Centralizzazioni e concentrazioni: rivoluzioni
La crisi che ci attraversa ha delle caratteristiche inedite. Matura ed esplode nel centro del mondo. E non serve dire che si tratta di una chiusura del lungo ciclo americano. Potrebbe essere una situazione di ristrutturazione capitalistica e di ripresa di egemonia.
Forse è più utile invece l’analisi che riferisce la crisi nel punto più alto di sviluppo delle forze produttive. Non sappiamo se questo “testimone” varrà ripreso dalla Cindia (Cina e India). Potrebbe essere infatti una situazione in cui i processi di ristrutturazione capitalistica evolvano nella direzione di una riconferma della centralità americana. E’ forse allora più interessante capire la crisi dal di dentro.
Dire crisi di sovraproduzione e contemporaneamente di sottoconsumo forse non basta. Perchè rischia di essere uno slogan banale perchè ha perso la sua capacità analitica e di approfondimento. Quello che probabilmente va sottolineato è la dimensione di ristrutturazione capitalista della crisi. C’è crisi di liquidità, nonostante l’immissione di denaro fresco nel sistema bancario -finanziario. C’è una trappola della liquidità, in verità non si spende più per ora, la moneta è trattenuta. Non entra in circolo. C’è attesa che la crisi si approfondisca. Che interi settori capitalistici perdano valore. Si deprezzino. Falliscano. L’obiettivo è di prelevarli e acquisirli al momento giusto, appena prima o appena dopo che si annuncino aspettative di ripresa. Ma quanto saranno credibili o effettivamente durature e non illusorie queste aspettative? Insomma la crisi non potrà che approfondirsi, probabilmente molto a lungo. Molto a lungo. In competizione (non voluta) e complementarmente al sistema di imprese capitalistico di centralizzazione-concentrazione interverrà, ancora prima, come già stiamo vedendo, con massicce nazionalizzazioni, anche lo Stato. E, se fosse lungimirante, potrebbe, lo Stato, favorire e trasferire a comunità di lavoratori e di utenti interi settori di imprese. Nazionalizzare, dare in autogestione o in gestione sociale e partecipata l’impresa però non basterà se manca l’orizzonte di uno sviluppo possibile. Se non c’è una programmazione che indichi che cosa produrre, per chi e quanto.
“Quanto” produrre è poi determinante. Anche perchè tra le caratteristiche inedite di questa crisi c’è appunto il problema della “crisi” della quantità o detto in altro modo di uno sviluppo ridotto e identificato con la crescita. Crisi che si impone alla quantità per via di problemi di limitazione dovuti a carichi ambientali non più sopportabili e più in generale dovuti a una maggior consapevolezza maturata attorno ai beni comuni: suolo, acqua, territorio, conoscenza ecc… Una cosa sembra certa, non basteranno le misure di sostegno all’industria automobilistica, nè i criteri di condizionalità ambientale per accedere agli aiuti statali, per rilanciare l’auto (vedi i coraggiosi provvedimenti di Obama). Nè basteranno acquisizioni e fusioni.
Un’intera epoca, quella della mobilità privata su gomma sta per finire. E finirebbe anche senza le condizionalità ambientali, che non tanto paradossalmente costituiscono un incentivo ad una ulteriore transitoria fase di sviluppo. Anche se non ci fossse una stretta delle regole sul mercato per l’auto e per la sua centralità è finito il tempo. Perchè il prodotto oltre ad essere maturo ha esaurito completamente per saturazione il mercato. E la prospettiva non è neppure quella di un processo sostituivo, men che meno aggiuntivo di nuovi autoveicoli rispetto al parco esistente. Piuttosto è quella riduttiva, per sostituzione-sottrazione di auto private con servizi di auto collettivi (car pooling e carsharing) e mobilità pubblica.
Non c’è quindi più spazio per la crescita. La prospettiva per una economia trainata dall’auto è la stagnazione. Una stagnazione che potrebbe essere esplicitamente fascista. Se Obama non tirerà fuori dalla lunga crisi che si annuncia l’economia, niente potrebbe impedire che quel misto di interessi economici e religiosi che ha sostenuto il sistema Bush si riproponga con tratti più marcatamente fascisteggianti dopo le prove che abbiamo visto in questi anni all’ombra della guerra infinita. Riproposizione di interessi fascisti coalizzati attorno all’industria dell’auto e del petrolio promettenti uno sviluppo dirigisticamente orientato, ma che in realtà produrra solo stagnazione e perdita di occasioni di civiltà oltre che di esplorazione di possibilità economiche nuove, all’altezza dello sviluppo delle forze produttive. E questo avverrà, se non si saprà introdurre un “prodotto” che, come l’auto per il secolo breve e vent’anni oltre, ha rappresentato il simbolo concreto di un intero processo materiale di “civilizzazione”.
Il prodotto possibile per uscire da questo orizzonte negativo è un NON prodotto. E’ la qualità della vita. La qualità del bios. Qualità fatta di una varietà di miglioramenti incrementali che fanno sistema. Eppure il problema non è tecnologico. Se al centro c’è la qualità della vita come fattore trainante dell’economia, è allora l’intera economia che deve cambiare. Al centro devono tornare i bisogni non più ridotti al ruolo di mezzi assoggettati al valore di scambio. Deve diventare centrale il valore d’uso che è l’espressione e la manifestazione dei bisogni. In questa prospettiva i bisogni non possono essere definiti come illimitati. In questa visione i bisogni sono storicamente e culturalmente determinati e quindi conoscono il bisogno del limite e della regola entro la quale si soddidfa il desiderio. Conoscono i limiti delle compatibilità ambientale e della giustizia e equità sociale. A tutti devono essere garantiti i bisogni assoluti nella giusta quantità e nella massima quantità coerente con la sostenibilità ambientale. Lo Stato e l’ordinamento pubblico in generale devono garantire direttamente o indirettamente questi bisogni: cibo, vestiario, casa, istruzione, salute, lavoro, previdenza. I bisogni relativi come bisogni privatisti del superfluo, come strumenti di distinzione sociale devono essere ridimensionati fino quasi alla scomparsa. Il bisogno di distinzione sociale deve essere riassorbito (non cancellato) dentro bisogni assoluti e consumi collettivi che non generino uniformità ma promuovano individualità e singolarità, capacità e libertà. (Amartya Sen lo chiamerebbe Lo sviluppo come libertà). Oppure e insieme il bisogno di distinzione può essere recuperato dentro una dialettica di spazio pubblico e di democrazia diretta e partecipata che non soffochi le diversità e le differenze.
Un complessivo ridimensionamento dei bisogni relativi, o meglio la centralità dei bisogni assoluti, dovrebbe conseguentemente rendere impossibile ogni forma di consumismo come strumento (ultralogoro) di ripresa economica, e che serva ad assorbire ogni incremento di produttività generato dall’innovazione tecnologica. L’insieme combinato di rilancio dei beni assoluti (che nel breve periodo deve essere un volano di contenimento della crisi) e degli effetti dell’innovazione tecnologica non possono che portare nel medio periodo a problemi di liberazione dal lavoro. Se si mantiene al centro dell’economia che verrà, l’obiettivo della qualità della vita, il lavoro non potrà che assumere un carattere centrale, avente un suo valore in sè, fuori da ogni dimensione di reificazione strumentale, o meglio come un’unità di mezzo-fine, in cui la dimensione di estraneazione legata al diventare mezzo non può tradursi in alienazione del sè. Insomma centralità del lavoro vuol dire centralità dell’attività umana come espansione del sè, potenziamente singolare e sociale, autorealizzazione e veicolo di comunicazione non asservita con altri. Se il lavoro diventa allora il bisogno dei bisogni e si identifica con la qualità della vita, non può essere che la liberazione dal lavoro, dovuta ai fattori concomitanti di soddisfazione dei bisogni assoluti (nella direzione della sobrietà) e di innovazione scientifica e tecnologica, si traduca in esclusione ed emarginazione, ovvero in disoccupazione.
Paradossalmente a fronte di una crisi dalla quale non si può uscire rilanciando i consumi relativi (consumismo), se si rifiuta il rischio di un esito (più probabile) morfinico della crisi, di tipo paranoico-depressivo, che ci porterebbe dritti a un fascismo mondiale (ma tra le due guerre il fascismo era la forma-stato dominante), non si può che rilanciare, su scala globale, l’obiettivo di una riduzione generalizzata del tempo di lavoro, che dovrà passare attraverso una redistribuzione del lavoro per lavorare meno e lavorare tutti.