Partita aperta a Copenhagen
Partita aperta a Copenhagen
Sono iniziate le schermaglie diplomatiche in attesa di vedere quali possibilità ci sono per un accordo vincolante che dia una risposta seria alla sfida di tenere sotto i 2°C l’aumento della temperatura globale. La distribuzione dei costi e dei benefici, e il livello delle riduzioni delle emissioni e degli aiuti da mettere sul tavolo sono al centro della contesa.
Prima di fare un quadro delle questioni, e descrivere le richieste di Greenpeace e degli ambientalisti, va sottolineato che mai come questa volta ci sono tutti gli ingredienti: le analisi scientifiche convergenti (nonostante qualche tentativo di screditarle non manchi mai), un movimento veramente globale che preme per un accordo, interessi reali sul lancio di una green economy, una crisi finanziaria alle spalle che dovrebbe indurre a modificare seriamente le politiche di sviluppo, prime serie aperture dei Paesi emergenti più importanti. Per ultima, la presa di posizione dell’EPA statunitense che, forse, dà un’arma in più alla presidenza Obama.
Quattro ingredienti per un successo
Per poter dire di avere ottenuto un successo ci vogliono quattro elementi:
a. un serio impegno alla riduzione delle emissioni da parte dei Paesi industrializzati, che sono responsabili dei ¾ delle emissioni cumulate. Non vale qui l’obiezione di Sartori che sul Corriere dice che i Paesi industrializzati “non sapevano”. Non sapevano, certo, ma intanto hanno avuto dei benefici legati allo sviluppo industriale. Il livello del taglio delle emissioni dev’essere del 40 per cento al 2020 rispetto al 1990. L’obiettivo del 30 per cento che Stern propone come unilaterale per l’Europa non è sufficiente e non è abbastanza ambizioso: oggi l’Europa a 27 registra un -13,6% di emissioni rispetto al 1990. Al momento, gli impegni dichiarati arrivano a un -18 per cento, non sufficiente.
b. I Paesi industrializzati devono mettere le risorse finanziarie pubbliche – 140 miliardi di dollari l’anno – da dare ai Paesi in via di sviluppo (PVS) per fermare la deforestazione (responsabile del 20 per cento dell’effetto globale), aiutare questi paesi a fronteggiare gli impatti del cambiamento del clima e a accedere alle tecnologie rinnovabili e efficienti.
c. I Paesi emergenti – come Cina, India, Brasile, Sudafrica ecc. – si impegnano a ridurre le crescita delle emissioni del 15-30 per cento rispetto alle previsioni. Altri Paesi come Arabia Saudita, Kuwait, Singapore, ecc. devono ridurre in assoluto le loro emissioni già nel prossimo periodo di implementazione del post Kyoto, 2013-17
d. Instaurare un meccanismo finanziario per fermare del tutto la deforestazione entro il 2020 e già al 2015 in aree come Amazzonia, Congo e Indonesia.
Impegni per 5 anni e poi da ridefinire per altri 5
Assumere come periodo per gli impegni un tempo di 5 anni anziché di 8 presenta diversi vantaggi. Anzitutto il prossimo Rapporto dell’IPCC è previsto tra il 2013 e il 2014, in tempo per negoziare gli impegni per la terza fase (2018-2022). In secondo luogo, più il periodo è lungo e minori saranno le riduzioni al 2020.
Nella seconda fase 2013-2017 è previsto che i Paesi in via di sviluppo prendano impegni vincolanti e dunque allungando il periodo si rischia che questo non accada prima del 2020 e venga preso come scusa dai paesi industrializzati.
Proteggere le foreste non trasformarle in piantagioni
Il fondo da destinare alla protezione forestale per prevenirne la distruzione deve essere chiaro sull’obiettivo. Al momento la Convenzione sul clima non distingue tra foreste naturali e piantagioni, che poi sono una delle cause della deforestazione come in Indonesia. L’inclusione nel fondo di attività di “gestione sostenibile” come la Sustainable Forest Management promossa dall’industria del legno in realtà finanzierebbe alcune delle attività responsabili della deforestazione.
L’inclusione tra i beneficiari di tutti i Paesi che ospitano foreste è essenziale: non deve succedere come per i fondi del Clean Development Mechanisms per la riduzione delle emissioni, che sono stati assorbiti fondamentalmente da 4 Paesi: Cina, Brasile, India e Corea del Sud.
Un accordo equo, ambizioso e legalmente vincolante è possibile, a patto che i Paesi industrializzati si assumano seriamente le loro responsabilità e non giochino a scaricare le responsabilità sugli ultimi arrivati. E che questi, di fronte a impegni “sinceri” (come ha esortato la portavoce cinese Jiang Yu) prendano anche loro obiettivi vincolanti, anche se più graduali.