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Alcune note sulla necessità della riforma del TFR

9 dicembre 2009 0 commenti

Un lungo articolo da scaricare in .pdf (cliccando qui) sulla necessità di una seria riforma del Tfr

altan_tfr1) Una riforma bocciata dai diretti interessati.
A quasi tre anni dal completamento della riforma “bipartisan” del TFR, finalizzata a rendere possibile il suo conferimento in un fondo pensione “chiuso” o “negoziale” (vale a dire destinato soltanto ad una determinata categoria di lavoratori dipendenti), realizzato con la Legge n. 296 del 2006 (la Legge Finanziaria per l’anno 2007, che ne ha anticipato di un anno l’entrata in vigore prevista per il 2008) e dalla bocciatura esplicita di questa opzione da parte del 60% circa degli undici milioni di dipendenti privati che dovevano esercitarla entro il 30 Giugno 2007, è ora di fare alcune riflessioni sulle conseguenze che essa ha prodotto, alla luce anche di quanto è avvenuto con la crisi finanziaria e con la recessione economica del biennio 2008 – 2009.

Ricordiamo, inoltre, che solo il 30% circa dei lavoratori interessati ha scelto finora di conferire il proprio TFR nei fondi pensione, mentre il restante 10% non ha espresso alcuna scelta e si è ritrovato con il TFR conferito d’ufficio nei fondi pensione. Questo perché la legge citata ha, secondo noi con una evidente forzatura, reputato consenso il mancato esercizio positivo di tale opzione, come se, per esempio, il non aver votato ad un referendum abrogativo fosse considerato come consenso all’abrogazione di una legge. Questa scelta riguardava solo i dipendenti delle imprese con meno di 50 addetti, quelle che il diritto comunitario (precisamente, la Raccomandazione CE n. 361 del 2003) identifica come micro e piccole imprese, dato che, per quelle dai 50 dipendenti in su, cioè le medie e grandi imprese, il TFR è stato trasferito in un apposito fondo istituito presso l’INPS che garantisce lo stesso rendimento del TFR tenuto in azienda. Essa, ovviamente, riguardava i lavoratori già occupati, mentre i nuovi assunti devono esercitarla entro sei mesi dall’assunzione.

2) Il rendimento “vero” del TFR.
Innanzi tutto, esaminiamo cos’è, come funziona e, soprattutto, quanto rende il TFR - Trattamento di Fine Rapporto, vale a dire fino a che punto è capace di difendere il capitale in esso versato dall’inflazione.
Il TFR (che sostituì la vecchia “indennità di anzianità” o “liquidazione”) è un istituto quasi esclusivamente italiano, disciplinato dall’articolo 2120 del Codice Civile riformato dalla Legge n. 297 del 1982, che consiste nella corresponsione, da parte del datore di lavoro al lavoratore dipendente, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, di una retribuzione differita pari alla retribuzione lorda di ciascun anno di servizio (esclusi i contributi sociali ed i rimborsi spese) divisa 13,5 (è pari al 7,40% di essa), rivalutata annualmente dello 1,5% più il 75% dell’indice dei prezzi al consumo rilevato dall’ISTAT.

In quasi tutti i libri sull’argomento c’è scritto che la formula della rivalutazione permette di ottenere un rendimento reale positivo fino ad un tasso di inflazione del 6% annuo ed uno negativo oltre questo tasso [dato che, se l’inflazione è il 6%, il rendimento del TFR è dato da: 1,75 + (6 x 0,75) = 6]. Oltre questo tasso di inflazione il rendimento reale, cioè al netto dell’inflazione, del TFR sarebbe negativo. Questo sarebbe vero se il TFR non fosse sottoposto a tassazione, ma nel determinare il rendimento di un investimento finanziario non si può certo prescindere dal trattamento fiscale ad esso applicato, che è il seguente:
- i rendimenti del TFR sono tassati allo 11% (invece del 12,50% dell’aliquota ordinaria dei redditi di capitale);
- il capitale erogato è tassato all’aliquota media applicata negli ultimi cinque anni allo stipendio o al salario percepito dal lavoratore.

Per sviluppare un esempio di rendimento del TFR consideriamo l’aliquota più bassa dell’IRPEF, quella del 23%.
In questo caso, considerando il suo trattamento fiscale il TFR offre un rendimento reale positivo fino ad un tasso di inflazione del 13%, infatti, in questa ipotesi il rendimento del TFR è: 1,5 + (13 x 0,75) = 1,5 + 9,75 = 11,25 sul capitale pari a 100, cioè senza tassare il capitale versato e senza tassare i rendimenti.
Tassando i rendimenti allo 11%, cioè moltiplicando il rendimento sull’intero capitale per 0,89 (pari ad 1 meno 0,11), otteniamo: 11,25 x 0,89 = 10.
Tassando poi il capitale versato nel TFR, pari a 100, per l’aliquota IRPEF media dell’ultimo quinquennio del 23%, otteniamo un capitale netto di 77.
Infine, un rendimento pari a 10 di un capitale netto di 77 rappresenta una percentuale del 13% di quest’ultimo, che rappresenta la copertura dell’inflazione che il TFR è capace di garantire ai redditi più bassi, cioè quelli tassati con l’aliquota IRPEF del 23%. Questo grazie al fatto che il rendimento del capitale si applica sul 100% di quanto versato nel TFR (e non su quanto rimane di questo tolte le tasse) e che esso è tassato ad una aliquota notevolmente più bassa (lo 11%) del capitale versato (minimo il 23%, come abbiamo detto). Quindi, solo un’inflazione annua superiore al 13% produrrà un rendimento reale negativo del TFR.

Ciò comporta pure che il TFR garantisce ancora di più i lavoratori che hanno redditi più alti che scontano aliquote IRPEF superiori: per esempio, se l’aliquota media dei redditi dell’ultimo quinquennio è stata del 38%, il TFR tassato sarà di: 100 – 38 = 62, per cui la copertura dall’inflazione che il TFR garantisce sarà del 16,1%, derivante dal rapporto fra il rendimento al netto delle tasse ed il capitale pure al netto delle tasse (10 / 62 = 16,1).

3) Gli altri aspetti del TFR e le differenze coi fondi pensione.
E’ poi possibile, dopo otto anni di durata del rapporto di lavoro, ottenere un anticipo sul TFR maturato per spese mediche straordinarie o per l’acquisto della prima casa per sé o per i figli. Questa possibilità è stata mantenuta per i fondi pensione in cui è stato versato il TFR dal Decreto Legislativo n. 252 del 2005, la prima tranche della riforma della previdenza complementare (il c.d. Decreto “Maroni – Tremonti”, mentre la Legge Finanziaria 2007 è stata fatta dal Governo Prodi).

Invece, non è più possibile, per il lavoratore licenziato, ricevere il TFR conferito nel fondo pensione (si dovrà arrangiare con l’indennità di disoccupazione, se ce l’ha e per quanto bassa essa sia) ed, in costanza di occupazione, non potrà interrompere i versamenti al fondo, qualora cambiasse opinione o notasse che esso dà rendimenti inferiori a quelli del TFR o, comunque, a quelli da lui attesi. Insomma, la scelta del conferimento del TFR ai fondi pensione è una trappola che una volta scattata non si riapre più: i fondi pensione italiani, infatti, sono tutti schemi a contributo definito (CD), cioè in cui si sa quanto si versa ma non si sa quanto si riceverà, e non a beneficio definito (BD), in cui c’è almeno la garanzia di un rendimento annuo minimo, come il rendimento tecnico o minimo garantito delle assicurazioni sulla vita. Inoltre essi non consolidano annualmente nel capitale i rendimenti maturati, come fanno sempre le stesse assicurazioni sulla vita. Se invece ci fosse la libertà di interrompere o ridurre i versamenti al fondo essa costituirebbe un incentivo fortissimo per i fondi a non lanciarsi in operazioni azzardate (tanto, nonostante le perdite, i soldi dei versamenti continuano ad arrivare) e ad offrire migliori condizioni contrattuali agli aderenti (per esempio, in termini di minori commissioni o di rendimenti minimi garantiti).

Su tutti questi punti dovrebbe, secondo noi, intervenire una riforma che tratti i lavoratori dipendenti italiani come cittadini consapevoli e capaci di scegliere e non come un gregge da tosare magari dopo averlo indottrinato e spaventato per bene con una campagna mediatica martellante come quella che fu scatenata per favorire l’adesione ai fondi pensione prima del 30 Giugno 2007 dai sindacati e dalle associazioni imprenditoriali (dai cui rappresentanti sono composti gli organi amministrativi dei fondi pensione), dalle banche (presso cui sono depositati i patrimoni degli stessi fondi), dagli organi di stampa da essi controllati e dal Governo che non vedeva l’ora di fare a tutti costoro un favore e di diminuire il deficit pubblico incamerando nell’INPS il TFR versato dalle aziende con almeno 50 dipendenti (quello dei dipendenti pubblici stava ed è rimasto all’INPDAP, l’ente di previdenza dei dipendenti pubblici).

La cosa incredibile è che ci siano cascati così in pochi: la maggioranza dei lavoratori dipendenti che non ha aderito ed ha mantenuto la sua libertà di scelta per il (suo) futuro ha avuto un sacco di buone ragioni per farlo, come cerchiamo di dimostrare in questo articolo. Rimane soltanto da segnalare la consolazione della deduzione fiscale (massimo 5.165 euro annui) e dell’aliquota agevolata sui rendimenti (lo 11%, come per il TFR) del TFR conferito ai fondi, quasi sempre spie (come è stato in passato per le assicurazioni sulla vita stipulate fino al 31 Dicembre 2000) di prodotti poco convenienti da un punto di vista finanziario, anche perché spesso gestiti abbastanza male dalle società di gestione, dalle banche o dalle compagnie di assicurazione, ma che proprio per questo lo Stato sceglie di sostenere fiscalmente coi soldi di tutti i contribuenti.
La deduzione fiscale dei versamenti è un incentivo soprattutto per i dipendenti che hanno i redditi più alti e perciò pagano una aliquota IRPEF marginale maggiore, ma essa, come abbiamo visto, ha come contropartita la rinuncia ad una copertura più alta dall’inflazione ed alla sicurezza di un rendimento reale quasi sempre positivo del proprio TFR.

4) Il confronto fra il rendimento ed il rischio del TFR e quelli dei fondi pensione.
Da quanto abbiamo detto finora deriva che difficilmente un fondo pensione (come anche un fondo comune) monetario od obbligazionario può rendere di più del TFR, mentre uno bilanciato od uno azionario può ottenere anche risultati migliori, ma, essendo più rischioso, espone il dipendente - risparmiatore anche a forti perdite sul capitale versato. Da ciò deriva che la scelta logica, o almeno prudenziale, per l’investimento di un capitale da cui deriverà, in tutto od in parte, la pensione futura dovrebbe essere quella di uno strumento a rischio basso o bassissimo, quindi, solitamente, Titoli di Stato, Buoni Postali oppure obbligazioni di banche o di imprese particolarmente sicure (le c.d. obbligazioni corporate che comunque hanno un livello di rischio decisamente maggiore dei titoli pubblici).

Attualmente, con la caduta dei valori delle Borse nel 2008 e con quella dei rendimenti dei titoli pubblici nel 2009, sia le linee di investimento azionario che quelle obbligazionarie dei fondi pensione in cui viene conferito il TFR da coloro che hanno esercitato questa opzione stanno ottenendo rendimenti più bassi, ed anche molto, di quelli di quest’ultimo. Inoltre, su di esse gravano le commissioni di gestione, che il TFR non ha, che deprimono ancora di più rendimenti già bassi di loro. E’, questo, il classico argomento a favore dell’investimento in proprio in titoli pubblici anziché attraverso un fondo comune obbligazionario o monetario: anche se il fondo comune ottiene dalla sua gestione un rendimento pari o leggermente superiore a quello di mercato, che dovrebbe essere il suo benchmark o parametro di riferimento (chissà perché l’espressione italiana non la usa mai nessuno: forse è troppo chiara), esso dovrà poi diminuire per la deduzione da esso delle commissioni di gestione che sono la remunerazione dei gestori del fondo. Consideriamo, per esempio, cosa significa, in questi tempi di bassi rendimenti, togliere un uno o un due per cento (ma ci sono fondi col tre per cento) di commissione di gestione dal rendimento del capitale investito nel fondo. Significa, per il cliente, ottenere un rendimento negativo e perdere addirittura sul capitale maturato o su quello versato.

Si pensi a quanto è accaduto negli USA ed, in misura minore, in Gran Bretagna nel biennio 2008 – 2009 in cui il capitale dei fondi pensione investito nelle Borse è stato drammaticamente decurtato, con la conseguente forte diminuzione dei trattamenti pensionistici futuri degli aderenti a meno che non vi siano spettacolari e duraturi rialzi delle Borse che difficilmente si possono prevedere allo stato attuale delle cose. E si pensi al fiorire in questi paesi della ricerca di soluzioni a questo problema previdenziale come i prestiti pensionistici a fronte della cessione della nuda proprietà attuale o della proprietà futura della casa o di quella di una polizza vita tradizionale o la trasformazione in rendita sempre di polizze vita che all’origine erano state stipulate per accumulare un capitale, magari a favore dei figli, della moglie, ecc.

Figuriamoci quindi cosa sarebbe successo in Italia se il conferimento del TFR ai fondi pensione fosse stato introdotto dieci anni fa e le linee di investimento azionarie di questi ultimi fossero state colpite in misura sensibile dalla crisi dei mercati: avremmo avuto delle manifestazioni di piazza? Lo Stato o l’INPS avrebbero ripianato le perdite? E con quali soldi? Troppo brutto persino pensarlo, ma la crisi dei fondi pensione italiani evitata nel 2008 – 2009 potrebbe riproporsi alla prossima bolla finanziaria, verso cui, probabilmente, stiamo già correndo se non saranno adottati profondi correttivi all’attuale sistema finanziario.
In altre parole, secondo noi, ai fondi pensione in generale ed a quelli in cui viene conferito il TFR in particolare la legge dovrebbe vietare del tutto l’investimento azionario (per non parlare di quello in prodotti derivati) o consentirlo solo per una quota molto bassa del capitale versato, per esempio, il 10%, visto l’interesse pubblico al corretto svolgimento della funzione previdenziale di questi fondi. Infatti, questo investimento è troppo rischioso anche e soprattutto perché non è governabile né dall’aderente al fondo, né dal fondo stesso, nel senso che nel fondo si entra e si esce non al momento più opportuno per valorizzare l’investimento in Borsa, ma nei momenti fissati dalla legge (adesione e pensionamento) che potrebbero coincidere, rispettivamente, con un momento in cui la borsa è ai massimi ed uno in cui è ai minimi, con la conseguente decurtazione dell’assegno pensionistico integrativo, come sta accadendo ora negli USA e in Gran Bretagna.

Purtroppo, però, con le norme attuali, i fondi pensione hanno tutto l’interesse a spingere gli aderenti a scegliere le linee di investimento azionario, più lucrose per i fondi stessi, che si fanno pagare commissioni di gestione più alte di quelle delle gestioni monetarie od obbligazionarie, ma molto più rischiose per i clienti e per la loro tranquillità economica in età avanzata.
Invece, il TFR normale, cioè quello tenuto in azienda, è stato finora un ottimo investimento senza costi e con un rischio bassissimo (quasi da titoli di stato) anche perché, nel caso di fallimento dell’impresa, il suo versamento è garantito dall’INPS, mentre nel caso di fallimento di un fondo pensione, per quanto questa sia un’ipotesi remota, non c’è nessuna garanzia per i risparmiatori. Il risparmio forzoso, nel senso di imposto dalla legge, accumulato nel TFR può essere intaccato, come abbiamo visto, solo da un’inflazione molto alta o altissima (iperinflazione) che l’Italia si è lasciata dietro a partire dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso.

5) Perché conviene avere libertà di scelta su come utilizzare il proprio TFR.
E’ senz’altro corretto dire che il TFR potrà essere utilizzato dai lavoratori per il finanziamento della previdenza integrativa individuale per colmare la differenza fra le attuali pensioni calcolate col metodo retributivo in percentuale delle ultime retribuzioni e quelle che lo saranno col metodo contributivo, sulla base di un coefficiente di trasformazione che moltiplicherà il capitale maturato coi contributi versati e le relative rivalutazioni nel tempo.

Ma, se questo è un fatto poco contestabile, dato che è difficile che il lavoratore dipendente medio italiano possa sottrarre risorse di una certa entità alla sua retribuzione netta, è anche vero che, in teoria, la scelta di destinare il TFR da maturare (c.d. “maturando”) ad un fondo pensione dovrebbe, secondo noi, poter essere fatta durante tutto l’arco della vita lavorativa e quella di convertire tutto o parte del TFR maturato in una rendita vitalizia (cioè in una pensione integrativa) dovrebbe poter essere fatta anche alla fine della vita lavorativa, quando fosse manifesta la convenienza di una pensione integrativa. Si potrebbe, in teoria, conferire il TFR maturato anche solo in un fondo comune a rimborso programmato mensile o con scadenze di rimborso più lunghe. Del resto, se si aumentasse l’età pensionabile (come già si sta facendo e come si continuerà quasi certamente a fare nei prossimi anni) e se l’economia italiana riprendesse un sentiero di crescita che aumentasse i rendimenti dei contributi pensionistici (che sono pari alla crescita annua del PIL, il Prodotto Interno Lordo), le pensioni contributive sarebbero più alte di quanto oggi si prevede (anche se non si sfugge al sospetto che molte di queste previsioni siano tenute artificialmente basse per fare un favore all’industria del risparmio gestito, in particolare a quella, appunto, dei fondi pensione).

Quindi, la domanda è: perché non fare decidere i lavoratori dipendenti se, quando ed in quale misura vogliono utilizzare il TFR a fini di previdenza integrativa, visto che è “roba” loro, dato che il TFR è una “retribuzione differita” nel tempo?

Oltre a ciò, sarebbe opportuno, a nostro parere, che una riforma di questa materia agisse sulla struttura dei costi dei fondi pensione (nel senso di limitarli tramite dei massimali alle commissioni applicate e questo dovrebbe valere anche per i fondi pensione “aperti”, destinati ai lavoratori autonomi e che hanno costi molto gravosi per l’aderente, di solito superiori a quelli dei fondi “chiusi”) o creasse una fiscalità di vantaggio per chi lo userà come capitale da convertire in rendita, prevedendo, per esempio, che il TFR riscosso come capitale paghi le attuali imposte, mentre chi lo converte in una pensione integrative paghi solo, per esempio, il 75% delle stesse. Una misura come questa avrebbe, peraltro, un costo limitato per lo Stato.
Le altre agevolazioni fiscali possibili potrebbero essere una detrazione, una deduzione od una aliquota agevolata apposita (per esempio, il 20%) per il reddito rappresentato dalla rendita in cui è stato convertito il TFR.

Infine, una riforma che desse libertà di scelta al lavoratore su come utilizzare il proprio TFR lo metterebbe in condizione di scegliere un buon prodotto di conversione di un capitale in una rendita vitalizia presente sul mercato, per via della concorrenza che si farebbero le compagnie di assicurazione sulla vita (è un loro prodotto tipico, nato nell’Inghilterra del settecento) o le banche per conquistare i clienti. Questi sarebbero ancora più garantiti da norme di legge che prevedessero un massimale per le commissioni di gestione della rendita ed un coefficiente di conversione del capitale in rendita minimo garantito, uguale a quello delle pensioni pubbliche (per cui le assicurazioni o le banche potrebbero offrire qualcosa di più, ma non qualcosa di meno). Una norma di questo tipo dovrebbe essere adottata anche per i fondi pensione a cui viene conferito il TFR e per quelli “aperti” che sono arbitri assoluti sui tassi di conversione del capitale maturato, senza che gli aderenti abbiano alcuna garanzia o voce in capitolo.

6) Dalla riforma del TFR le imprese ci hanno guadagnato o ci hanno perso?
Per le imprese italiane il TFR è stato storicamente una voce importante dell’autofinanziamento, perché il suo accantonamento diminuisce l’utile e libera risorse per finanziare l’attività. Inoltre, quasi sempre l’accantonamento è solo una operazione contabile che non comporta un esborso monetario reale, fino al momento, ovviamente, della cessazione del rapporto col dipendente. Questa fonte di autofinanziamento delle imprese italiane, PMI o grandi non fa differenza, è tanto più importante quanto più si consideri che due dei loro problemi fondamentali sono la sottocapitalizzazione, cioè la scarsa presenza di capitale proprio (o “di rischio”) e l’uso eccessivo dell’indebitamento bancario. Entrambi questi problemi si sono acuiti enormemente con la crisi finanziaria ed economica del biennio 2008 – 2009.

Ebbene, anche se le associazioni imprenditoriali hanno partecipato con convinzione alla grande campagna mediatica per spingere i dipendenti ad aderire ai fondi pensione (che ha ottenuto, come abbiamo visto, scarsi risultati), le imprese sono senz’altro fra i perdenti dell’operazione “TFR ai fondi” perché si sono viste privare di una importante fonte di autofinanziamento pochi mesi prima dell’inizio della crisi dei mercati finanziari e del conseguente razionamento del credito operato dalle banche per rafforzare il proprio patrimonio rientrando da tutte le linee di credito alle imprese anche soltanto un po’ problematiche.

Con una differenza: che le imprese medie e grandi, vale a dire quelle dai 50 dipendenti in su, si sono viste togliere del tutto il TFR che ora viene versato nell’apposito fondo dell’INPS, mentre le micro e piccole imprese, cioè quelle con meno di 50 dipendenti, devono ringraziare questi ultimi se oltre il 60% di loro ha scelto di mantenere il TFR in azienda.

Concludendo, dopo avere esaminato approfonditamente una vicenda come la riforma a fini previdenziali dell’istituto del TFR ci viene da pensare che le associazioni datoriali, come anche i sindacati, non abbiano sempre e del tutto ben chiari quali sono gli interessi dei loro iscritti e come questi vadano difesi, sia pure compatibilmente con l’interesse generale del paese. Inoltre ci sembra che le leggi o le riforme “bipartisan”, cioè volute da tutto o quasi tutto lo schieramento politico non siano sempre una garanzia di qualcosa di fatto davvero nell’interesse dei cittadini e del paese, ma piuttosto un modo per dividersi di fronte all’opinione pubblica ed alla storia la responsabilità di operazioni piuttosto discutibili.