Clima: ancora molto rumore, ancora poche azioni.
Come denuncia il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, “i negoziati sul clima procedono con una lentezza glaciale”. La definizion è di chirurgica precisione. Tutti i leader che contano dicono di voler intervenire, il presidente Obama denuncia il rischio di andare incontro “a un cambiamento irreversibile”, e da Sarkozy al nuovo premier giapponese Hatoyama tutti gli danno ragione. In termini di consapevolezza si sono fatti enormi passi in avanti anche solo rispetto allo scorso anno. Ma le parole restano tali senza azioni conseguenti se non quelle promesse dall’Europa e dal Giappone. Buone, ma da sole insufficienti. Sfotunatamente la trattativa per il trattato che dovrà sostituire il protocollo di Kyoto è (molto) incartata. Raggiungerlo il prossimo dicembre a Copenaghen è, allo stato, una mera possibilità.
Si dirà: la Cina ha fatto importanti aperture. Vediamo. Il presidente cinese Hu Jingtao, nel suo intervento alle Nazioni Unite, ha promesso una significativa riduzione delle emissioni per unità di Pil _ cioè, fuor di tecnicismi, di produrre emettendo un pò meno anidride carbonica _ il che non significa impegnarsi a dei tagli assoluti, seppur volontari, ma a ridurre la curva di crescita delle emissioni. La Cina cioè continuerà ad emettere sempre di più: ridurrà solo il suo tasso di crescita. E’ un passo significativo, importante, non scontato, ma di per sè non basta per stappare lo champagne. Considerando che già ora la Cina è il primo emettitore mondiale, la garanzia che le sue emissioni continheranno a crescere dà la misura della estrema difficoltà di dar vita ad un nuovo accordo che sia efficace e sostenibile. E’ utile ma va sostanziato in una impegno con numeri precisi, corroborato con finanziamenti (o magari concessioni commerciali in sede di Wto) legati ai risultati ottenuti. Non diplomaticamente, un meccanismo del tipo: il bastone e la carota. Migliorerà del 30% la tua intensità energetica? Avrà un tot di finanziamenti. Del 15%? Diciamo la metà.
L’efficacia del Kyoto 2 si misurerà infatti su sue fattori: l’introduzione di target al 2020 _ almeno il 20% per i paesi sviluppati _ e il coinvolgimento dei grandi paesi in via di sviluppo come Cina e India. Se ci si riuscirà, sarà un successo, altrimenti sarà un fallimento. Come ha osservato recentemente il ministro dell’ambiente inglese Ed Milliband, “siamo in un momento assolutamente cruciale dove ci si presentano opportunità e rischi”. Entrambi molto grandi.
Ed è in grande che bisogna pensare. La Banca Mondiale in un suo recente rapporto stima in 500 miliardi di dollari da qui al 2030 l’impegno necessario per riconvertire il sistema energetico e industriale in uno a basse emissioni. Come ha detto proprio ieri a New York l’Amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni “l’energia a basso costo non aiuta il taglio dei gas serra”. Lapalissiano, ma era ora che qualcuno che non fosse un ambientalista lo dicesse.
Scaroni sottolinea che per ridurre le emissioni di anidride carbonica gli strumenti a disposizione sono “l’efficienza energetica e la ricerca e lo sviluppo su fonti complementari di energia”, dei “giganti dormienti che soltanto prezzi finali stabili e relativamente alti dei combustibili fossili possono risvegliare”. E fa due proposte. La prima è una piccola carbon tax. “Una carbon tax, infatti, attribuendo un costo stabile alla CO2 influisce immediatamente sulle decisioni di investimento. Dovrebbe essere accompagnata da misure per bilanciarne l’effetto sulla distribuzione del reddito. Nel tempo, inoltre, la tassa potrebbe essere integrata con sistemi di cap-and-trade, con l’obiettivo di ottimizzarne l’effetto”. Il secondo strumento potrebbe essere “una mobile excise tax complementare sui prodotti energetici derivati da combustibili fossili e destinati al consumatore finale. Questa tassa – ha spiegato Scaroni – dovrebbe essere applicata qualora i prezzi dei prodotti scendessero al di sotto del livello che incentiva gli investimenti in ricerca e sviluppo e l’efficienza energetica. Questo metterebbe al riparo le politiche ambientali dalla volatilità dei prezzi dell’energia”.
Strumenti del genere _ non necessariamente questi, ma comunque di questa portata _ renderebbero incisivi i target di emissione (obbligatori per i paesi Ocse, volontari per quelli in via di sviluppo ma legati al flusso di investimenti) e costituirebbero il segnale di una vera discontinuità nelle politiche energetiche.
I paesi che si riunuiranno a Copenaghen avrannno il coraggio di pensare così in grande o si limiteranno a fare il minimo possibile, salvo poi rivendercelo come storico grande accordo?
A pensar male si fa peccato ma….