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Italia ancora insicura: lo dicono i numeri

20 maggio 2009 0 commenti

In Italia 21mila scuole, oltre 500 ospedali e ben 7 milioni di abitazioni private si trovano in zone sismiche di I e II categoria, le più pericolose delle quattro in cui è stato classificato il territorio nazionale.

Sono dati presentati dall’ISPRA nel corso del recente convegno dal paradossale titolo “Per un’ Italia più sicura”, organizzato per fare il punto sulle azioni necessarie per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale.

Danni alle abitazioni - foto Paolo Moretti-

Danni alle abitazioni - foto Paolo Moretti-

In città con forte pericolo sismico, come Catania e Messina, meno di un quarto delle abitazioni sono a norma, mentre 15 centri italiani dichiarati patrimonio dell’UNESCO ricadono in zone sismiche di prima e seconda categoria.

Molti degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali fondamentali proprio in caso di sisma (prefettura, municipi, ospedali, caserme, ponti e reti) si trovano in località a forte sismicità. Solo nel meridione risiedono 42.100 stabili ed opere rilevanti ( censiti dal progetto SAVE) distribuiti in ben 1510 comuni. Su 957 ospedali pubblici e 613 case di cura, 45 ospedali e 40 case di cura ricadono in zone sismiche di prima categoria, mentre rispettivamente 272 e 187 in quelle di seconda.

In tale contesto e alla luce dei numeri presentati il titolo scelto per l’incontro suona davvero come un’utopia e ci pone davanti a diversi interrogativi.

Andiamo con ordine.

Nel nostro paese, a pericolosità sismica medio/alta rispetto al contesto mediterraneo, i terremoti più forti raggiungono una magnitudo di poco superiore a 7 e si verificano in media ogni 20-25 anni, mentre quelli di magnitudo inferiore (tra 5 e 6), piuttosto frequenti, si manifestano all’incirca ogni 3-4 anni. In entrambi i casi i danni provocati sono gravissimi e la colpa è dell’alta vulnerabilità delle costruzioni realizzate prima dell’introduzione della normativa antisismica.

Le cifre parlano chiaro: in tutta la nazione la maggior parte del patrimonio abitativo è antecedente al 1970 e circa il 20% al 1919. Inoltre, il 90% è stato costruito prima della classificazione sismica. I centri storici ad esempio sono 22.000 e per alcuni aggregati, dove il crollo di una unità può determinare un effetto domino, il rischio è ancora più alto.

Gli edifici scolastici, censiti sempre dallo stesso progetto, sono 45.000 . Di questi 20.890 sono stati costruiti prima del 1970 e molti di essi sono stati dichiarati con problemi di ordine costruttivo e conservativo.

Parlando, invece, di beni culturali ed artistici, le città dichiarate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità sono in tutto 40. Di queste, 14 si trovano in zone sismiche di seconda categoria ed 1 addirittura in prima.

E le dighe? L’età media delle grandi è di 52 anni, il 90% antecedenti all’entrata in vigore delle norme vigenti ed oltre il 70% progettate senza caratteristiche antisismiche (perché all’epoca non previste). Anche sei i tecnici dichiarano che i margini di sicurezza nella progettazione delle dighe dovrebbero essere ampi, vista l’età e l’assenza di determinate caratteristiche per la maggior parte di esse, non guasterebbe un ulteriore controllo.

Insomma, quella descritta è palesemente una situazione non facile e che lascia qualche dubbio sulla concreta possibilità di mettere in sicurezza tutto questo in tempi brevi.

Qualcosa è stato fatto, dicono gli esperti, ma soprattutto a seguito di eventi catastrofici che hanno segnato la storia italiana. Nelle scuole, ad esempio, solo recentemente è stata avviata una ricognizione del loro grado di vulnerabilità attraverso un accordo tra Governo e Regioni. Solo negli ultimi anni la Protezione civile, di concerto con il Ministero della Salute, ha redatto raccomandazioni e linee guida per l’adeguamento sismico alle strutture ospedaliere. Ma questo non è neanche l’inizio: quello che ancora manca, hanno spiegato, è una vera e propria strategia di riduzione del rischio, un quadro conoscitivo della vulnerabilità dell’intero territorio (basato su un serio censimento delle costruzioni), la ricerca di soluzioni politiche particolari per il mezzogiorno, l’avviamento di una politica di razionalizzazione della spesa pubblica che includa una legge per la copertura finanziaria dei danni dovuti alle calamità naturali e, soprattutto, non continuare a sottovalutare il problema.

E’chiaro che il cammino è ancora molto, troppo lungo. Ma quanto dobbiamo aspettare prima che la messa in sicurezza diventi una reale priorità nelle agende politiche? Dal terremoto siciliano a quello abruzzese sono passati ormai più di 100 anni.