Una previsione di 10 anni fa
created by Dario Faccini
Dieci anni fa, il 6 marzo del 1999, l'Economist usciva nelle edicole di tutto il mondo con una copertina assai significativa: due operai intenti ad operare su una conduttura venivano inondati da un impressionante getto di petrolio. Il titolo era ugualmente diretto, “Drowning in Oil” cioè "Annegando nel petrolio". Quell’edizione dell'Economist ha fatto storia ed è stata citata in molti contesti come un esempio di previsione economica sbagliata. Vale però la pena di rivederla a dieci anni di distanza, analizzando non soltanto le conclusioni ma soprattutto i ragionamenti e le motivazioni sottostanti che, si vedrà, offrono spunti di confronto molto interessanti.
La rivista includeva un Editoriale che riprendeva il titolo della copertina ed un articolo intitolato "Petrolio a buon mercato". Entrambi gli articoli analizzavano il futuro dei mercati petroliferi ipotizzando che l'andamento discendente del prezzo del greggio, giunto allora ai 10$ al barile, potesse continuare fino a toccare i 5$.
Tra le cause del crollo dei prezzi venivano citati l'inverno caldo e la crisi in Asia, mentre, per quanto riguarda i rischi di un futuro indebolimento della domanda, si accennava al protocollo di Kyoto e alla possibilità di un'interruzione nel lungo periodo di crescita economica degli USA. Inoltre, nonostante i prezzi bassi, molte compagnie, nel tentativo di rientrare dai grandi capitali investiti, avrebbero comunque terminato i progetti già avviati di espansione della produzione.
Fin qui niente di eclatante. Ma c'erano altre considerazioni più interessanti.
La prima era la constatazione che un rapido avanzamento tecnologico aveva portato il costo complessivo di produzione degli idrocarburi non-Opec dai 25$ per barile equivalente degli anni '80, fino ai 10$ di quegli anni (Golfo del Messico 10$, Mar del Nord 11$, Russia 14$, Fonte CERA). Questo basso costo era stato raggiunto grazie agli alti prezzi degli anni '70-'80 che avevano già pagato lo sviluppo tecnologico e gli investimenti strutturali. Tale costo rappresentava quindi il limite superiore del prezzo del barile oltre il quale poteva essere aggiunta nuova capacità produttiva. I soli costi operativi di estrazione dei pozzi già esistenti invece erano più bassi, ad esempio 4$ per il Mar del Nord, e questi rispecchiavano il limite inferiore teorico cui sarebbe potuto scendere il prezzo del petrolio prima che i pozzi meno competitivi finissero fuori mercato.
Questo punto è interessante perché rappresenta una considerazione abbastanza obbiettiva che è possibile confrontare con dati recenti sugli attuali costi complessivi di produzione (ricerca, sviluppo ed estrazione) del solo greggio. Il risultato è che in meno di 10 anni il costo economico di produzione di un barile di petrolio è aumentato globalmente di 5-10 volte(!), e questo è un dato di fatto visto che entrambe le serie di stime provengono dalla stessa fonte cioè il Cambridge Energy Research Associates (CERA). Certo il dato dell'Economist andrebbe riportato al valore del denaro del 2007, ma anche in questo caso rimarrebbe assai impressionante l'esplosione dei costi di produzione. Un altro grafico attribuito ad uno studio del CERA del 2002 (che si trova ad es. a pag 7 di questa presentazione) indica come l'accelerazione dei costi sia avvenuta in realtà solo negli ultimi 5-6 anni.
Un’altra considerazione di un certo peso scaturiva dall’osservazione che i bassi prezzi del petrolio stavano minando la stabilità economica e sociale di molti paesi produttori, soprattutto nel Medio Oriente e nel Messico. L'Arabia Saudita, per esempio, si era fatta carico di grandi tagli produttivi nel tentativo di sostenere i prezzi. Nonostante ciò, questi sembravano continuare a scendere, diminuendo la principale fonte di entrate e di sostegno all'oneroso stato sociale saudita. Secondo l'Economist quindi, sarebbe stato ipotizzabile per il paese arabo un cambio di strategia: una massiccia immissione di capacità produttiva sul mercato nel tentativo di fornire un po’ di ossigeno al suo bilancio annuale. Se poi l'esempio saudita fosse stato seguito da altri stati produttori del Golfo Persico, allora, grazie al crollo dei prezzi petroliferi, si sarebbe potuta verificare una sorta di “concorrenza sleale” che avrebbe fatto uscire dal mercato le regioni con i maggiori costi di estrazione a vantaggio di un ritorno del Medio Oriente sulla scena come principale protagonista (e produttore).
Quest’ultima argomentazione può apparire più un'ipotesi di fantapolitica e una segnalazione di un rischio piuttosto che una dinamica in procinto di avverarsi. In essa si può comunque leggere il timore, espresso più volte nella rivista, di un ritorno alla dipendenza petrolifera da un'area politicamente instabile ed organizzata con un cartello in funzione antioccidentale. Il ricordo delle passate crisi petrolifere era evidentemente più vivido che non ai giorni nostri.
In effetti si rimane sorpresi nell'osservare che in realtà, previsioni dei prezzi a parte, questi articoli rispondevano alla domanda: "Perché un basso prezzo del petrolio potrà danneggiare la crescita economica globale ed i consumatori.". Il ragionamento principale era quello già accennato: un basso prezzo del petrolio avrebbe messo in difficoltà sia la stabilità del Medio Oriente, detentore delle principali riserve, sia la competitività delle compagnie occidentali che dopo le crisi petrolifere avevano investito in aree produttive “difficili”. C'era però un altro rischio: se i prezzi fossero rimasti troppo bassi, le economie dei paesi produttori sarebbero potute entrare in recessione minando la crescita globale. Sembra oggi assurdo, ma nell'editoriale si osservava che i bassi prezzi del barile avrebbero potuto innescare una tale crisi nelle economie “produttrici” da non essere compensata globalmente dalla maggiore crescita di quelle “consumatrici”.
Quindi i giornalisti dell'Economist ammettevano implicitamente che, a tutela del consumatore globale, era necessario non un prezzo basso ma un prezzo “giusto” del barile. Un ragionamento decisamente lungimirante e più articolato del ritornello odierno sul “calo degli investimenti petroliferi”. Purtroppo non indicavano né quale fosse questo prezzo né come fosse possibile determinarlo.
Insomma questi articoli non erano certo un infuso di ottimismo. Il calo del prezzo del petrolio era vissuto come un rischio e non certo, al pari di oggi, come un sollievo. L’entità delle riserve non era in discussione, ma altrettanto non si poteva dire della futura capacità produttiva minata da problemi di ordine geopolitico. Il petrolio poteva pure essere una risorsa abbondante ma le passate crisi petrolifere avevano insegnato che era comunque troppo importante per l’Economia globale per poter abbassare la guardia. L’Editoriale, apprestandosi a concludere, sorprende ancora:
<<[...] un'interruzione delle forniture di petrolio danneggerebbe enormemente l'economia mondiale. Questo è il motivo per cui, anche se i prezzi scendono, i governi dei paesi consumatori dovrebbero essere in guardia contro i pericoli della dipendenza del petrolio. Ad esempio si dovrebbe mantenere la ricerca impegnata nello studio di alternative ai motori a combustione interna finora alimentati da carburanti petroliferi, come i sistemi a celle combustibili che possono ricavare l’idrogeno dal gas naturale (Sic!). Un altro modo è frenare il consumo attraverso alte tasse petrolifere. Il paese con più possibilità di intervento è l'America che consuma un quarto del petrolio mondiale, quasi tutto per i trasporti. Le tasse americane sul petrolio sono così basse che non tengono neppure conto dei costi ambientali come l'inquinamento. Non c'è momento migliore di attuare il gesto politicamente imbarazzante dell'aumento delle tasse come quando il prezzo del petrolio è così basso che il denaro può essere rapidamente restituito abbassando qualche altra imposta.[1]>>
Riduzione del consumo di energia? Internalizzazione delle esternalità ambientali tramite tassazione sui carburanti? C’è di che far svenire molti insigni economisti moderni…
L’articolo poi si conclude applicando, ancora una volta, una sorta di “principio di precauzione” generato dal buonsenso:
"Tutto questo servirebbe però ancora soltanto a mitigare i rischi futuri. A parte tutto, il ritorno alla normalità dei mercati petroliferi e la fine del potere Opec sono benvenuti. Ma proprio come negli anni '70 la scarsità di petrolio sembrava un dato di fatto, anche la sua abbondanza di oggi potrebbe essere data per scontata. Questa normalità potrebbe durare per un pò, ma è imprudente supporre che possa durare per sempre.[2]"
La rivista includeva un Editoriale che riprendeva il titolo della copertina ed un articolo intitolato "Petrolio a buon mercato". Entrambi gli articoli analizzavano il futuro dei mercati petroliferi ipotizzando che l'andamento discendente del prezzo del greggio, giunto allora ai 10$ al barile, potesse continuare fino a toccare i 5$.
Tra le cause del crollo dei prezzi venivano citati l'inverno caldo e la crisi in Asia, mentre, per quanto riguarda i rischi di un futuro indebolimento della domanda, si accennava al protocollo di Kyoto e alla possibilità di un'interruzione nel lungo periodo di crescita economica degli USA. Inoltre, nonostante i prezzi bassi, molte compagnie, nel tentativo di rientrare dai grandi capitali investiti, avrebbero comunque terminato i progetti già avviati di espansione della produzione.
Fin qui niente di eclatante. Ma c'erano altre considerazioni più interessanti.
La prima era la constatazione che un rapido avanzamento tecnologico aveva portato il costo complessivo di produzione degli idrocarburi non-Opec dai 25$ per barile equivalente degli anni '80, fino ai 10$ di quegli anni (Golfo del Messico 10$, Mar del Nord 11$, Russia 14$, Fonte CERA). Questo basso costo era stato raggiunto grazie agli alti prezzi degli anni '70-'80 che avevano già pagato lo sviluppo tecnologico e gli investimenti strutturali. Tale costo rappresentava quindi il limite superiore del prezzo del barile oltre il quale poteva essere aggiunta nuova capacità produttiva. I soli costi operativi di estrazione dei pozzi già esistenti invece erano più bassi, ad esempio 4$ per il Mar del Nord, e questi rispecchiavano il limite inferiore teorico cui sarebbe potuto scendere il prezzo del petrolio prima che i pozzi meno competitivi finissero fuori mercato.
Questo punto è interessante perché rappresenta una considerazione abbastanza obbiettiva che è possibile confrontare con dati recenti sugli attuali costi complessivi di produzione (ricerca, sviluppo ed estrazione) del solo greggio. Il risultato è che in meno di 10 anni il costo economico di produzione di un barile di petrolio è aumentato globalmente di 5-10 volte(!), e questo è un dato di fatto visto che entrambe le serie di stime provengono dalla stessa fonte cioè il Cambridge Energy Research Associates (CERA). Certo il dato dell'Economist andrebbe riportato al valore del denaro del 2007, ma anche in questo caso rimarrebbe assai impressionante l'esplosione dei costi di produzione. Un altro grafico attribuito ad uno studio del CERA del 2002 (che si trova ad es. a pag 7 di questa presentazione) indica come l'accelerazione dei costi sia avvenuta in realtà solo negli ultimi 5-6 anni.
Un’altra considerazione di un certo peso scaturiva dall’osservazione che i bassi prezzi del petrolio stavano minando la stabilità economica e sociale di molti paesi produttori, soprattutto nel Medio Oriente e nel Messico. L'Arabia Saudita, per esempio, si era fatta carico di grandi tagli produttivi nel tentativo di sostenere i prezzi. Nonostante ciò, questi sembravano continuare a scendere, diminuendo la principale fonte di entrate e di sostegno all'oneroso stato sociale saudita. Secondo l'Economist quindi, sarebbe stato ipotizzabile per il paese arabo un cambio di strategia: una massiccia immissione di capacità produttiva sul mercato nel tentativo di fornire un po’ di ossigeno al suo bilancio annuale. Se poi l'esempio saudita fosse stato seguito da altri stati produttori del Golfo Persico, allora, grazie al crollo dei prezzi petroliferi, si sarebbe potuta verificare una sorta di “concorrenza sleale” che avrebbe fatto uscire dal mercato le regioni con i maggiori costi di estrazione a vantaggio di un ritorno del Medio Oriente sulla scena come principale protagonista (e produttore).
Quest’ultima argomentazione può apparire più un'ipotesi di fantapolitica e una segnalazione di un rischio piuttosto che una dinamica in procinto di avverarsi. In essa si può comunque leggere il timore, espresso più volte nella rivista, di un ritorno alla dipendenza petrolifera da un'area politicamente instabile ed organizzata con un cartello in funzione antioccidentale. Il ricordo delle passate crisi petrolifere era evidentemente più vivido che non ai giorni nostri.
In effetti si rimane sorpresi nell'osservare che in realtà, previsioni dei prezzi a parte, questi articoli rispondevano alla domanda: "Perché un basso prezzo del petrolio potrà danneggiare la crescita economica globale ed i consumatori.". Il ragionamento principale era quello già accennato: un basso prezzo del petrolio avrebbe messo in difficoltà sia la stabilità del Medio Oriente, detentore delle principali riserve, sia la competitività delle compagnie occidentali che dopo le crisi petrolifere avevano investito in aree produttive “difficili”. C'era però un altro rischio: se i prezzi fossero rimasti troppo bassi, le economie dei paesi produttori sarebbero potute entrare in recessione minando la crescita globale. Sembra oggi assurdo, ma nell'editoriale si osservava che i bassi prezzi del barile avrebbero potuto innescare una tale crisi nelle economie “produttrici” da non essere compensata globalmente dalla maggiore crescita di quelle “consumatrici”.
Quindi i giornalisti dell'Economist ammettevano implicitamente che, a tutela del consumatore globale, era necessario non un prezzo basso ma un prezzo “giusto” del barile. Un ragionamento decisamente lungimirante e più articolato del ritornello odierno sul “calo degli investimenti petroliferi”. Purtroppo non indicavano né quale fosse questo prezzo né come fosse possibile determinarlo.
Insomma questi articoli non erano certo un infuso di ottimismo. Il calo del prezzo del petrolio era vissuto come un rischio e non certo, al pari di oggi, come un sollievo. L’entità delle riserve non era in discussione, ma altrettanto non si poteva dire della futura capacità produttiva minata da problemi di ordine geopolitico. Il petrolio poteva pure essere una risorsa abbondante ma le passate crisi petrolifere avevano insegnato che era comunque troppo importante per l’Economia globale per poter abbassare la guardia. L’Editoriale, apprestandosi a concludere, sorprende ancora:
<<[...] un'interruzione delle forniture di petrolio danneggerebbe enormemente l'economia mondiale. Questo è il motivo per cui, anche se i prezzi scendono, i governi dei paesi consumatori dovrebbero essere in guardia contro i pericoli della dipendenza del petrolio. Ad esempio si dovrebbe mantenere la ricerca impegnata nello studio di alternative ai motori a combustione interna finora alimentati da carburanti petroliferi, come i sistemi a celle combustibili che possono ricavare l’idrogeno dal gas naturale (Sic!). Un altro modo è frenare il consumo attraverso alte tasse petrolifere. Il paese con più possibilità di intervento è l'America che consuma un quarto del petrolio mondiale, quasi tutto per i trasporti. Le tasse americane sul petrolio sono così basse che non tengono neppure conto dei costi ambientali come l'inquinamento. Non c'è momento migliore di attuare il gesto politicamente imbarazzante dell'aumento delle tasse come quando il prezzo del petrolio è così basso che il denaro può essere rapidamente restituito abbassando qualche altra imposta.[1]>>
Riduzione del consumo di energia? Internalizzazione delle esternalità ambientali tramite tassazione sui carburanti? C’è di che far svenire molti insigni economisti moderni…
L’articolo poi si conclude applicando, ancora una volta, una sorta di “principio di precauzione” generato dal buonsenso:
"Tutto questo servirebbe però ancora soltanto a mitigare i rischi futuri. A parte tutto, il ritorno alla normalità dei mercati petroliferi e la fine del potere Opec sono benvenuti. Ma proprio come negli anni '70 la scarsità di petrolio sembrava un dato di fatto, anche la sua abbondanza di oggi potrebbe essere data per scontata. Questa normalità potrebbe durare per un pò, ma è imprudente supporre che possa durare per sempre.[2]"
E questa previsione, forse, si sta avverando più velocemente di quanto credesse lo stesso autore.
[1] "Yet any interruption to oil supplies would be hugely damaging to the world economy. That is why, even as prices fall, governments of consuming countries should be guarding against the dangers of oil dependence.
One way of doing this is to keep researching into alternatives to the petrol-powered internal combustion engine, such as fuel-cell systems, which can derive hydrogen from natural gas. Another is to curb consumption through higher petrol taxes. The country best able to make a difference is America, which consumes a quarter of the world’s oil, almost all of it for transport. American petrol taxes are so low that they do not even take account of environmental costs such as pollution. There is no better time to perform the politically awkward feat of raising taxes than when oil prices are low and the money can be quickly handed back in lower taxes elsewhere."
One way of doing this is to keep researching into alternatives to the petrol-powered internal combustion engine, such as fuel-cell systems, which can derive hydrogen from natural gas. Another is to curb consumption through higher petrol taxes. The country best able to make a difference is America, which consumes a quarter of the world’s oil, almost all of it for transport. American petrol taxes are so low that they do not even take account of environmental costs such as pollution. There is no better time to perform the politically awkward feat of raising taxes than when oil prices are low and the money can be quickly handed back in lower taxes elsewhere."
[2] "Yet even this would serve only to mitigate the future risks. By all means, welcome the return of normality to oil markets and the end of OPEC’s power. But just as oil’s scarcity seemed a fact of life in the 1970s, its abundant flow might be too easily taken for granted today. Normality could last a while; but it is unwise to assume that it will endure for ever"