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Flopenhagen

12 gennaio 2010 0 commenti

Il flop della Conferenza sul clima di Copenhagen è stato clamoroso: mai c’era stata una mobilitazione così ampia di cittadini in tutto il mondo per richiamare l’urgenza di una azione decisa da parte dei governi. Un nulla di fatto che ha lasciato per 3 settimane 4 attivisti di Greenpeace in carcerazione preventiva per aver fatto un blitz alla serata di gala dei Capi di Stato.

Una delle novità emerse a Copenhagen è stata la divisione nel gruppo dei Paesi in via di sviluppo tra chi voleva un rafforzamento del protocollo di Kyoto (i Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici) e quelli che non volevano un accordo che contenesse obiettivi vincolanti (Cina, India e i Paesi produttori di petrolio dell’OPEC). Dunque – se ce ne fosse ancora bisogno – si è evidenziato come non abbia più senso parlare di “Paesi in via di sviluppo” come un unico gruppo.

Così, questo ’”Accordo di Copenhagen” – promosso da USA, Cina, India, Brasile e Sudafrica – pur riconoscendo che la temperatura globale “dovrebbe essere mantenuta al di sotto dei 2°C”, non contiene nessun obiettivo vincolante, ma lascia i singoli Paesi la libertà di definire i propri obiettivi al 2020 (per i Paesi di più lunga industrializzazione) e di dichiarare le azioni volontarie che verranno intraprese. In sostanza, nulla è stato deciso.

L’obiettivo che “non si dovrebbe superare” i 2°C di aumento delle temperature globali era stato presentato nel 2007 dal Quarto rapporto dell’IPCC, era già alla base degli impegni assunti dall’Unione Europea, ed era stato ribadito nel documento del G8. Dunque non è una novità: occorreva, per delineare una strategia per ottenere quest’obiettivo, un taglio del 25-40% delle emissioni dei paesi industrializzati, un impegno a ridurre la crescita delle emissioni dei Paesi emergenti, fermare la deforestazione. E tagli ancora più drastici (80%) entro il 2050. In questi termini Copenhagen è stato un disastro.

Gli unici segnali debolmente positivi sono sul versante degli aiuti: 30 miliardi di dollari per il periodo 2010-12 per un Fondo del Clima e “l’aspirazione” a arrivare a 100 miliardi di dollari al 2020, senza che però sia chiaro come e da chi verranno raccolti. L’Accordo di Copenhagen non è stato formalmente approvato ma le Parti hanno solo “preso atto” del testo.

La delusione Obama

Nel 1997 a Kyoto il vicepresidente USA Al Gore firmò il Protocollo, ma il Senato poi non lo ratificò. I commentatori più benevoli osservano che questa volta il Presidente Obama ha cercato un accordo di principio con i Paesi emergenti per convincere il Senato ad approvare la legislazione che introduce negli USA un sistema di permessi alle emissioni simile a quello europeo. Se anche la strategia è comprensibile, purtroppo l’obiettivo della legislazione in discussione al Senato USA appare poco incisivo: nei termini del Protocollo di Kyoto (riferimento al 1990) si tratta di riduzioni del 4% contro il 20% già adottato dall’UE e un 25-40% necessario per mantenere il pianeta entro i 2°C.

Con il rifiuto da parte degli USA di introdurre obiettivi vincolanti aggregati – cosa necessaria per poter parlare di una riduzione delle emissioni definita – i Paesi emergenti – la Cina e l’India in particolare –  hanno bloccato ogni obiettivo vincolante di lungo termine. D’altronde la responsabilità storica dei cambiamenti climatici in atto è per i tre quarti dei Paesi di più lunga industrializzazione.

Dunque, nonostante le promesse di Obama che gli USA avrebbero giocato un ruolo guida nel negoziato per la salvaguardia del clima globale, al contrario gli USA hanno depotenziato il negoziato subordinandolo all’agenda politica interna – peraltro ostaggio delle lobby carbonifere e petrolifere –  con l’unico vero obiettivo di coinvolgere in qualunque modo la Cina, che finanzia il 40% del debito USA. Ma subito dopo l’Accordo di Copenhagen la Cina ha iniziato a mettere in dubbio il valore legale di un simile testo.

Unione Europea marginalizzata

La leadership dell’UE sul negoziato è stata messa in un angolo sia a causa delle divisioni interne, che per ragioni di strategia della Commissione e delle resistenze di alcuni Paesi sul contenuto – tra cui Italia e Polonia – a rilanciare sull’obiettivo unilaterale del 30% (obiettivo peraltro assolutamente alla portata dell’UE a 27).

Il ruolo assolutamente negativo della Presidenza danese della Conferenza (un disastro anche sul piano logistico e organizzativo)  – che ha fatto circolare bozze di testo chiaramente inaccettabili per la Cina – il peso delle lobby industriali “climalteranti” e il fatto che nè USA o Cina avessero bisogno di un accordo con l’UE nella loro agenda politica interna hanno contribuito a marginalizzare l’Europa.

Verso un aumento di 3°C

Un primo effetto del flop di Copenhagen è quello di mettere in discussione la possibilità stessa di un accordo vincolante che identifichi obiettivi precisi aggregati (come è necessario per stare al di sotto del 2°C di aumento) ma propone un accordo volontario dove ciascun paese industrializzato si dà degli obiettivi di riduzione e ciascun paese in via di sviluppo decide quali azioni intende fare.  Un secondo effetto, visto che l’accordo è stato promosso da un gruppo di Paesi ma non approvato formalmente oltre la presa d’atto (mai successo prima), è l’indebolimento della sede negoziale ONU.

Rimanendo questa la situazione – e dunque con gli impegni già presi o in via di approvazione (compresa la normativa USA peraltro ancora sub-iudice) l’aumento della temperatura globale nel secolo, secondo stime di fonte IPCC, sarà di oltre i 3°C, con conseguenze molto pesanti sull’ambiente.

Le specie a rischio di estinzione sono valutate tra il 15 e il 40% nei vari scenari e la popolazione mondiale in situazioni di stress idrico salirebbe dall’attuale miliardo si 3,2 miliardi. A rischio l’80% della foresta amazzonica e un aumento della popolazione a rischio di malaria e altre malattie tropicali. Lo scioglimento dei ghiacciai accelererebbe contribuendo all’innalzamento del livello del mare tale da mettere a rischio, ogni anno, dai 2 ai 15 milioni di persone in più. Oltre 200 i milioni di “profughi climatici” previsti alla metà del secolo.

Un tale aumento della temperatura in sostanza avrebbe un impatto pesante che renderebbe ulteriormente a rischio alcune risorse vitali come l’acqua e il cibo, dunque aumentando il rischio di conflitti.

La necessità di riprendere i negoziati

Per quanto il sistema dell’ONU mostri evidenti limiti, cosa che ha sollevato da parte di alcuni commentatori la proposta di superare questa come sede negoziale, nemmeno altri forum internazionali hanno finora funzionato meglio, dal G8 al G20 passando per i summit delle principali economie, il MEF.

Eppure l’interesse a sviluppare una “economia verde” basata sulle fonti rinnovabili e pulite – la base per una politica di salvaguardia del clima – esiste. E anche per limitare i danni dei cambiamenti climatici è necessaria una rivoluzione tecnologica verde e un aiuto a chi subirà quella parte dei danni climatici non più evitabili. Se dunque esistono segnali positivi nelle politiche nazionali, se la spinta verso una “rivoluzione energetica verde” è reale, manca un quadro politico globale entro cui governare questo processo verso obiettivi precisi e allo stesso tempo introducendo criteri di equità e solidarietà.

Il pianeta Terra è davvero troppo piccolo e affollato per poterne fare a meno .