La pistola fumante in fondo al mare
Ed eccola finalmente la “pistola fumante”, il corpo di reato cercato per anni dalle Procure di mezza Italia, oggetto di indagini, di dichiarazioni di pentiti, di riscontri oggettivi, di prove schiaccianti, di ben tre relazioni della Commissione parlamentare d’indagine sul ciclo dei rifiuti, allora presieduta da Massimo Scalia. Sono stati in tanti in questi anni ad occuparsi della vicenda delle navi a perdere, ma puntualmente le indagini finivano con un buco nell’acqua, è il caso di dire, perché non si riusciva a mettere le mani su un solo relitto. Non si riusciva a scovare neppure uno scafo che provasse definitivamente quello scenario di fantascienza messo in piedi da una rete criminale fatta di faccendieri, imprenditori, mafiosi, armatori e poi esponenti dei servizi segreti deviati fino ad arrivare a funzionari di governo di paesi del terzo mondo che lasciano intravedere uno scambio fra armi e rifiuti radioattivi. Il ritrovamento della nave al largo di Cetraro illumina di verità quello scenario, gli conferisce una forza di realtà che lascia attoniti. Il dialogo tra i due boss della ‘ndrangheta, riportato nei dossier di Legambiente, è agghiacciante: uno dei due, in un rigurgito di coscienza, chiede all’altro se sia proprio il caso di sfregiare per sempre il mare calabrese, ma l’altro ribatte che con i soldi guadagnati il mare pulito se lo sarebbero trovato altrove. Oggi quel dialogo ha una violenza ancora più forte e indigna e scuote le coscienze ancora di più. Per quindici anni abbiamo lavorato sulla vicenda delle navi a perdere, per quindici anni abbiamo tenuta viva quella domanda di verità grazie al lavoro di tanti magistrati di provincia, di amici giornalisti che ci hanno dato retta, di parlamentari che hanno dato voce alle nostre interrogazioni e, più recentemente, della Regione Calabria che è voluta andare a fondo di una storia che coinvolge la salute di tanti cittadini calabresi. Ora è necessario che l’onda emotiva cresciuta in questi giorni travolga scetticismi e paure, bisogna sostenere il lavoro delle piccole Procure, mettere a disposizione quattrini, risorse e tecnologie per una più efficace azione di monitoraggio e, se del caso, di bonifica. Individuare il relitto di fronte a Cetraro è costato appena 70.000 euro alla Regione Calabria, un’inezia che già ora consentirà ad esempio di sottrarre quell’area all’attività di pesca evitando rischi per gli operatori del settore che pure, negli anni scorsi, hanno pagato un triste tributo a causa del recupero nelle loro reti di materiale tossico.
Che si impieghino allora le tecnologie più sofisticate, che si attivi il Ministero dell’Ambiente, la Marina Militare se del caso, che si destini ad attività civili i più raffinati strumenti di indagine militare. Ma soprattutto che si indaghi sulle responsabilità e sulla rete di malaffare che ha gestito uno dei più torbidi misteri del nostro Paese, che si attivi la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, che la Procura Nazionale Antimafia coordini e sostenga il lavoro delle Procure, che si approfondiscano i legami con l’omicidio di Ilaria Alpi, che si riapra l’inchiesta sul signor Comerio, “noto trafficante d’armi”, nella definizione dell’allora Ministro per i rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi quando parla di un ”imponente progetto per lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”. Che si faccia insomma tutto il possibile, il nostro mare e il nostro Paese non meritano questo scempio.