittime della raccolta delle uova, del carapace, della pelle e del grasso per i mercati nazionali ed internazionali (il commercio internazionale è illegale, così come quello nazionale in molti paesi). Centinaia di migliaia di tartarughe vengono uccise accidentalmente ogni anno perchè catturate (bycatch) negli ami del palangrese e nelle reti a strascico. Habitat importanti per la riproduzione o l’alimentazione vengono distrutti da uno sviluppo costiero incontrollato.

Le luci delle strade e dei palazzi costruiti vicino alle spiagge di nidificazione possono disorientare i piccoli portandoli lontano dal mare, dove muoiono disidratati o predati.

Le aree di alimentazione sono danneggiate dalla pesca eccessiva, dalla sedimentazione e dalla distruzione della barriera corallina e delle praterie marine. Predatori invasivi come volpi, maiali e cani mangiano le uova prima che della schiusa.

Le minacce sono ingenti, amplificate dal fatto che queste sono specie altamente migratrici che utilizzano diversi tipi di habitat sulla terraferma, vicino la costa e in mare aperto.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Le tartarughe marine nuotano nei mari del mondo da 100 milioni di anni e hanno già affrontato cambiamenti climatici nel passato, ma mai cambiamenti così repentini e di notevole portata, come quelli attuali. Con popolazioni che sono già in rapido declino, e la maggior parte delle specie sull’orlo dell’estinzione a causa dell’impatto antropico, il cambiamento climatico sarebbe il colpo di grazia.

Questo perché tutte le fasi di vita delle tartarughe sono profondamente influenzate dalla temperatura. Il sesso delle tartarughe è determinato dalla temperatura d’incubazione delle uova. Dato che temperature più alte producono femmine e quelle più basse maschi, sabbie scure e calde producono più femmine mentre sabbie chiare e più fresche producono più maschi. Piccoli cambiamenti di temperatura dovuti al riscaldamento globale possono cambiare il rapporto tra sessi, con una prevalenza di femmine. In molte spiagge di nidificazione già si assiste alla nascita di una maggioranza di femmine. Le temperature estreme sono un’importante causa di mortalità per varie specie di tartarughe marine. Un basso tasso di schiusa è stato associato a temperature superiori a quelle idonee per lo sviluppo, causando stress da calore, mortalità embrionale o lo sviluppo di piccoli debilitati o di dimensioni ridotte inferiori. L’incubazione delle uova richiede una temperatura di 25-32°C. La temperatura di alcune spiagge ora supera i 34°C, risultando spesso letali. In approfonditi studi di alcune spiagge della Grande Barriera Corallina sono state rilevate temperature estive pari a circa 36°C.

L’aumento della temperatura del mare, dovuto ai cambiamenti climatici, ha determinato la scomparsa di importanti aree di alimentazione per le tartarughe, sbiancando il corallo e inaridendo le praterie marine. L’aumentata intensità delle tempeste può distruggere o modificare le spiagge di nidificazione e danneggiare i nidi e le uova deposte. L’aumento delle precipitazioni, dovute alle tempeste, può essere la causa della perdita delle praterie marine e dei siti di nidificazione, essendo state già associate a ridotti tassi di crescita e di riproduzione delle tartarughe verdi nel Queensland.

L’innalzamento del mare, causato dal riscaldamento globale, può ulteriormente erodere le spiagge dove le tartarughe depongono le uova. Cambiamenti nelle correnti oceaniche possono alterare le modalità di alimentazione delle tartarughe e i loro percorsi migratori.

Un maggior numero di tartarughe è stato recentemente registrato nel Regno Unito, mentre in Florida le tartarughe comuni sembrano nidificare in anticipo in risposta al riscaldamento globale.

Le tartarughe embricate, come altre specie, tornano a riprodursi nelle stesse spiagge dove sono nate 20-25 anni prima. Se sopravvivono a tutte queste minacce, tra 20 anni cosa troveranno le femmine di tartarughe che nascono oggi, quando torneranno a riprodursi sulle spiagge natie?

COSA SI PUO’ FARE?

Il WWF sta lavorando per ridurre tutti i tipi di minaccia che oggi stanno mettendo a rischio la sopravvivenza delle tartarughe marine, per aumentare le probabilità di sopravvivenza di molte generazioni ed infine di adattarsi alle mutate condizioni ambientali.

Proteggere e gestire appropriatamente le spiagge critiche per la nidificazione è essenziale, includendo anche la conservazione della vegetazione naturale delle coste e delle spiagge.

Ridurre la mortalità dovuta all’impatto della pesca, dell’eccessivo sfruttamento, del commercio illegale, e inappropriato sviluppo costiero aiuterà a salvare le tartarughe marine per le future generazioni. Ora deve essere fatto ogni sforzo per ridurre le emissioni di gas serra. Per specie a rischio di estinzione come le tartarughe, due gradi sono troppi.

L’ORANGO

SPECIE, STATUS E MINACCE

“L’uomo rosso delle foreste” asiatiche, era ampiamente diffuso dalla Cina meridionale, attraverso le pendici Himalayane alle isole di Java e all’Indonesia. Oggi delle due specie ancora presenti restano meno di 80.000 esemplari allo stato selvatico, confinati nelle due isole di Sumatra e del Borneo in quelle poche arre ancora non sottoposte ad una intensa deforestazione. Negli ultimi dieci anni la popolazione di oranghi è diminuita del 30-50%. A questo ritmo, tra alcuni decenni, l’unica grande scimmia antropomorfa asiatica potrebbe scomparire del tutto.

Gran parte delle foreste di pianura in cui vivono gli oranghi sono state distrutte e ciò che sorprende è che tale distruzione procede insistentemente ad un ritmo elevato. Dal 1985 quasi la metà delle foreste di Sumatra sono state cancellate dall’avanzata della deforestazione. Il disboscamento è dovuto allo sviluppo di piantagioni di palme da olio, alla ricerca di polpa per la carta, legname e l’impianto di piantagioni di piante da gomma, questo è alla base del taglio dissennato di alberi, che combinato agli incendi, sta distruggendo l’ultimo habitat degli oranghi. Tragicamente, a causa dei loro lenti spostamenti, si ipotizza che molti oranghi muoiano tra le fiamme degli incendi che si sviluppano nelle aree ancora forestate.

La scelta delle aree utili dove gli oranghi possono sopravvivere è determinata dalla disponibilità di cibo, dalla qualità dell’ habitat e dalla presenza di “cospecifici”, ovvero esemplari della stessa specie. Gli oranghi sono strettamente legati al loro ambiente e la loro dieta comprende circa un migliaio di specie vegetali. Sono per lo più frugiferi (mangiatori di frutta), anche se consumano foglie e liane (viti lignee), corteccia e piccoli invertebrati. Sono arboricoli (vivono sugli alberi) e quindi sono strettamente dipendenti dalla foresta. Hanno un tasso riproduttivo molto basso; le femmine partoriscono un solo cucciolo ogni 6/9 anni. Gli oranghi sono strettamente dipendenti dalla foresta per la loro sopravvivenza, essi stessi rivestono anche un ruolo importante per l’equilibrio ecologico della foresta, disperdendo i semi delle piante di cui si nutrono.

Altre gravi minacce alla sopravvivenza degli oranghi sono la caccia illegale e il commercio. Sono uccisi dagli agricoltori, soprattutto durante le campagne di incendio delle foreste e catturati per essere venduti come animali da intrattenimento e da compagnia. In Kalimantan, alcune tribù locali catturano gli oranghi per la sussistenza. Sia il commercio nazionale che internazionale è illegale, ma indagini del Network TRAFFIC – programma di lavoro promosso congiuntamente tra WWF e IUCN – indicano che circa 200-500 oranghi vengono commerciati ogni anno. Molti di questi sono esemplari giovanissimi, considerando che per ogni giovane animale messo in commercio almeno un altro ne è stato ucciso (la madre), è notevole la perdita per la popolazione selvatica. L’apertura delle foreste dovuta al disboscamento, alle piantagioni di palma da olio e la costruzione di nuove strade, permette un più facile accesso ai cacciatori per uccidere e catturare gli oranghi.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Il cambiamento climatico, influenzando rispettivamente precipitazioni e incendi nelle stagioni umide e secche, rappresenta un’ulteriore minaccia per la sopravvivenza degli oranghi in Indonesia. Con il riscaldamento globale, si prevede un aumento delle precipitazioni nelle isole indonesiane, che possono causare inondazioni e smottamenti. Entro il 2025, modelli climatici suggeriscono che le precipitazioni annuali aumenteranno del 70%, e l’aumento delle precipitazioni causerà un cambiamento nella crescita e nei cicli riproduttivi delle piante di cui si cibano gli oranghi. Questo può ridurre la quantità di cibo disponibile e tali limitazioni alimentari possono compromettere la capacità riproduttiva delle femmine.

Si prevede, a causa del riscaldamento globale, l’aumento d’incendi durante la stagione secca. Tutto questo già oggi sta già avendo gravi ripercussioni sulla popolazione di oranghi.

Nel 1997, nel Kalimantan in Indonesia, a causa degli incendi ci fu una riduzione delle foreste del 12%, e si stima che questo evento ha portato alla morte di almeno 1000 dei 40.000 oranghi ancora presenti.

L’azione congiunta di tagli e incendi non solo riduce l’habitat e le risorse alimentari, ma ne influenza le migrazioni e i modelli alimentari.

Ironia della sorte, mentre il previsto cambiamento climatico è causa dell’ulteriore degradazione degli habitat degli oranghi, la produzione di CO2 dovuta al taglio e agli incendi contribuisce in maniera sostanziale al riscaldamento globale.

Nella provincia di Riau in Sumatra, è stato calcolato che il fuoco combinato con la modifica delle paludi di torba, rilascia carbonio nell’atmosfera, una quantità pari al 122% dell’emissione annuale dei Paesi Bassi.

Non solo gli oranghi sono a rischio a causa dei cambiamenti climatici; l’IPCC indica che il 50% della biodiversità dell’Asia è a rischio a causa del cambiamento climatico. Nelle foreste indonesiane sono presenti anche altre specie, come l’elefante indonesiano, i rinoceronti di Sumatra e l’orso malese, ma anche il 16% di tutte le specie di rettili e anfibi del mondo.

COSA SI PUÒ FARE?

Il WWF sta lavorando per ridurre la deforestazione nelle isole di Sumatra e del Borneo (sia nel lato della Malesia che nelle aree Indonesiane), adoperandosi a beneficio degli oranghi e per ridurre sensibilmente l’emissione di anidride carbonica dovuta alla perdita delle foreste. Il WWF sta lavorando con governi e imprese in Indonesia per mettere a punto strategie di adattamento al cambiamento climatico e per ridurre l’emissione di gas serra a livello nazionale. Nel Danau Sentarum e nel Betung Kerihun National Park, Kalimantan occidentale, il WWF sta lavorando per la conservazione degli oranghi promuovendo azioni che possano consentire strategie di adattamento al cambiamento climatico e contemporaneamente per mitigarne gli effetti.

Il WWF lavora in collaborazione con governi e altre NGO, incluso il TRAFFIC, per fermare il commercio illegale degli oranghi. L’Orang-utan Conservation Strategy e l’Action Plan, elaborati nel 2007 con il governo indonesiano e le altre NGO presenti hanno lo scopo di stabilizzare la popolazione e l’habitat degli oranghi entro il 2017.

GLI ELEFANTI AFRICANI

SPECIE, STATUS & MINACCE

Due sottospecie di elefanti sono state riconosciute in Africa: l’elefante della savana e l’elefante delle foreste. Gli elefanti giocano un importante ruolo chiave nell’ecosistema africano. In alcune foreste occidentali, più del 30% delle diverse specie di alberi hanno bisogno degli elefanti per disperdere e far germinare i propri semi. Questi animali hanno una grande influenza sulla struttura delle foreste e dei terreni boscosi creando spazi e ambienti più aperti che sono adatti a molte altre specie.

Gli elefanti una volta si potevano trovare in tutto il continente africano, dalla costa del Mediterraneo alla punta del Sud Africa; ma nel XX secolo i più grandi mammiferi della terra ferma diminuirono significativamente in gran parte dell’areale geografico a causa della caccia legale ed illegale per il commercio

dell’avorio. In particolare in Africa occidentale e centrale, e in parte dell’Africa orientale, c’è stato il maggiore declino. Dal 1989, quando è stata ratificata la messa al bando mondiale del commercio dell’avorio, attraverso la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES), gli elefanti africani sono aumentati o rimasti stabili in gran parte del loro areale, specialmente nell’Africa meridionale ed orientale. Ma, soprattutto nell’Africa occidentale e centrale, molte popolazioni rimangono ancora oggi ad alto rischio. La domanda di avorio e carne d’elefante è proseguita a causa del commercio illegale e della

presenza, in parte dell’Asia e dell’Africa, di numerosi mercati nazionali non regolati. La degradazione e perdita degli habitat, particolarmente dovuta al taglio insostenibile del legname, continuano a minacciare molte popolazioni foresta dell’Africa occidentale e centrale. Tra il 1980 e il 2005 la popolazione umana dell’Africa è quasi raddoppiata passando da 480 milioni di persone, aumentando, così, la competizione con gli elefanti per le risorse naturali. Con la popolazione totale di elefanti ora tra i 470.000 e i 690.000 esemplari, il conflitto uomini-elefanti è in ascesa.

Le previsioni dell’IPCC sui cambiamenti climatici suggeriscono che l’Africa sia più vulnerabile ai cambiamenti climatici di qualsiasi altro continente abitato dagli uomini, con grandi implicazioni per la biodiversità dell’Africa, compresi gli elefanti. Il quarto rapporto di valutazione dell’ IPCC ha previsto dal 2080 un aumento del 5-8% delle aree aride e semiaride. Nello scena

ed intensi. Alcune previsioni climatiche suggeriscono che in parte dell’Africa occidentale e meridionale ci potrebbe essere un cambiamento di vegetazione. L’aumento della frequenza degli incendi dovuti ai cambiamenti climatici potrebbe influire sul habitat degli elefanti riducendo la disponibilità di cibo. Cambiamenti nella vegetazione potrebbero influire sul ciclo dell’acqua e sulla presenza di ruscelli, con un forte impatto sulla struttura e funzione dell’ecosistema, con effetti sulla distribuzione delle specie selvatiche aumentando la competizione sulla risorsa idrica.

Gli elefanti sono altamente adattabili, ma non è nota la loro capacità d’adattamento ai cambiamenti climatici così come a quelli del loro ambiente.

Inoltre l’agricoltura e gli insediamenti umani potrebbero ostacolare la loro possibilità di movimento verso habitat più adatti. La migrazione degli elefanti è legata ai cambiamenti stagionali delle piogge e della vegetazione. I cambiamenti climatici, probabilmente, avranno effetto su questi movimenti stagionali, ma potranno anche colpire la distribuzione di tutta la popolazione africana. I cambiamenti climatici potrebbero avere effetti sull’attuale distribuzione di un gran numero di specie in Africa compresi gli elefanti, in molte importanti aree protette, incluso il famoso Parco Nazionale Kruger. Alcuni modelli climatici suggeriscono che, intorno al 2080, le popolazioni d’elefante potrebbero avere una contrazione delle aree con un habitat adatto a loro e sarebbero costrette a doversi spostare dalle aree centrali verso quelle meridionali. Questi modelli prevedono che, intorno al 2080, il 20% delle aree protette, in cui attualmente gli elefanti vivono, potrebbero essere climaticamente non più adatte a loro. Alcuni scienziati prevedono che, per il riscaldamento globale, la presenza complessiva degli elefanti dovrebbe diminuire (riduzione del 14% secondo le previsioni di Palmer, 2008).

La disponibilità di cibo e acqua si riduce significativamente durante le forti siccità e questo ha un effetto negativo sulla mortalità degli elefanti, specialmente dei cuccioli, ciò vuole dire un più basso successo riproduttivo.

A causa dei cambiamenti climatici in Africa si avranno tragiche ripercussioni anche sulla popolazione umana, considerato che il 70% vive d’agricoltura dipendente dalle piogge. L’IPCC prevede che per il 2020 questo tipo di agricoltura diminuirà del 50% e milioni di persone avranno problemi dovuti alla carenza d’acqua.

La riduzione delle risorse idriche e alimentari causata dai cambiamenti climatici globali probabilmente porterà ad un aumento di competizione tra uomini e specie selvatiche. Questo inasprirà sempre di più il conflitto tra uomini ed elefanti come già osservato nel Trans Mara in Kenya durante un periodo di siccità in cui si è riscontrato è aumentato del bracconaggio a fini alimentari.

COSA SI PUÒ FARE?

Il WWF ha dei progetti sul campo nell’Africa occidentale, centrale, orientale e meridionale. Gli elefanti hanno bisogno di possibilità di movimento per potersi adattare ai cambiamenti climatici. Ora e nel futuro,da quando molti degli elefanti vivono fuori dalle aree ufficialmente protett, è assolutamente necessario, che la pianificazione dell’uso del territorio prenda in considerazione sia le esigenze umane e che quelle degli elefanti.

Le Aree di conservazione transfrontaliera (TFCAs), costruendo dei corridoi per elefanti, permettono il movimento attraverso i confini nazionali di questi animali e permettono, con delle azioni mirate, alle popolazioni locali di trarre beneficio dalla presenza degli elefanti.

Il WWF in collaborazione con altri partner internazionali lavora per sviluppare le TFCAs in tutta l’Africa, assistendo i governi e le comunità locali a definire dei piani di uso del territorio che tengano conto sia delle esigenze delle persone che di quelle delle specie selvatiche.

18

ALBATROS

SPECIE, STATUS & MINACCE

Gli albatros sono maestosi uccelli oceanici che percorrono distanze enormi. Sono gli uccelli marini più grandi del mondo: alcune specie hanno un’apertura alare di circa 3,5 metri. Ma allo stesso tempo gli albatros rappresentano la famiglia di uccelli marini più minacciata al mondo. Delle 22 specie esistenti, 18 sono quelle a rischio, e le popolazioni di alcune specie, come l’albatros di Amsterdam e quello urlatore, sono talmente ridotte che l’estinzione potrebbe essere imminente.

Gli albatros spendono più del 95% del loro tempo volando sugli oceani del mondo a caccia di prede, tornando sulla terraferma solo per riprodursi. Sono uccelli monogami, con un tasso riproduttivo molto basso, poiché producono un solo uovo per volta. Nei mari antartici, la nidificazione avviene su piccole quanto remote isole, come l’isola Macquarie, la Heard Island, la McDonald, Campbell, la Crozets, l’Albatros, Pedra Branca e Mewstone.

Nel XIX secolo gli albatros erano vittime dei naviganti che li uccidevano per divertimento e vendevano le loro penne. Oggi, gli albatros sono minacciati da un gran numero di attività umane, in particolare dalla pesca di calamari e dalla pesca a strascico. Le loro prede naturali sono i calamari e i pesci, che di solito sono usati come esche nella pesca con il palangrese. La cattura accidentale di questi uccelli durante la pesca rappresenta una delle peggiori minacce per gli albatros, poiché restano impigliati negli ami, o possono mangiare scarti di plastica e/o altri tipi di detriti che ritrovano in mare. Nonostante l’industria della pesca sia riuscita a ridurre enormemente le cause di morte degli albatros, resta ancora considerevole il numero di animali che muoiono ogni anno a causa della pesca illegale e non regolamentata.

Sull’isola di Macquarie, importante sito di riproduzione per quattro specie di albatros, è ultimamente comparsa un nuovo tipo di minaccia. Specie invasive quali ratti, che predano i pulcini di albatros, e conigli, che stanno distruggendo l’habitat ideale per la loro nidificazione, riducono il successo riproduttivo degli albatros.

L’IMPATTO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Con popolazioni già notevolmente ridotte, è molto probabile che i cambiamenti climatici possano peggiorare le condizioni degli albatros del mondo, soprattutto di quelle specie che hanno range geografici ristretti. In generale, gli uccelli sono buoni indicatori dei cambiamenti climatici poiché il loro ciclo di vita è strettamente correlato alle condizioni meteorologiche e climatiche. Ciò è particolarmente vero per gli uccelli migratori, e per quelli che percorrono notevoli distanze in cerca di cibo, come gli albatros. Nonostante non sia ancora noto l’impatto dei cambiamenti climatici sulle popolazioni di albatros, né quale sia la loro capacità di adattarsi alle mutate condizioni, iniziano ad essere evidenti alcuni segnali preoccupanti.

Gli albatros che si riproducono in uno specifico sito, sono maggiormente a rischio per i cambiamenti climatici, poiché le loro popolazioni non sono in grado di far fronte al cambiamento ambientale. In Australia sei specie di albatros si riproducono solamente su due isole, geograficamente molto vicine. Gli albatros sono molto “fedeli” al sito scelto per la riproduzione ed è molto improbabile che si riproducano altrove. Ad oggi non vi sono studi sufficienti per valutare quanto queste specie saranno colpite, né come la vegetazione di queste isole potrà rispondere ai cambiamenti climatici. Al momento sembrerebbe solo che le alte temperature favoriscano le specie invasive, quali ratti e conigli, che, su isole come la Macquarie, rendono ancora più vulnerabile la sopravvivenza delle già ridotte popolazioni di albatros.

Sull’oceano antartico la temperatura dell’aria è in continuo aumento dal 1960, e parallelamente è stato registrato un declino delle popolazioni di albatros sopraciglio nero e di albatros urlatore. Rispetto alle acque fredde, quelle più calde sono meno ricche di nutrienti e il successo alimentare degli uccelli marini è stato correlato a fattori come la temperatura, la profondità e la ricchezza in nutrienti delle acque superficiali. Nel 2002, si registrò una temperatura superficiale dell’acqua insolitamente elevata, alla quale fu associata la ridotta disponibilità di cibo. Causa della morte di molti pulcini.

La prevalenza di temporali e tempeste rappresenta un altro fattore importante, i nidi vengono letteralmente spazzati via dal vento e, come successe nel novembre del 1994 ad una popolazione di albatros dell’isola di Chatman, le uova furono danneggiate, se non distrutte.

Dal 1970 il clima si fa sempre più caldo e secco in tutti i siti di riproduzione dell’albatros urlatore in Nuova Zelanda. Ciò rappresenta un ulteriore fattore di stress per gli adulti che non potendo abbandonare il pulcino nel nido, rischiano il collasso per un colpo di calore. Le alte temperature promuovono anche la crescita e la riproduzione di grosse mosche letali per i pulcini. A causa dell’erosione del habitat idoneo alla riproduzione, dovuta per esempio ai temporali, gli albatros potrebbero essere forzati a competere per lo spazio ormai ridotto, e la maggiore densità di popolazione potrebbe, inoltre, provocare un aumento dei parassiti.

COSA SI PUO’ FARE?

La conservazione degli albatros richiede la cooperazione di molti paesi diversi, per le loro lunghe rotte migratorie. Di fronte ai cambiamenti climatici la soluzione migliore per gli albatros è la riduzione di tutti i tipi di minaccia, così come la riduzione dell’emissione di gas serra per evitare il raggiungimento della soglia critica dei 2°C.

L’accordo sulla conservazione degli albatros (Agreement on the Conservation of Albatross and Petrels, ACAP) è una convenzione internazionale per proteggere tutte le specie di albatros. E’ una convenzione focalizzata sulla cooperazione internazionale e lo scambio di informazioni e di competenze per la conservazione di questi uccelli marini. Tra gli scopi dell’accordo ACAP rientra il controllo delle specie non native delle isole dove gli albatros si riproducono, e l’implementazione di misure atte a ridurne la cattura accidentale e a proteggere gli habitat idonei alla loro riproduzione.

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