La finanza, il non profit e la crisi
Negli scorsi mesi abbiamo pubblicato su questo stesso sito delle note che mettevano in rilievo cosa stesse succedendo, con la crisi, alle organizzazioni nonprofit e alle istituzioni di microcredito e microfinanza. Oggi cerchiamo di aggiornare tali informazioni sulla base di una serie di notizie tratte da articoli comparsi più di recente sulla stampa internazionale. Ne esce fuori un quadro abbastanza complesso e, tutto sommato, contradditorio della situazione. Non mancano, in particolare, degli sviluppi anche insospettatamente positivi, ma vengono anche alla ribalta dei problemi supplementari per un settore che già fa spesso molta fatica ad andare avanti in maniera accettabile in periodi cosiddetti normali.
Tra le informazioni che vi abbiamo fornito negli scorsi mesi, non sono mancate quelle relative alla nascita e al primo sviluppo delle organizzazioni finanziarie cosiddette peer-to-peer, che riescono a prestare soldi saltando il passaggio dell’intermediazione bancaria e operando di solito via internet. Tra queste, abbiamo ricordato il caso della inglese Zopa e abbiamo descritto le sue modalità di funzionamento. Ora il responsabile dell’organizzazione - in un articolo apparso di recente su Business Week - ci informa che nella seconda metà del 2008, proprio in sostanza grazie alla crisi, il numero dei nuovi soci è salito dell’81% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre il valore dei prestiti è aumentato del 78%. Nel gennaio del 2009, poi, l’ammontare dei nuovi prestiti è cresciuto del 109% rispetto al mese precedente, mentre il numero dei soci è andato alle stelle. Le perdite su crediti si mantengono per la società sul livello dello 0,3% del totale delle somme prestate.
Il fatto è che molti sono disgustati del quadro offerto nell’ultimo periodo dalle banche normali e, d’altro canto, il quadro relativo al costo e alla reperibilità di finanziamenti attraverso strutture come Zopa appare ora molto più favorevole che non quelli disponibili con gli istituti di credito. L’organizzazione sta pensando contemporaneamente ad ulteriori sviluppi sul fronte internazionale e sta puntando in particolare sul Giappone.
Lo stesso fenomeno di crescita dell’attività registrato di recente da Zopa si riscontra anche in altri casi; in Italia la stessa Banca Etica indica nell’ultimo periodo significativi aumenti nei suoi livelli di attività. Stessa situazione in Francia - come ci informa un articolo di Le Monde - che riferisce anche degli sviluppi recenti dell’attività dell’ADIE, che aiuta i disoccupati del paese a creare la loro impresa. Essa ha già sostenuto il reinserimento sociale di circa 65.000 persone ed è patrocinata anche da Yunus. Come è noto, quest’ultimo sta anche programmando l’apertura anche in Italia di una filiale della sua Grameen Bank.
L’Economist registra invece il fatto che, mentre molti potevano pensare che le istituzioni di microcredito e microfinanza, visto anche il loro stretto collegamento con l’economia reale, non sarebbero state toccate se non marginalmente dalla crisi, la realtà si sta purtroppo mostrando come sostanzialmente diversa. Molti dei fondi ricevono risorse internazionali e mentre le istituzioni pubbliche come l’International Financial Corporation del gruppo della Banca Mondiale continuano a fornire dei finanziamenti in maniera stabile, i budget per gli aiuti allo sviluppo dei paesi sviluppati si stanno riducendo. A questo riguardo ricordiamo il caso dell’Italia, portata ormai come l’esempio più negativo nel settore. Male sembra andare anche la situazione per quanto riguarda gli investitori privati; alcune grandi banche si stanno semplicemente ritirando dal settore.
Un problema particolare appare costituito dal rifinanziamento dei debiti già in essere. La gran parte delle istituzioni del settore ha in essere prestiti con scadenza ad uno-due anni e si valuta che tende a profilarsi un gap potenziale di rifinanziamenti per circa 1,8 miliardi di dollari entro i prossimi 18 mesi. Intanto, i costi degli stessi finanziamenti stanno crescendo fortemente –sino a quattro punti e mezzo in alcuni casi. Infine, sta inevitabilmente aumentando la percentuale degli insoluti; essa sta passando, secondo un’analisi dell’IFC, dall’1,2% medio prima della crisi sino al 2-3% ora. Certo siamo ancora in un territorio relativamente gestibile, ma cosa succederà nei prossimi mesi, si chiede il settimanale britannico, se la crisi continuerà a mordere?
A proposito della Gran Bretagna, una nota del quotidiano Guardian sottolinea come, a seguito delle difficoltà in atto, le donazioni da parte delle imprese verso il settore degli enti di beneficenza e di volontariato dovrebbero diminuire quest’anno, secondo attendibili previsioni, di circa 500 milioni di sterline, circa un terzo della somma stanziata nell’anno precedente. Molti dei tagli vengono dal disastrato settore finanziario e vengono giudicati come una necessità degli organismi interpellati. Si sta peraltro cercando di sviluppare, da parte di numerosi enti, qualche forma di sostegno alternativo al settore.
Un recente articolo del New York Times registra invece un fenomeno nuovo originato negli Stati Uniti dalla crisi e contemporaneamente dall’incitazione di Obama agli americani perché essi svolgano opera di volontariato a favore dei servizi sociali. Così un mare di banchieri, pubblicitari, uomini di marketing, contabili, lavoratori comuni, tutti ora disoccupati, per spirito di servizio o semplicemente per la voglia di passare in qualche modo il molto tempo libero ora a loro disposizione, si stanno precipitando negli uffici delle organizzazioni nonprofit per offrire i loro servizi. Molte di tali organizzazioni da una parte sono pronte ad accettare molto volentieri questi nuovi arrivi, dall’altro devono però lottare con il taglio dei fondi pubblici e privati alle loro attività. Molti nuovi volontari sperano, tra l’altro, che un giorno il loro lavoro non pagato si possa trasformare in un’attività remunerata. D’altro canto, di nuovo l’Economist riferisce che, sempre negli Stati Uniti, il mondo delle associazioni filantropiche è soggetto in questo periodo ad almeno tre tipi di attacchi: da una parte, come già accennato, la recessione sta avendo il risultato di ridurre le donazioni e i prestiti alle organizzazioni nonprofit; intanto nel budget preparato da Obama per il nuovo anno è prevista la riduzione delle deduzioni fiscali sino ad oggi concesse ai contribuenti che, guadagnando più di 200.000 dollari all’anno, fanno delle donazioni alle organizzazioni caritatevoli; infine, si manifesta una pressione politica crescente ad imporre anche a tali organizzazioni delle quote su base razziale e di genere per quanto riguarda l’occupazione da loro generata e persino con riguardo ai beneficiari dei loro programmi di assistenza.
L’Observer del 22 marzo ci informa infine che purtroppo, almeno in Gran Bretagna, i fondi di investimento etici stanno ottenendo risultati economici mediamente peggiori di quelli dei fondi normali. Negli ultimi 12 mesi sino alla fine di febbraio 2009 essi hanno presentato un rendimento medio negativo del 30%, contro il -25% per i fondi non etici. Un risultato non molto dissimile si ottiene se si guarda ai risultati degli ultimi tre anni. I problemi sembrano da ricollegare, da una parte, al fatto che i fondi etici escludono dai loro portafogli i titoli cosiddetti “difensivi”, quali i farmaceutici, il tabacco, certe “commodities” che si comportano meglio della media in periodi di difficoltà come questo; dall’altra, al fatto che i fondi etici puntano più frequentemente degli altri ad investire in piccole e medie imprese che in periodi di crisi presentano risultati peggiori di quelle grandi; inoltre, i risultati certamente non soddisfacenti sono da collegare al fatto che i fondi etici sono meno flessibili e tendono a mantenere più a lungo in portafoglio gli investimenti in certi titoli, anche quando sarebbe il caso di cambiare.
Comunque ci sono alcuni fondi etici che continuano ad avere ottimi risultati. Nel commento alle cifre si afferma in ogni caso che tali fondi dovrebbero ottenere buoni risultati nel lungo termine.