La lezione della crisi per l’economia del futuro
(scritto da Gianfranco Visconti, qui in pdf con licenza copy left)
“Dove il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività esso conosce solo una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità originarie (famiglia, città) siano portatrici”.
Max Weber, “Economia e società” (1922)
La crisi economica attuale ha radici di lungo periodo. Questo è vero dappertutto, ma in particolar modo lo è in Italia dove essa ha pure caratteristiche originali. Solo comprendendo e curando a fondo le sue cause potremo uscire, ed uscire bene, cioè risanati e non debilitati, da essa. Proprio per dare un quadro corretto delle origini dell’attuale crisi finanziaria poi diventata recessione economica utilizzeremo la classificazione delle cause di un fenomeno storico di un testo classico della storiografia e della metodologia storica: “Le cause della rivoluzione inglese” di Lawrence Stone. Esposte le cause della crisi vedremo cosa si può fare nel nostro paese per fronteggiarla.
1) La “causa profonda” della crisi: la cattiva distribuzione del reddito.
La “causa profonda” o “causa prima” dell’attuale crisi economica, ma anche, come vedremo, della crisi finanziaria è la cattiva distribuzione del reddito in quasi tutti i paesi industrializzati dell’occidente (USA, Gran Bretagna ed Europa dell’Euro). Essa, infatti, ha generato la crisi della domanda che, in un’economia trainata dai consumi (per l’Italia dalle esportazioni, cioè dai consumi degli altri paesi), ha prodotto la recessione.
La ricchezza nazionale, il PIL, a partire dal 1993 (anno dell’ultima recessione) al 2007 è cresciuta molto nel mondo e in misura modesta in Italia, ma, soprattutto, si è quasi dovunque polarizzata socialmente. Mai come oggi è vera la vecchia “Regola di Pareto” sulla distribuzione della ricchezza: il 20% della popolazione di un paese accentra lo 80% della ricchezza ed il restante 80% ne possiede solo il 20%. Insomma, nell’arco di tempo considerato, i ceti più elevati hanno accresciuto i loro redditi ed i ceti medi e bassi o li hanno visti diminuire o, quando è andata bene, mantenere il passo dell’inflazione. Basta vedere i conti nazionali dell’ISTAT: nel periodo 1993 - 2007 sono aumentate le quote del prodotto interno lordo rappresentate dai profitti (che comprendono i redditi da impresa e da lavoro autonomo) e dalle rendite ed è diminuita quella destinata ai salari. E questo fenomeno non si è verificato solo in Italia, ma in tutto l’occidente e soprattutto negli USA e in Gran Bretagna. E’ aumentata la convenienza economica del fattore - lavoro e, pertanto, è cresciuta l’occupazione in Italia ed in tutto l’occidente, ma la “torta” - cioè la quota dei salari sul PIL - è stata divisa in “fette medie” sempre “più sottili”. Di conseguenza, i salari medi “reali” - cioè depurati dall’inflazione - sono diminuiti, l’uscita dalla condizione di povertà non è più legata, almeno tendenzialmente, al fatto di avere un lavoro ed il mondo dal lavoro si è spaccato fra lavoratori garantiti e con reddito almeno sufficiente e lavoratori non garantiti (o “precari”), in maggioranza con redditi bassi e insufficienti a garantire una condizione di vita decorosa.
Con un movimento di fondo di questo tipo nella distribuzione della ricchezza, in mancanza di una crescita dei redditi reali della maggior parte della popolazione, per aumentare la domanda totale, espandere l’economia ed accrescere i profitti delle imprese (e delle banche, come vedremo) non si poteva fare altro che ricorrere al debito, pubblico e, soprattutto, privato, che in Italia si è manifestato nella forte crescita dell’indebitamento per i mutui casa e per il credito al consumo. Ciò che in Italia ha avuto proporzioni significative ma sostenibili negli USA, in Gran Bretagna ed in molti altri paesi ha assunto proporzioni colossali. Quando il meccanismo si è bloccato, perché un debitore sovraccarico di debiti (e con redditi da lavoro calanti o, al massimo, stabili) prima o poi incontra delle difficoltà e diventa insolvente, il sistema è entrato in crisi e, dato che i debitori insolventi erano tanti, in crisi profonda. Un reddito più alto avrebbe permesso ai debitori di contrarre meno debiti o di restituirli con minori difficoltà.
2) La “causa scatenante” della crisi: la crisi bancaria.Gli interventi contro di essa ed, in particolare, contro le difficoltà delle banche italiane.
Le banche, soprattutto quelle degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, hanno finanziato questo sistema economico la cui crescita dipendeva dal debito, tentando poi di ridurre i rischi insiti in esso coi derivati e gli altri prodotti speculativi che li spostavano su altre banche o su altre tipologie di investitori (fra cui gli Hedge funds, i fondi speculativi) e così, alla fine, hanno posto le premesse perché l’insolvenza dei debitori consumer (singoli e famiglie), il primo anello di questa catena, si propagasse a tutto il sistema finanziario. Anche la crisi bancaria ha, però, un’altra “causa profonda” o “di lungo periodo” senza la quale quella sopra descritta non si sarebbe potuta verificare. Essa consiste nell’aggiramento prima e nell’abrogazione esplicita poi delle norme che, negli USA e nei paesi europei, separavano le banche commerciali dalle banche di investimento, introdotte dopo la crisi del 1929 proprio per evitare l’eccessiva assunzione di rischi da parte delle banche e l’instaurazione di un “effetto domino” nel caso di crisi di un elemento del sistema bancario e finanziario.
Date queste cause di lungo periodo o strutturali, il “detonatore”, vale a dire la causa immediata della crisi (usando sempre la terminologia di Lawrence Stone) è stata, dapprima, la massiccia insolvenza dei debitori dei mutui sub-prime negli Stati Uniti e, qualche mese dopo, la decisione di lasciar fallire la Banca Lehman. Oggi, nel sistema bancario USA, è praticamente collassato tutto il settore delle banche di investimento e sono rimaste solo le banche commerciali.
In particolare, anche per i problemi delle banche italiane sembra valere sempre la “Regola di Pareto”. Posto che esse non hanno finanziato i loro clienti consumer nella maniera scriteriata delle banche americane, il 20% dei loro problemi sembra provenire da titoli “tossici” prodotti dalla necessità di garantirsi contro i rischi del credito facile e lo 80% dall’aumento delle insolvenze delle imprese, vale a dire dalla recessione dell’economia reale innescata dalla crisi finanziaria delle banche americane e dalla conseguente recessione economica che dagli USA si è propagata agli altri paesi. Inoltre, per fortuna, come dimostrato da uno studio comparso sul Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea (BCE) di Gennaio 2009, gli italiani ed il resto dei cittadini dell’area dell’Euro non hanno utilizzato, se non in misura ridottissima, l’aumento del valore degli immobili residenziali dell’ultimo decennio (la c.d. “bolla immobiliare”) per ottenere prestiti bancari con cui finanziare i loro consumi, cosa che è avvenuta, invece, in modo massiccio negli USA e, anche se in misura minore, nella Gran Bretagna. Perciò anche una riduzione del valore di questi immobili nei paesi dell’Euro non comporterà di per sé insolvenze di debitori consumer delle banche, né contrazioni dei consumi. Quindi, se questi fenomeni si verificano, le cause sono altre.
In conclusione, possiamo dire che i problemi delle banche italiane hanno una “causa prevalente” di tipo tradizionale, anche se di dimensione grande e, forse, straordinaria: l’aumento delle insolvenze delle imprese causato dalla recessione globale dell’economia. Però, razionando troppo il credito alle imprese per rafforzare il loro patrimonio le banche italiane rischiano di aggravare la crisi sia dell’economia reale, sia dello stesso settore bancario, aumentando ancora di più i crediti in sofferenza che questo ha verso le imprese. Se si vuole rientrare da esposizioni rischiose occorre farlo con gradualità dilazionando il rimborso nel tempo.
Gli interventi contro la crisi bancaria non possono che partire dal livello globale per arrivare a quello locale, in questo caso nazionale. Esamineremo questi, che si rivolgono alla “causa scatenante” della crisi, prima di esaminare quelli contro la “causa profonda” di essa. Per prevenire sia le future crisi bancarie che l’aggravamento di quella attuale non si può fare altro, a livello globale, di Unione Europea e di Italia, che:
1) ripristinare pienamente la distinzione giuridica e la separazione economica fra le banche commerciali e le banche di investimento. Questo dovrà avvenire su un perimetro di attività diverso da quello che era previsto, in Italia, dalla Legge Bancaria del 1936, ma che dovrà comunque impedire assolutamente alle banche commerciali di andare a prendere rischi e, quindi, ad operare sui mercati dei derivati e degli altri prodotti finanziari ad alto rischio e che dovrà escludere o porre dei limiti bassissimi all’investimento diretto da parte di esse nel capitale delle imprese. Tutto ciò per evitare che le banche commerciali si giochino il loro capitale ed i depositi dei loro clienti sui mercati dei prodotti finanziari a maggiore rischio e non prendano altri rischi oltre quelli derivanti dal credito alle imprese ed alle famiglie, attività che è di interesse pubblico che non si blocchi. Inoltre, se non si ripristinerà la distinzione fra banche commerciali e banche di investimento il circo della finanza ad alto rischio riprenderà come prima e peggio di prima dopo che le banche saranno state risanate attraverso il massiccio impiego di fondi pubblici;
2) regolare in maniera più stringente l’attività delle banche di investimento e quella dei soggetti finora non regolati che oggi costituiscono a livello globale il sistema bancario “ombra”, soprattutto i fondi speculativi (hedge funds). Fra queste norme ci dovrebbe essere l’obbligo, per operare sui derivati, di depositare in garanzia una quota significativa del valore dell’attività sottostante: almeno il 20 od il 30%. In tal modo i derivati tornerebbero alla loro funzione originaria di strumenti di copertura dei rischi dato che sarebbero costosissimi come prodotti speculativi (cosa che oggi non sono, se si può operare su una posizione di valore 100 avendo solo uno o due centesimi di tale valore: questa è “l’accumulazione di capitale di un paese che diventa il sottoprodotto dell’attività di un casinò” di cui parlava Keynes ottanta anni fa);
3) infine, per regolare il sistema bancario “ombra” si devono eliminare i “paradisi fiscali” che ospitano l’assoluta maggioranza dei suoi operatori.
In particolare, le banche italiane devono ricapitalizzarsi non imponendo rientri rapidi alle imprese loro debitrici, ma con aumenti di capitale sottoscritti dai soci attuali o da nuovi soci, destinando l’utile (se c’è) non a dividendo, ma a capitale o a riserva, utilizzando i Tremonti bond, anche se sono piuttosto cari. Il tasso di interesse di queste obbligazioni emesse dal Tesoro per ricapitalizzare le banche (tra il 7,5 e lo 8,5% annuo per i primi quattro anni e poi a crescere, senza che questi titoli abbiano una scadenza fissa per il rimborso) rivela la loro finalità di “extrema ratio” di uno Stato fortemente indebitato come l’Italia che ha poche risorse per far fronte alla crisi economica generale ed a quella bancaria in particolare.
Uno Stato con un debito pubblico più basso si sarebbe potuto accontentare di un interesse del 2 o del 3% annuo, ma lo potrebbe fare anche l’Italia, sia pure per cifre prestate non troppo ingenti, come sono i dodici miliardi di Euro previsti per i Tremonti-bond. In alternativa, il tasso di interesse annuo dei “Tremonti – bond” potrebbe essere tra il 3 ed il 4%, pari a quello attuale dei BTP a cinque anni. Quindi, l’alto tasso di interesse dei “Tremonti – bond” assomiglia parecchio ad una tassa sulle banche in difficoltà che in questo momento non ha ragion d’essere. In realtà, con la serie dei Decreti “salva banche” che inizia nell’Estate del 2008 il Governo ha fatto sostanzialmente un’operazione di immagine per tranquillizzare l’opinione pubblica e gli operatori economici, preparando le “armi” per fronteggiare la crisi, ma sapendo benissimo di non avere o di avere poche “munizioni”, cioè i fondi per farle funzionare.
Altra cosa che servirebbe molto in questo momento alle banche italiane è il ripristino della piena deducibilità fiscale delle perdite su crediti, abrogando la “robin hood tax”, che crea un handicap del tutto irragionevole in una situazione come quella attuale. In tal modo si rischia di far pagare alle banche tasse su redditi inesistenti, incentivandole a far credito solo ai clienti assolutamente sicuri e a negarlo a tutti gli altri.
Un’ultima considerazione. La nuova regolazione del settore bancario e finanziario esposta in questo paragrafo, come pure gli interventi di rilancio dell’economia reale riportati in quello successivo, vanno fatti adesso perché oggi la capacità di pressione, o di lobbing, del sistema economico, bancario e finanziario sul sistema politico è al suo minimo storico, come lo fu negli anni trenta del secolo scorso. Già solo nella prima metà del 2008 essa era impossibile o quasi per il sistema politico, ma adesso sono l’industria e la finanza che hanno bisogno del Governo e del Parlamento molto di più di quanto questi ultimi abbiano bisogno delle prime. Il problema centrale perciò è: queste riforme e quelle di cui al prossimo paragrafo rientrano nell’orizzonte culturale di chi ci governa? Dovremo fare molta attenzione alle risposte che saranno date a questa domanda dall’azione del Governo e del Parlamento nei prossimi anni, perché una risposta negativa comporterà l’accelerazione del declino del paese.
3) Gli interventi contro le “cause profonde” della recessione economica in Italia: quelli immediati e quelli strutturali di medio e lungo periodo.
Il rimedio contro la causa principale della crisi attuale, l’unico che ci può garantire una crescita stabile e di lungo periodo è che tornino a crescere i redditi da lavoro, sia individualmente che complessivamente come percentuale sul PIL, invertendo la tendenza storica alla diminuzione di questa quota di esso. Cosa si può fare quindi per invertire questo trend storico?
Nell’immediato si dovrebbe puntare sulle misure eccezionali della detassazione (IRAP compresa) e della decontribuzione totali dei prossimi aumenti retributivi derivanti dal rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Attualmente i due terzi dei lavoratori dipendenti italiani hanno il contratto collettivo scaduto, ma la misura proposta riguarda tutti i contratti collettivi per un solo rinnovo, il prossimo, qualunque sia la scadenza del contratto. Non verrebbe invece tolto l’accantonamento relativo al trattamento di fine rapporto (Tfr) sull’aumento retributivo previsto dal contratto collettivo rinnovato.
Quello proposto è un rimedio eccezionale per un periodo di eccezionali difficoltà, come quello che stiamo vivendo, ma che presenta una serie di vantaggi:
- di esso beneficerebbero tutti i lavoratori, privati e pubblici. Se mai si volesse mettere un limite di reddito alla misura proposta esso dovrebbe essere alto, per esempio, 40 o 45.000 € lordi a persona per garantire l’impatto economico di essa sui singoli redditi e sull’intera economia del paese;
- esso favorirebbe il rinnovo dei contratti collettivi, eliminando totalmente, per una sola volta, il cuneo fiscale fra aumento contrattuale lordo e netto. Per esempio, invece di dare 140 € lordi mensili di aumento per avere 75 € netti, si potrebbero dare 120 € netti senza altri oneri per i datori di lavoro;
- il fisco non incasserebbe le nuove entrate sugli aumenti contrattuali, ma non verrebbero toccate quelle attuali e, fra la lotta all’evasione (da fare seriamente) ed i tagli previsti alla spesa pubblica, il bilancio dello Stato non subirebbe peggioramenti.
Per le pensioni i contributi mancanti porteranno ad importi di esse un poco più bassi, ma questo è un sacrificio una tantum per fare fronte ad una situazione di eccezionale difficoltà dei redditi delle famiglie e di tutta l’economia italiana. Esso potrebbe essere almeno in parte compensato dal versamento del TFR relativo all’aumento contrattuale detassato in un fondo pensione da parte del lavoratore o anche nel suo fondo previdenziale ordinario. Infine, per i pensionati la misura di sostegno al loro reddito dovrebbe consistere nella sola detassazione dall’IRPEF degli aumenti delle pensioni per i prossimi due o tre anni, per dare anche a loro un vantaggio economico simile a quello concesso ai lavoratori dipendenti attivi.
Nel medio periodo e nella misura in cui questo sarà possibile l’obbiettivo dovrà essere quello di diminuire il cuneo fiscale (formato dalle tasse sul reddito più i contributi sociali e previdenziali) sui redditi da lavoro a beneficio dei soli lavoratori, non ripetendo l’errore del Governo Prodi che portò tale diminuzione a beneficio quasi esclusivo delle imprese che saranno comunque avvantaggiate dall’aumento della domanda che conseguirà da questa operazione.
I fondi per finanziare questo intervento, quello sull’estensione degli ammortizzatori sociali e quelli per favorire gli investimenti delle imprese esposti oltre in questo stesso paragrafo possono essere trovati introducendo un’aliquota unica di tassazione delle rendite finanziarie al 20%, pari a quella degli altri paesi europei, e/o accelerando l’innalzamento dell’età necessaria per ottenere la pensione di anzianità previsto dall’ultima riforma pensionistica del Governo Prodi.
Ma i redditi da lavoro non possono e non devono crescere soltanto per operazioni straordinarie di detassazione e di decontribuzione. I redditi da lavoro devono crescere soprattutto in via ordinaria perché aumenta la produttività del lavoro. La produttività del lavoro è data dal rapporto tra il PIL ed il numero di ore lavorate in un anno. Essa cresce non solo se si lavora più tempo o con un ritmo maggiore, col limite dell’esaurimento delle energie psicofisiche del lavoratore, ma soprattutto se il lavoro utilizza macchine migliori, più efficienti, cioè se ad esso si affianca una maggiore e migliore dotazione di beni strumentali (o “dotazione di capitale”) e/o se esso ha una organizzazione più razionale. Occorrono, quindi, più capitale e più formazione delle risorse umane se si vuole fare crescere la produttività del lavoro.
E qui vengono le riflessioni più dolenti sul “sistema Italia” che è entrata in questa recessione dopo avere attraversato, senza superarla, una fase più che decennale di stagnazione, cioè di crescita bassissima non solo del PIL, ma, soprattutto, della produttività del lavoro.
Fino alla prima metà degli anni novanta la produttività del lavoro in Italia è cresciuta (si vedano i conti economici nazionali dell’ISTAT): si assumeva poco e la disoccupazione era oltre il 10% perché il lavoro era molto garantito e costoso, per cui le imprese puntavano sugli investimenti c.d. “labour saving”, cioè tali da far risparmiare lavoro ed aumentare la produttività dei dipendenti che avevano. Nella seconda metà degli anni novanta, a partire dal 1997 col c.d. “Pacchetto Treu”, e poi soprattutto dal 2003 con la “Legge Biagi”, si è liberalizzato fortemente il mercato del lavoro, specialmente per le generazioni più giovani. Le imprese (ma anche la Pubblica Amministrazione) hanno quindi trovato più conveniente puntare su un aumento della forza lavoro con contratti meno costosi, quelli che chiamiamo comunemente “precari”, ed hanno investito meno in macchinari, tecnologie, ecc. Infatti gli investimenti privati in Italia crescono poco ormai da più di dieci anni, tanto che si può tranquillamente affermare che in Italia, ormai, sono insufficienti non solo gli investimenti pubblici, ma anche e, forse, soprattutto quelli delle imprese che sono poco superiori al fisiologico tasso di sostituzione dei beni capitali.
Questo fenomeno può essere narrato anche in un altro modo. Dopo l’accordo Governo / Parti Sociali del 1993 sulla concertazione, tutti i Governi che si sono succeduti si sono fatti garanti della redditività delle imprese, vista come condizione essenziale della competitività del paese e della crescita dei salari, il Sindacato si è fatto garante della bassa conflittualità sociale e della moderazione salariale, ma le imprese hanno usato i profitti realizzati da allora ad oggi più per distribuirli ai proprietari che per aumentare gli investimenti o per pagare di più i loro dipendenti.
In altre parole: sono aumentate molto le ore lavorate, sono aumentati poco gli investimenti; la conseguenza di tutto ciò non poteva che essere la stagnazione, dalla seconda metà degli anni novanta ad oggi, della produttività del lavoro. Una forza lavoro precaria, poco formata o addestrata e con pochi beni di investimento a disposizione non poteva dare più di tanto.
Per spingere le imprese ad investire di più in primo luogo occorrono, pur non essendo sufficienti da soli, incentivi forti come - per esempio - il ripristino del credito d’imposta per l’acquisto di beni capitali (con l’esclusione degli immobili: l’Italia è piena di capannoni industriali vuoti o semivuoti) e per la formazione del personale all’utilizzo di questi beni, specie se di elevato livello tecnologico. A questi si dovrebbe affiancare l’aumento del credito di imposta per le attività di ricerca e sviluppo delle aziende introdotto con le Leggi Finanziarie per il 2007 e per il 2008. Occorre poi soprattutto dare più stabilità ai rapporti di lavoro, per esempio, riformando il mercato del lavoro sulla base della “proposta Boeri”: un solo contratto di lavoro, al posto dei quasi cinquanta attuali, in cui le garanzie - cioè la stabilità - crescono col tempo. Solo una “rivoluzione copernicana” di questo tipo può spingere decisamente le imprese ad investire in beni capitali, a far crescere la dotazione di capitale investito per dipendente e, quindi, la produttività del suo lavoro.
Gli incentivi, fiscali o finanziari, agli investimenti delle imprese dovrebbero essere concentrati od, almeno fortemente superiori, per alcuni settori produttivi a maggior contenuto tecnologico (per esempio: meccanica, meccatronica, informatica, energia, ecc.) per cominciare a cambiare la specializzazione produttiva del nostro paese fondata, finora, sui c.d. “beni tradizionali” (tessile – abbigliamento, calzature, alimentare, arredamento, ecc.), che ci porta a competere coi paesi a basso costo del lavoro molto di più di quanto non avvenga, per esempio, per la Francia, la Germania, l’Olanda, ecc.
Inoltre, la riforma del mercato del lavoro deve essere integrata da quella degli ammortizzatori sociali che devono essere potenziati ed estesi a tutti i lavoratori, in qualunque tipologia contrattuale rientrino. Nell’immediato, per i lavoratori a progetto (che nel 2009 avranno una aliquota contributiva del 25% e nel 2010 del 26%) e per tutti gli altri contratti di lavoro atipico che non beneficiano dell’indennità di disoccupazione si potrebbe finanziare quest’ultima destinando l’uno o il due per cento della loro aliquota contributiva ad un apposito fondo.
In conclusione possiamo dire che anche la crisi dell’economia italiana, per quanto indotta dalla recessione che è partita dagli USA, ha delle “cause profonde” sue proprie, di tipo che possiamo definire “tradizionale”, che sono un ulteriore ostacolo al suo superamento. L’ormai certa maggiore gravità della crisi attuale rispetto alla recessione del 1993 – 1994 sarà dovuta al fatto che essa è più forte di quella precedente proprio nei paesi in cui esportiamo (USA, Germania, ecc.) e che trainano, per questo motivo, l’economia italiana. Se a Febbraio 2009 il PIL degli Stati Uniti è diminuito del 6,2% questo comporta che dopo il previsto calo del PIL italiano nel 2009 tra il 2 ed il 2,5%, ne avremo un altro maggiore nel 2010. Purtroppo, la nostra economia tornerà a crescere quando questi paesi torneranno a crescere, non prima. Ma sin da ora dobbiamo predisporre le condizioni per essere più competitivi quando arriverà la ripresa, altrimenti l’Italia rischierà di scendere velocemente la classifica delle principali economie del mondo.
Da quanto abbiamo detto finora consegue che è meglio lasciare perdere, almeno per ora, la modifica dell’assetto della contrattazione collettiva concordata dal Governo, dalla Confindustria e dalle confederazioni sindacali CISL, UIL e UGL all’inizio del 2009. Inoltre, essa, per dare un contributo positivo alla crescita dell’economia italiana nel medio e lungo periodo, dovrà essere modificata profondamente.
Sosteniamo questo in primo luogo perché non è accettabile prendere a riferimento per gli aumenti retributivi contrattuali nazionali un indice europeo dei prezzi al consumo, che di per sé potrebbe pure andare bene, ma depurato dall’inflazione importata, vale a dire sostanzialmente dagli aumenti dei prezzi dei carburanti vale a dire, in ultima analisi, del petrolio. Ora, basta conoscere un poco le vicende dell’economia dagli anni settanta del secolo scorso ad oggi per sapere che la maggior parte dell’inflazione, in Italia e nel mondo, è stata causata dagli aumenti dei prodotti petroliferi. Escludere questi dal calcolo dell’inflazione utilizzato per la contrattazione collettiva significa abbassare artificiosamente la possibilità per i lavoratori dipendenti di ottenere aumenti retributivi e, di conseguenza, diminuire ancora di più la quota dei salari sul PIL, sprofondando l’Italia ancora di più nella recessione.
Inoltre, se si favoriscono, detassandoli o in altro modo, i contratti integrativi aziendali questo va bene per i lavoratori delle imprese medie e grandi con almeno cento dipendenti, ma va male per quelli di tutte le piccole e piccolissime imprese, spesso terziste o subfornitrici di quelle medie e grandi, in cui il sindacato non è quasi mai presente ed in cui i premi di produzione rischiano di essere lasciati all’arbitrio del datore di lavoro. Per tutelare anche questi lavoratori occorre affiancare alla contrattazione integrativa aziendale delle imprese medie e grandi quella integrativa provinciale o regionale che dovrà coprire i dipendenti delle imprese piccole e piccolissime e di tutte le altre che non stipuleranno un contratto integrativo aziendale. Altrimenti questo sistema monco di contrattazione collettiva rischia di deprimere le retribuzioni dei lavoratori delle piccole e piccolissime imprese, aggravando la crisi. Non solo, ma esso rischia pure di spaccare il mondo del lavoro fra i dipendenti delle imprese grandi e medie con un trattamento normativo e retributivo migliore e quelli delle imprese piccole e medie con un trattamento nettamente più sfavorevole. Inoltre, esso sarà un fortissimo incentivo per le imprese più grandi ad esternalizzare tutte le attività possibili alle imprese più piccole che avranno un costo del lavoro nettamente inferiore al loro.
4) Le riflessioni conclusive di questo saggio.
Dalla nostra analisi emerge il motivo della prevedibile maggiore efficacia della “cura Obama” rispetto alla “cura Bush” nel modo di affrontare l’attuale crisi economica. Il presidente Bush si è limitato, nell’ultimo semestre del suo mandato, a curare la “causa scatenante” della crisi, vale a dire le difficoltà del sistema bancario e finanziario, mentre il suo successore Obama sta cominciando ad intervenire sulla “causa profonda” della recessione, vale a dire sulla cattiva distribuzione del reddito che porta necessariamente, in una economia trainata dalla domanda, al sovraindebitamento dei singoli e delle famiglie attraverso un pacchetto integrato di interventi sulla minore tassazione dei redditi più bassi (mentre Bush ha detassato negli anni scorsi i redditi più alti), l’innalzamento ad un livello ragionevole delle aliquote fiscali sui redditi più elevati, l’estensione dell’assistenza sanitaria pubblica ed il rilancio degli investimenti nelle infrastrutture e nelle energie alternative.
Infine, una breve riflessione storica. In Italia, negli anni trenta del secolo scorso, anche Mussolini curò la “causa scatenante” della crisi finanziaria e poi economica iniziata nel 1929 nazionalizzando le Banche e portandole nell’IRI o facendole diventare Istituti di credito di diritto pubblico e varando la Legge Bancaria del 1936. Egli, però, non curò la “causa profonda” della crisi, che era anche allora la cattiva distribuzione del reddito nazionale, e questo proprio perché gli interventi contro quest’ultima erano assolutamente al di fuori dall’orizzonte culturale del regime fascista, cioè del modo in cui esso concepiva i rapporti economici e sociali e poteva intervenire su di essi. Fu così che per migliorare le condizioni economiche del popolo italiano si finì per decidere che l’unica possibilità fossero prima le guerre coloniali e poi quelle europee.
Giovanni Francesco Visconti (1964) risiede a Carmiano(LE) è un consulente in area marketing, organizzazione e diritto dell’impresa per imprese private, enti pubblici ed organizzazioni non profit. In particolare si è occupato a più riprese di marketing bancario e delle metodologie di analisi della soddisfazione dei clienti delle imprese del settore bancario e finanziario ed, in generale, del settore dei servizi.
Ha pubblicato il volume “Guida alle organizzazioni non profit e all’imprenditoria sociale” (Maggioli, 2008) e collabora con le seguenti riviste IPSOA: PMI, Enti non Profit, Diritto del Turismo, Diritto dell’Internet e con www.diritto.it Scrive da diversi anni su tematiche di economia aziendale, del terzo settore e su temi di politica economica.