Le taumaturgiche proprietà del mercato
La Citigroup - è notizia di qualche giorno fa - è partecipata al 36% dall’amministrazione statale americana, la AIG - principale società di riassicurazione mondiale - è stata nazionalizzata, le banche d’investimento non esistono più e la stessa Gran Bretagna ha nazionalizzato le principali banche; i contribuenti versano trilioni e gli equilibri geopolitici si stanno rovesciando. L’Unione Europea è pronta a nazionalizzare gli istituti in difficoltà: la commissione europea ha stimato in 18.200 bilioni di euro i titoli soggetti a rivalutazione.
Siccome il PIL europeo corrisponde a circa 14.000 bilioni (14 triliardi), i numeri significano che dopo aver venduto tutto, ma proprio tutto, dovremo ancora a qualcuno 4 trilioni.
Il modello di mercato è crollato nei fatti. Il sistema attuale, di fatto, non e’ un sistema di mercato. I contribuenti stanno pagando i danni di quei pochi che hanno concentrato nelle proprie mani la ricchezza generata in questi anni. A questo proposito, abbiamo pubblicato (sia su esserevento che pure qui su finansol.it) articoli sui livelli di sperequazione rilevati dall’ISAE e di quei 7 mila euro all’anno che i dipendenti trasferiscono ai percettori di profitto (rilevazione FMI e BIS). Esiste ancora qualcuno che scommetterebbe sulle taumaturgiche proprietà del mercato?
Eppure fino a ieri si parlava di liberalizzazioni e qualche sprovveduto, anche a livello politico provinciale, ne parla ancora oggi come una soluzione. Ovviamente alcune liberalizzazioni sono state effettuate perfino in Italia: la Telecom è in mano ai privati e si è trasformata in una ciste stra indebitata, scalata mettendo a somma i soldi necessari nei debiti dell’ acquistata, una scalata con i soldi della preda. Insomma una strana società privata con un monopolio, piena di debiti e di “controprestazioni” politiche. Di più, non siamo riusciti a liberalizzare il mercato dei taxi, ma la liberalizzazione degli acquedotti (l’articolo 23 bis del decreto legge Tremonti) è passata senza neanche essere segnalata.
Questa differenza rende evidente che la pressione lobbistica di pochi per il proprio vantaggio: lavorare meno per guadagnare di più è non confrontabile con le necessità di un’intera popolazione. In altre parole la pressione lobbistica di un individuo prevale sul bene comune.
Ma è solo un’ipotesi che prevederebbe il solito mondo parallelo molto distante dal nostro.
Per questo, per calarci in un esempio concreto, decliniamo il tema dell’acqua: “pubblica o privata?”, per comprendere la facile soluzione.
La rete idrica italiana offre livelli di qualità elevatissimi. Sulla rete sono effettuate analisi giornaliere, settimanali e annuali, molto di più di quanto si faccia con le acque in bottiglia. E’ acqua trasparente ma, evidentemente, a qualcuno conviene intorbidirla e qualcun’altro se la beve.
E’ bizzarro quindi constatare che un rubinetto possa occultare la vastità dell’oceano. Eppure sembra che a qualcuno manchi il dono della vista o, meglio, deleghi la propria capacità percettiva affidandola ad altri che sono ben contenti di vedersela affidata. Difficile spiegare altrimenti questo bizzarro fenomeno di patologia della percezione. La privatizzazione della rete idrica poggia su un paradigma neoliberista che pretenderebbe la dominanza del mercato sulla gestione pubblica. Eppure, il modello neoliberista è un colabrodo matematico, economico e logico.
In estrema sintesi, secondo tale modello, l’equilibrio del mercato sarà ottenuto solo all’infinto. Quindi quando collasseranno il sistema solare e l’intera galassia. Certamente molto utile.
Il profitto non dovrebbe neanche esistere in un sistema di mercato, così come le posizioni dominanti delle multinazionali, ma pare che siano proprio questi due elementi che hanno determinato lo stato dell’economia negli ultimi 15 anni. Il sistema si autoregola misteriosamente, non sappiamo bene come funziona ma non possiamo intervenire altrimenti non sappiamo come funziona: decisamente geniale. Ma queste sono solo contraddizioni interne del modello che in un mondo parallelo, molto lontano dal nostro, potrebbero in qualche modo autocompensarsi e produrre un benessere casuale.
La domanda dominante, ad oggi, può essere differente da: Quale vantaggio potremo ottenere privatizzando la rete di un bene primario quando sappiano che la gestione del mercato porta a quello a cui stiamo assistendo? Perché abbiamo un’urgenza così impellente di replicare il disastro epocale determinato dal mercato “incondizionato”? A parte la pazzia, l’ignoranza e l’arroganza, esiste forse un’altra giustificazione che non sia la connivenza con interessi privati?