Due luoghi comuni sulla previdenza
Due luoghi comuni dominano la presunzione che la previdenza contributiva sia necessaria: la spesa pensionistica italiana superiore alla media europea e l’incremento dell’età anagrafica che renderebbe insostenibile il sistema.
La spesa pensionistica dell’Italia somma il 51.7% della spesa sociale mentre la media europea totalizza 41.3%. In proporzione al pil è il 12.7% contro il 10.9% della media europea (fonte: Eurostat). Dalla spesa pensionistica però è necessario eliminare il TFR che, in altre nazioni europee può essere equiparato a prestazioni sociali per il sostegno alla disoccupazione, istituto inesistente in Italia. Seguendo le indicazioni di Eurostat, al netto del TFR, la spesa pensionistica si riduce al 45.7% del totale e all’ 11.2% del PIL.
Inoltre, le rilevazioni Eurostat sono effettuate a lordo. In Italia il reddito da pensione è tassato alla stesso modo del reddito da lavoro mentre nella maggior parte delle nazioni europee sono applicate agevolazioni. Calcolando le quote al netto, si renderebbe giustizia della disparità fra spesa pensionistica italiana e del resto d’Europa.
Con la Riforma Dini dell’95 il sistema retributivo è stato modificato diminuendo, nei fatti, l’importo delle pensioni future ed aumentando nel tempo l’anzianità di servizio. Il comma 1 articolo 1 della legge di riforma del 1995 ha come unico obiettivo la stabilizzazione della spesa pensionistica in rapporto al PIL. Dato l’incremento della quota di anziani sulla popolazione, questo significa, banalmente, riduzione dell’importo delle pensioni e aumento dell’età lavorativa. Questo elemento è fortemente gonfiato dallo stato di precarizzazione del lavoro dei giovani che riduce drasticamente le pensioni maturate per quella fascia anagrafica della popolazione.
A conti fatti, già a causa della riforma Dini, la spesa pubblica può aumentare non più di un punto di PIL nell’intorno del 2020, quindi niente di così drammatico da richiedere misure urgenti e draconiane. Se a questo si aggiunge che all’Inps sono stati assegnati impropriamente compiti estranei alla sua funzione, assistenza, CIG, fiscalizzazione degli oneri sociali e sgravi fiscali a favore delle imprese, se ne deduce che la spesa pensionistica è già sotto controllo.
Ciò che rimane è l’impoverimento progressivo della popolazione anziana che è ulteriormente gravato dall’incremento scandaloso del rischio dovuto alla variabilità del mercato finanziario. L’ipotesi secondo la quale il mercato finanziario ha un trend di lungo periodo positivo, è ereditata malamente dalla presenza dell’eteroschedasticità che, in altri termini, significa proprio incremento della variabilità, rischio, nel tempo. Non esiste in letteratura evidenza statistica significativa di trend positivi di lungo periodo. E’ possibile un’alternativa al sistema contributivo che permetta l’ innalzamento delle pensioni minime e la garanzia di una vecchiaia dignitosa? Probabilmente si se si abbandona il rigido paradigma dell’atomizzazione del rischio e del “rendimento” contributivo che, nel tempo, tende a diventare sempre più individuale e sempre meno pubblico a vantaggio di forme private di finanziarizzazione. La contribuzione sociale domestica è assegnata per un terzo al lavoratore e due terzi all’impresa. Ciò privilegia le imprese ad alto fattore di capitale e basso fattore lavoro, il che potrebbe essere un fattore di sviluppo in un economia prettamente industriale ma non in un‘economia di servizi come la nostra. Se le imprese versassero un’imposta parametrata al valore aggiunto, cioè all’incremento del reddito nazionale derivante dalla produzione, sarebbero libere di combinare i fattori di produzione, capitale e lavoro, indipendentemente da distorsioni fiscali. Poiché al lavoratore sarebbe sottratto il rischio previdenziale, implicito nel sistema contributivo, perché avrebbe certezza dell‘importo previdenziale derivante dalla fiscalità generale, anche il lato della domanda ne avrebbe un beneficio derivato dall’incremento della propensione al consumo e innestando così un circuito virtuoso.
Non resterebbe che determinare come distribuire il montante previdenziale fra i percettori ma il cambio di paradigma non è gratis, tutto ciò avverrebbe a scapito delle aree di rendita e invertirebbe il trend sperequativo.
Che danno!