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Immigrazione, una questione morale, politica ed ecologica.

26 maggio 2009 0 commenti



created by Luca Pardi



Mi sorprende sempre l’ingenuità ecologica di quei pochi che si occupano di popolazione (e quindi anche di immigrazione- emigrazione), e che traspare in uno scambio di opinioni che mi è capitato di leggere recentemente in un forum americano, mentre con un orecchio seguivo distrattamente le banalità dei nostri politici di maggioranza e di minoranza sulla questione degli immigrati clandestini.

Il primo intervento che ho letto è di Mathias Risse [1] . La tesi di Risse è abbastanza semplice: le risorse naturali appartengono in egual misura a tutti gli uomini, la densità di popolazione di un dato paese è un indicatore indiretto del livello di sfruttamento delle risorse naturali in quel paese. Ladensità degli USA è relativamente bassa dunque è impossibile trovare una base morale alle norme giuridiche atte ad impedire l'immigrazione clandestina. I suoi critici Ryan Pevnick, Philip J. Cafaro, gli rispondono che le risorse naturali non sono tutto, ma che ci sono anche risorse culturali, sociali e politiche che si riassumono in una lista dei beni pubblici come: uno stato di diritto ordinato, una società governata in modo efficiente, un mercato funzionante e regolato in modo efficiente, un sistema di ammortizzatori sociali, pensioni, sostegno ai poveri ecc che l'immigrazione (in particolare di lavoratori a basso reddito) tende a ridurre con particolare danno per le classi più povere. Cafaro fa anche un passetto in più parlando dell'aumento di popolazione locale (parlano sempre degli USA) che comprometterebbe qualsiasi programma di sostenibilità.

La mia opinione variamente espressa in questi anni e che credo dovremmo cercare di mettere nero su bianco è la seguente e si basa su considerazioni scientifiche prima che morali.

La densità di popolazione è un indicatore insufficiente per qualificare l’intensità di sfruttamento di un dato territorio. Il consumo di energia e l'energia pro-capite sono i veri surrogati di territorio e densità di popolazione e a loro volta si traducono in altri indicatori come l'impronta ecologica. Le risorse socio-politiche e culturali di Revnick e Cafaro sono conseguenze del consumo di energia. Si tolgano i consumi esagerati di energia dei paesi sviluppati e sparisce il wellfare, l'educazione pubblica, le infrastrutture, la difesa dell'ambiente e, probabilmente, anche lo stato di diritto la democrazia parlamentare e i suoi splendori. La mappa del mondo deve essere ridisegnata su qualcosa che tenga conto di questi fatti. Si potrebbe assumere come surrogato dell’estensione di territorio la mappa del deficit ecologico delle nazioni come riportata di seguito (presa dal sito del Global Footprint Network: http://www.footprintnetwork.org/) che indica la differenza fra consumo di risorse e bioproduttività di una data nazione.

I paesi sviluppati sono immensi e quelli poveri sono striminziti. La mappa non è altro che la rappresentazione dell'estensione artificiale del "territorio" ed è un effetto del dominio violento che si concretizza con un patto non scritto fra classi dirigenti dei paesi industrializzati e classi dirigenti dei paesi fornitori di materie prime. Il trasferimento di materia contro denaro ha permesso la crescita industriale (con tutte le belle cose descritte da Revnick e Cafaro, inclusa la cosiddetta difesa dell’ambiente nei paesi ricchi) e arricchito le classi dirigenti tenendo a bada i popoli dei paesi sviluppati con il consumo bulimico di merci.
E' ovvio che le persone in grado di farlo, quindi non i morti di fame, ma coloro che provano un certo appetito per il meglio e hanno il minimo di mezzi per tentare di soddisfarlo, cerchino di spostarsi in "territori" più ampi. Spesso attratti dalla narrativa dominante del sogno americano in versione Hollywood. L'equilibrio si rompe quando il flusso di materia/denaro rallenta e i patti saltano (questa sarebbe un possibile obbiettivo di ricerca dei pensatoi globali) anche per l'entrata in gioco di grandi paesi come Cina e India che, essendo sede di antiche civilizzazioni, possono tranquillamente ingoiare molto senza perdere la loro spinta e la loro natura.

Il flusso di materia che rallenta è rappresentato in forma di ipostasi dal picco del petrolio, il flusso di denaro che rallenta è rappresentato dalla perdita di valore del denaro in seguito alla creazione di moneta a fronte di debiti inesigibili (ciò che spesso sbrigativamente e con rischio di malintesi, viene definita creazione di moneta dal nulla) operata per sostenere la crescita.

Al diminuire del flusso deve necessariamente diminuire anche il "territorio" e quindi arrestarsi anche lo spostamento di popolazione (lo avevamo gia detto anni fa), ma questo succederà con l'inevitabile inerzia di tutti i processi demografici. Il periodo di passaggio non sarà divertente, ma probabilmente molto interessante.

Il non detto, potremmo chiamarlo il tabù, di questi specialisti dell'immigrazione, anche di quelli che come Cafaro si pongono correttamente il problema della fertilità dei paesi poveri, è il concetto di riduzione del metabolismo socio-economico dei paesi ricchi. Il massimo a cui si arriva (con Cafaro) è che si debba barattare un po' della nostra ricchezza (fatta di cosa? Di denaro o di risorse solide?) con la decrescita demografica dei poveri.

Il concetto di rientro dolce è secondo me più egualitario, eticamente inoppugnabile, e semplice da capire per chiunque abbia una visione termodinamica del mondo. Il flusso materia/denaro si deve assottigliare, le estensioni artificiali dei diversi paesi si devono riequilibrare nello stesso tempo in cui la popolazione decresce artificialmente attraverso la riduzione del tasso di natalità ben al di sotto dell'attuale tasso (la cui decrescita è, probabilmente e almeno secondo il mio parere, il risultato del manifestarsi delle prime resistenze ecologiche).

Lo spostamento dei popoli e degli individui è ingovernabile e solo un cambio di paradigma può determinare l'uscita dalla situazione attuale. Il rientro dolce è forse un’utopia, ma meno idiota di quella di chi vorrebbe tenersi il proprio territorio artificiale intatto e pulito in cambio di carte false e promesse non mantenibili.



[1] L’intero scambio di opinioni che ha ispirato questo contributo può essere letto all’URL: http://www.cceia.org/resources/journal/22_3/exchange/001.html#_footnote1