Clima: gli ambientalisti propongono il loro trattato
Stabilizzare le emissioni di gas serra entro il 2020 ai livelli del 1990, tagliarle globalmente dell’80% entro il 2050. Il tutto per fare in modo che il riscaldamento del pianeta sia decisamente inferiore ai 2 gradi, e possibilmente resti sotto il grado e mezzo.
A proporlo sono sei associazioni ambientaliste _ Greenpeace, Wwf, Germanwatch, Indyact, la David Suzuki Fondation e il National ecological center of Ukraine _ che hanno presentato alla conferenza UNFCCC sul clima in corso a Bonn, evento preparatorio in vista dell’appuntamento decisivo del prossimo dicembre a Copenaghen, una articolata e per certi versi rivoluzionaria proposta di trattato. Una scelta innovativa dato che sinora le associazioni ambientali si erano limitate a valutare (e criticare) le proposte governative.
Secondo la proposta il protocollo dovrebbe essere strutturato in periodi d’impegno di cinque anni, a partire dal 2013-2017. Verrebbe fissato un Global carbon budget -_un tetto globale delle emissioni di carbonio _ che per il 2020 sarebbe di 36.1 gigatonnellate equivalenti di carbonio (grossomodo i livelli del 1990) e nel 2050 scenderebbe a 7.2 gigatonnellate: come dire meno 80% rispetto ai livelli del 1990. Per rendere possibile questo percorso di riduzione, le emissioni dovrebbero raggiungere il loro picco nel 2013-2017. Naturalmente responsabilità comuni determinerebbero impegni differenziati per paesi sviluppati e non.
Il piano ambientalista prevede un percorso su due piani.
Per i paesi industrializzati già oggi firmatari del protocollo di Kyoto (ai quali si propone di aggiungere paesi come Singapore, la Corea del Sud e l’Arabia Saudita) si propone la fissazione di “impegni di riduzione” così strutturati:
-40% al 2020 (come dire 11.7 gigatonnellate di Co2 equivalente)
-95% al 2050 (come dire appena 1 gigatonnellata di Co2 equivalente).
Per i paesi sviluppati il protocollo dovrebbe prevedere anche un impegno legalmente vincolante, e cioè:
-23% dei livelli del 1990 entro il 2015.
Per raggiungere l’obiettivo ogni paese dovrebbe varare un piano da qui al 2050 denominato “Zero carbon action plan”. La grande maggioranza della riduzione dovrebbe essere effettuata attraverso azioni nei confini nazionali.
I paesi sviluppati dovrebbero anche in buona parte farsi carico economicamente della riduzione delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici dei paesi in via di sviluppo, contribuendo per 160 milioni di dollari all’anno (114 miliardi di euro al cambio attuale) per coprirne i costi.
I paesi in via di sviluppo invece non avrebbero obblighi legalmente vincolanti ma si impegnerebbero a:
+84% al 2020 rispetto ai valori del 1990
-51% al 2050 rispetto ai valori del 1990 (come dire scendere a 6,3 gigatonnellate di Co2 equivalente)
Il tutto sarebbe implementato con un “Low carbon action plan”.
L’accordo di Copenaghen dovrebbe dar vita ad una “Copenaghen climate facility” che avrebbe il compito di gestire i meccanismi finanziari e di trasferimento tecnologico e ad un “Adaptation action framework” per garantire l’adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi invia di sviluppo.
La proposta prevede di introdurre pienamente nel trattato anche le foreste, prevedendo incentivi per i paesi che bloccano la deforestazione lo comunque preservano le foreste: l’obiettivo è ridurre del 75% entro il 2020 le emissioni del settore forestale e azzerarle entro il 2030.
E’ una proposta coraggiosa, i critici diranno irrealistica, che getta un sasso nello stagno delle trattative. Increspa l’acqua smuovendo la poco ambiziosa base negoziale. E’ in effetti probabilmente troppo coraggiosa, almeno visto quanto (poco) si è riusciti a fare finora. Ma ha una base scientifica solida perchè risponde alla necessità di contenere il cambiamento climatico a livelli accettabili e ha il merito di alzare l’asticella delle aspettative. Una qualche traccia la lascerà. E non sarebbe poco.
Alessandro Farruggia