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Come si cancella un’azienda

1 ottobre 2009 0 commenti

di Roberto Mania da Repubblica del 21 Settembre u.s.

acciaierie«Piccole imprese schiacciate dai debiti. L’ondata di chiusure sta arrivando in silenzio. È la coda velenosa del tracollo del capitalismo drogato dalla finanza. Sono almeno un milione le aziende in affanno per mancanza di liquidità, cioè di soldi. Boccheggiano insieme ai propri dipendenti in cassa integrazione, in mobilità, a un passo dal licenziamento.

E accade nei distretti marchigiani del made in Italy, nel nord est dei mille capannoni; nel nord-ovest della manifattura tradizionale, nella Lombardia un tempo opulenta e degli straordinari pagati in nero. Succede anche a Como dove i tassi di disoccupazione se la sono sempre battuta con quelli del nord Europa. Ma dove hanno già chiuso le storiche fonderie di Dongo, e poi le officine Giardina. Qui, entro fine anno - stando alle previsioni della Fim-Cisl - saranno in 5-600 a perdere il lavoro. Eccola, davvero, la crisi nell’economia reale. Per Paola Lavagnini, 47 anni, imprenditrice comasca, lavorare è stato il verbo della vita. Ora lo coniuga al passato, oppure al futuro, ma non riesce a farlo al presente. La sua azienda, la Lavagnini fondata dal padre Carlo più di mezzo secolo fa, sta arrivando al capolinea. Un anno fa, quando la Lehman Brothers è fallita e gli impiegati se ne andavano mesti con i cartoni in mano seguiti dalle telecamere di tutto il mondo, New York appariva lontanissima, sfocata, guardata da qui, da Rebbio, frazione di Como. Profondo nord industriale. Terra di imprese: ce n’è una ogni undici abitanti. Qui padrone e operaio lavorano ancora fianco a fianco. Capitalismo familiare, molecolare, flessibile, disordinato, destrutturato. Un tempo anche indomito. Colpito prima dalla Cina e poi dal tracollo di Wall Street. Perché esattamente un anno dopo quelle immagini da New York si sono avvicinate, adattate alle microimprese comasche. E non solo.

“Se non mi arriva il finanziamento, chiudo. Non ho alternative”, dice Paola Lavagnini. “E non sono ottimista, sono sfiduciata”. Sta nel suo piccolo ufficio, non più di venti metri quadri, pareti rosa, computer acceso in attesa di ordini che non arrivano, mobilio meno che essenziale, un po’ retrò, anni Settanta. Un’altra epoca, quella d’oro, quella in cui, nei capannoni di Via Ortigara, di telai per la stampa sui tessuti - questo è stato soprattutto il distretto della seta - se ne facevano a centinaia di migliaia al mese, in cui “babbo Carlo” impiantò un’officina addirittura laggiù, a Buffalo, proprio negli Stati Uniti d’America. La Lavagnini conquistava il mondo: Nord Europa, Australia, Russia. Il 30-35 per cento del fatturato se ne andava all’estero. Oggi praticamente più nulla. La Lavagnini ha chiesto un ultimo, piccolo, prestito: 150 mila euro. “Mi basterebbero per ripartire”, sostiene. Ma la sua banca (quella con cui operava da quarant’anni) le ha detto no. Gliel’ha comunicato il 2 settembre, giorno di rientro in azienda dopo “un agosto infernale”.

Motivo? La Lavagnini è un cattivo pagatore. È scritto nella Centrale rischi della Banca d’Italia. “Siamo bollati”, dice. “Ma vorrei vedere chi non lo è di questi tempi. Siamo tutti nella stessa situazione. Perché se il cliente non mi paga io non posso pagare il fornitore. Siamo collegati”. Manca la liquidità e crescono gli insoluti. Inutile spiegarlo al direttore della filiale, perché è cambiato da poco, perché la storia dell’azienda non conta più, perché i progetti per ripartire i banchieri li studiano con sospetto e timori, seguendo i criteri rigidi, asettici, e molto prudenziali di “Basilea 2″. Questo è il credit crunch. Lavagnini ha chiesto di potere sfruttare la moratoria prevista dal protocollo tra l’associazione delle imprese e quella delle banche, ma che, in attesa delle circolari attuative, qui è ancora lettera morta.

Un’idea per riposizionare la sua azienda, Paola Lavagnini l’aveva anche avuta. Sette anni fa (proprio quando è morto il padre-fondatore) pensava il sfruttare il suo know how per “allargarsi” dall’industria tessile a quella alimentare. Pensò di fabbricare in alluminio anodizzato i cestelli per l’essicazione della pasta. Le avevano anche detto che a Strasburgo il Parlamento europeo stava esaminando una norma per sostituire gli attuali cestelli in legno (prodotti in Romania) con quelli in alluminio ben più sicuri dal punto di vista igienico per quanto assai più costosi. Ma la norma non è arrivata, il brevetto è rimasto nel cassetto, i 25 mila euro investiti per i nuovi stampi non hanno fruttato nulla e i cestelli (tranne i tremila piazzati in Australia) sono ancora lì accatastati nei capannoni. Dove lavora anche il marito: manutentore in esubero, perché se pure dovesse arrivare il fido, lui se ne andrà gradualmente in pensione.

Da febbraio si fa la cassa integrazione a rotazione alla Lavagnini. Nei primi anni Novanta in quei capannoni vi lavoravano fino a 24 operai. Ora sono rimasti in otto, più un’impiegata per l’amministrazione. Ogni giorno due operai (”i ragazzi”, li chiama) stanno a casa per quattro giorni a settimana, poi, il venerdì, tutti in cassa integrazione. Per ora è stata la stessa Lavagnini ad anticipare i ratei della cassa integrazione. Ha usato gli accantonamenti per le liquidazioni. Da tre mesi non versa più l’Iva e neanche i contributi sociali, quelli che servono per la pensione. Si è fatta fare la perizia sul terreno e i capannoni. “Mi darebbero troppo poco, questo è un terreno edificabile”. Aspetta. “Eppure - racconta - “i ragazzi” non hanno capito ancora bene come stanno le cose anche se ne abbiamo parlato. Ad agosto sono andati tutti in ferie. Io li ammiro: sono ormai sette anni che non vado in vacanza”.

Como è terra leghista. In provincia il Carroccio è il secondo partito, dopo il Pdl, e in città è il terzo con un testa a testa con i democratici. Ma non è solo per questo che si avverte una secessione di fatto tra le imprese e la politica. La crisi l’ha soltanto acuita. Paola Lavagnini dice che alla fine l’imprenditore è solo. “Tutti pensano che l’Italia la faccia la Fiat, e invece siamo noi a farla: i piccoli. Eppure passiamo inosservati. Ma il governo non aveva detto che le banche devono dare i soldi?”».