Gli strumenti derivati e il panorama economico internazionale
Pubblichiamo il primo dei contributi di accompagnamento al seminario organizzato per la Fisac Cgil. E’ il testo di introduzione e contestualizzazione che il prof. Vincenzo Comito userà come canovaccio della propria relazione. Il documento è molto lungo e approfondito quindi ne anticipiamo i primi due punti (crisi finanzaria e crisi economica) e alleghiamo il pdf con licenza copy left.
1. Le cause della crisi e le vie per superarla
1.1. Due tesi contrapposte
Non si registrano che sostanzialmente due tesi, sia pure con alcune loro varianti, sulle ragioni della crisi economica in atto e sulle conseguenti possibili vie per uscirne (si veda, in proposito, ad esempio, Dockès, Lorenzi, 2009). La prima, che potremmo qualificare come liberista, vede in questa, come del resto in altre difficoltà passate, semplicemente un momento classico del ciclo economico; si tratterebbe, in altri termini, di una crisi congiunturale ordinaria, anche se severa. Essa sarebbe da collegare ad un momentaneo cattivo funzionamento della sfera monetario- finanziaria, originato a sua volta dagli eccessi di liquidità. La stessa crisi rivestirebbe, da questo punto di vista, un ruolo regolatore: essa ripulirebbe il mercato dalle scorie che vi sarebbero presenti e permetterebbe alla fine una nuova partenza della macchina. Noi quindi, secondo questa tesi, viviamo in un periodo temporaneo di difficoltà, nel quale il ruolo dello stato deve essere quello di far fronte alle lacune contingenti del mercato, aiutando in particolare il settore finanziario a ripartire. Lo stesso potere pubblico deve essere pronto a ritirarsi dalla scena appena si manifesteranno i segni della ripresa, cosa quest’ultima che non dovrebbe mancare di accadere in un arco di tempo ragionevole. Per altro verso, come sottolinea ad esempio M. Sorrell (Sorrell, 2009), se il crack era in un certo senso inevitabile, così il pendolo dell’economia ora oscillerà nell’altra direzione.
Per la seconda tesi, molto più radicale, invece, il principale fattore della crisi sarebbe costituito dall’esaurimento del modello economico che aveva funzionato negli ultimi decenni e che chiameremo per comodità di tipo consumistico. La crisi del modello dovrebbe essere posta in relazione ai problemi di una ineguale distribuzione del reddito e della ricchezza sviluppatisi nell’ultimo periodo e alla conseguente spinta al sovraindebitamento delle classi medie e popolari per far fronte alla mancata crescita dei loro redditi.
In effetti, tutti gli indicatori mostrano che negli ultimi decenni la parte delle ricchezze mondiali che andava ai profitti è fortemente aumentata, mentre diminuiva fortemente quella che andava ai salari e stipendi. Come ha affermato qualcuno, si è verificata una specie di lotta di classe dei ricchi contro i poveri. In particolare, in alcuni paesi tale processo ha scavato più a fondo e le classi medie e popolari degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, hanno cercato di mantenere il loro tenore di vita attraverso un aumento, sotto varie forme, dei livelli di indebitamento. Tali problemi sarebbero resi possibili ed anche ampliati, seguendo la seconda tesi, dagli squilibri in atto tra i vari paesi del mondo a livello commerciale, economico e finanziario, con l’affermarsi a suo tempo di una situazione in cui alcuni stati “dissipatori”, e segnatamente Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, si sono contrapposti ad altri stati “virtuosi”, e in particolare a Cina, Germania, Giappone; inoltre, si sarebbe contemporaneamente registrata la tendenza della finanza ad assecondare ed anzi ad allargare in maniera perversa tali squilibri, trovandone un rilevante tornaconto. Tale opera di assecondamento è stata resa possibile dall’abbondanza di risorse finanziarie disponibili sui mercati grazie al fatto che paesi come Cina, Giappone, paesi arabi, hanno riciclato verso l’area del dollaro grandi risorse.
Per altro verso, quindi, alla fine quella a cui siamo di fronte non sarebbe una crisi finanziaria, o prevalentemente finanziaria, come almeno sino ad un certo punto si era pensato; si tratterebbe invece di un fenomeno che affonda le sue radici nel modello distorto di sviluppo che era in atto da tempo nell’economia mondiale.
1.2. Indicazioni per un superamento delle difficoltà
Accettando, come fa l’autore di queste note, la seconda tesi, dal momento che si tratterebbe quindi di una crisi sistemica una soluzione adeguata non potrebbe che essere strutturale e globale. Essa dovrebbe essere innescata varando dei programmi credibili su almeno quattro fronti:
1) prima di tutto, si dovrebbe ristrutturare il settore finanziario, risanando i bilanci delle banche da una parte, dettando nuovi obiettivi e nuove regole di funzionamento alle istituzioni del settore dall’altra. Nel lungo termine, peraltro, bisognerebbe anche darsi un programma di definanziarizzazione dell’economia;
2) inoltre, apparirebbe necessario far ripartire la domanda. Quella privata, in alcuni paesi in particolare, è sostanzialmente bloccata da un enorme cumulo di debiti pregressi che bisogna comunque ragionevolmente lasciare “decantare” per alcuni anni. Quindi, non si può che accettare l’idea che si avvii invece un diverso modello di crescita (Elliott, 2009). Quello che si può e si deve fare a questo proposito è, da una parte, trovare la strada migliore per procedere ad una ridistribuzione del reddito a favore delle classi medie e popolari, dall’altra spingere sulla domanda pubblica, attraverso un grande programma di investimenti mirati. Qualcuno ha parlato a questo proposito di un green new deal;
3) bisognerebbe poi avviare un processo di cooperazione internazionale in modo da risolvere consensualmente i problemi creati dagli sbilanci commerciali, economici, finanziari, esistenti tra i vari paesi. Parallelamente, andrebbero ristrutturati in profondità gli organismi di governo dell’economia e della finanza mondiali;
4) Infine e in specifico, ancora nell’ambito del punto precedente, sarebbe necessario trovare il modo di aiutare i paesi più vulnerabili, in particolare le economie emergenti, a resistere alla tempesta e a trovare la via di un adeguato finanziamento dei loro programmi di sviluppo.
In realtà, nelle ultime settimane, da varie fonti si tende ad affermare che si vede la luce in fondo al tunnel, che cioè l’economia starebbe lentamente riprendendosi. Analizzare in tutti i dettagli necessari questa ipotesi richiederebbe molto spazio; in questa sede ci limitiamo ad affermare che sicuramente il mondo, sino ad oggi non è andato molto avanti nell’affrontare i quattro temi sopra elencati. Riteniamo quindi che se si delineasse in qualche modo una ripresa, evento al momento relativamente poco probabile, essa sarebbe molto modesta e soprattutto sarebbe piena di contraddizioni che porterebbero ad una nuova e forse più grave crisi in un arco di tempo abbastanza breve. Vogliamo in ogni caso ricordare che di solito, quando una crisi congiunturale di una certa ampiezza viene superata, perché il mercato del lavoro ritorni grosso modo alla situazione precedente passano in media intorno a un paio d’anni.
1.3. L’Europa e la crisi
La crisi ha certamente avuto la sua origine e il suo primo sviluppo negli Stati Uniti, ma essa si è poi trasmessa abbastanza rapidamente all’Europa attraverso vari vettori:
- da una parte, intanto, circa la metà dei titoli tossici emessi da istituzioni finanziarie statunitensi è finita successivamente nei forzieri delle banche di altri paesi, e in particolare di quelle europee;
- in relazione anche a questo fatto, molte banche del nostro continente, che manifestavano già dei segni di difficoltà, sono state fortemente coinvolte nella crisi;
- la rarefazione del credito alle imprese e ai privati conseguente alla crisi delle banche e a quella dei mercati - il commercio internazionale e gli investimenti diretti all’estero, ad esempio, sono in caduta libera - hanno poi portato alla crisi dell’economia reale anche in Europa; a sua volta le difficoltà dell’economia reale vanno retroagendo progressivamente sul sistema finanziario. Si è così scatenato un processo di causazione circolare tra economia reale e finanza, che tende a portare sempre più in basso il ciclo economico;
- particolarmente colpiti sono stati quei paesi che, per varie ragioni, presentavano un rilevante livello di indebitamento: stati dell’Europa Centrale e Orientale, Irlanda, Islanda, ecc.; in specifico, le banche europee avevano prestato in maniera forsennata all’Europa Centrale ed Orientale e scoprono ora che tale area è diventata sostanzialmente un secondo subprime. Così l’Europa si è trovata presa tra due fuochi, tra la crisi americana da una parte e quella dell’Europa dell’Est dall’altra;
-infine, dovrebbero soffrire di più quei paesi che, come il nostro, già arrancavano con molta fatica prima della crisi.
I mezzi messi sul piatto dai paesi europei per combattere le difficoltà non sono stati certamente all’altezza dei problemi. E’ vero che il modello sociale europeo sta contribuendo ad attenuare alcuni degli effetti peggiori della crisi e che il sistema bancario europeo è alla base, con qualche eccezione, molto più solido di quello statunitense, ma questo certamente non basta. La politica di rilancio si è aggirata, almeno sino a questo momento, soltanto intorno all’1,5% del pil per i paesi dell’Unione monetaria, con la Francia al disotto della media e l’Italia praticamente a zero, contro percentuali ben più significative per quanto riguarda Stati Uniti, Cina ed ora anche Giappone. Inoltre, pochi degli stanziamenti provengono direttamente dall’Unione, mentre la gran parte è stata approntata dai singoli stati. Va inoltre sottolineato che le idee dei vari paesi dell’Unione quanto ai contenuti specifici dei piani di rilancio sono molto diversi l’uno dall’altro.
Un aspetto della questione che bisogna considerare è quello che, come ci ricorda M. Aglietta (Aglietta, 2009), dal 1980 ad oggi di solito nei periodi di congiuntura negativa gli Stati Uniti vedono la loro economia scendere più in basso di quella europea, ma poi essi risalgono la china anche più velocemente. Comunque, questa volta l’economia europea si contrarrà del 3-4% ed anche più nel 2009, probabilmente più o meno come quella degli Stati Uniti, mentre la disoccupazione si fisserà alla fine dell’anno ad oltre il 10% della forza lavoro del continente. L’Europa è di solito più lenta a ripartire di altre aree perché essa soffre di alcuni mali congeniti: inerzia delle politiche economiche nazionali da una parte, incapacità totale ad un’azione collettiva dall’altra. Per quanto riguarda l’Italia si può azzardare la previsione di una riduzione del pil nel 2009 intorno al 5%.
2. La crisi della finanza
2.1. Aspetti generali
Si può dire che per molto tempo, almeno dal periodo del New Deal sino, grosso modo, alla metà degli anni settanta del secolo scorso, l’attività finanziaria appariva sostanzialmente orientata al servizio dell’economia reale, nell’ambito di un modello più complessivo di sviluppo economico e produttivo noto come sistema fordista. A questo proposito bisogna ricordare che sin dalla notte dei tempi l’area finanziaria può rivestire, da una parte, una funzione di servizio al mondo dell’economia reale, dall’altra quella di attività orientata su se stessa, attenta soprattutto alla speculazione.
E’ necessario peraltro sottolineare che non è semplice separare in maniera netta il primo aspetto dal secondo e come essi siano strettamente legati tra di loro. Già Keynes ricordava come se dalla borsa fossero eliminati i fenomeni speculativi, tale organismo cesserebbe di esistere e non potrebbe più svolgere la sua attività di supporto alle imprese e alle altre istituzioni. Ciò nonostante, è possibile ricordare che in certi periodi prevale il primo aspetto, in altri, come è accaduto recentemente, l’altro. Oggi si registra una evidente sconnessione della finanza dalle attività produttive. Da ultimo, poi, non solo la finanza si è resa ampiamente autonoma dall’economia reale, grazie ai processi di deregulation, di innovazione finanziaria e a sistemi di controllo quasi inesistenti, ma da un certo punto in poi essa ha cominciato nella sostanza a governare dapprima le imprese- attraverso, in particolare, un mutamento nella composizione dell’azionariato e i meccanismi di borsa-, poi anche le economie dei vari paesi.
Il capitalismo e la finanza hanno voluto alla fine emanciparsi anche dalle istituzioni politiche, giustificando così in qualche modo la definizione che in particolare dava lo scrittore statunitense T. Wolfe nel suo libro “La fiera delle vanità” delle banche di investimento Usa, che egli pensava fossero diventate i veri padroni dell’universo. Per altro verso, i finanzieri hanno potenziato il loro ruolo di grandi contributori alle casse dei partiti politici, negli Stati Uniti come in Gran Bretagna. La finanza, in generale, è diventata la punta avanzata e insieme anche il simbolo stesso del sistema capitalistico deregolamentato e globalizzato.
Inoltre, in termini generali, un dato di fondo che caratterizza il capitalismo attuale è quello che i mercati finanziari si concentrano, di volta in volta, su certe attività specifiche: una volta si può trattare della Borsa, un’altra delle materie prime, poi del settore immobiliare – come è stato fondamentalmente il caso nell’ultimo periodo-, del petrolio, ecc.. Essi contribuiscono così a far crescere i valori di tali beni oltre il ragionevole, cosa che avviene anche, tra l’altro, attraverso la concentrazione del credito bancario in tali settori. “ …Ci si butta a capofitto sulle nuove opportunità di guadagno in modo così strettamente prossimo all’irrazionalità da potersi considerare maniacale…” (Kindleberger, 1989). L’euforia finanziaria sposta anche di frequente risorse importanti dagli investimenti produttivi verso la borsa e, più in generale, la speculazione.
Si passa dunque di bolla in bolla, perché tale sistema non ha dei meccanismi di autoregolamentazione interna, anzi il crescente orientamento dei mercati e degli operatori su di un orizzonte di breve e brevissimo termine accentua i movimenti verso l’alto e verso il basso (Aglietta, 2007).
Nei periodi di euforia non si vogliono vedere i rischi. Mentre in tale congiuntura le banche alimentano oltre misura, con il credito, il boom speculativo - tutte le crisi anche recenti, compresa quella del 1929, nascono, in termini generali, da un eccessivo indebitamento di qualcuno, privati, banche, imprese, governi-, quando la congiuntura tende a cambiare esse cercano di rientrare bruscamente dalla loro esposizione, tagliando lo stesso credito e aggravando fortemente così le difficoltà del mercato.
Tenendo conto di questo fenomeno, come è noto, Minsky (Minsky, 1982) ha già da molto tempo definito il ruolo degli istituti di credito come quello di “destabilizzatori endogeni”.
Bisogna, infine, ricordare che il peso delle attività finanziarie rispetto ai dati dell’economia reale è cresciuto nel tempo in maniera esponenziale, mentre la quota dei profitti complessivi prelevata dal sistema finanziario non ha cessato anch’essa di aumentare nell’ultimo periodo. Lo stock totale di attività finanziarie era nel 1980 pari grosso modo come importo al pil degli Stati Uniti; nel 2007 il rapporto era salito a tre ad uno (Mason, 2008). La quota dei titoli del settore finanziario sul totale del valore di tutti i titoli quotati alla borsa di New York è passata dal 5,2% del 1980 al 23,5% del 2007. Negli anni 60, sempre negli Stati Uniti, i profitti prima delle tasse delle società finanziarie erano pari al 14% dei profitti complessivi delle imprese del paese; nel 2007 essi avevano ormai raggiunto la quota del 39% (Mason, 2008). Si è verificata così una tendenza che già alcuni decenni fa qualcuno aveva intravisto (Magdoff, Sweezy, 1983) ad una finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale, in relazione anche ad una tendenziale stagnazione dell’economia reale.
Più in generale, i maggiori stimoli all’economia sono venuti negli ultimi dieci anni non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi, quali la Gran Bretagna e la Spagna, dai settori indicati sotto la sigla FIRE (finanza, assicurazioni, attività immobiliari), oltre che dalla crescita della spesa militare negli stessi Stati Uniti (Foster, 2008). Uno strumento fondamentale dell’espansione del campo della finanza negli ultimi decenni è stato quello dell’innovazione di prodotto e di processo. Di solito, l’innovazione è spesso, anche correttamente, invocata come un mezzo per favorire lo sviluppo economico di un paese, di una regione e quello delle singole imprese; ma in questo caso essa è diventata uno strumento fondamentale di ogni licenza, di ogni eccesso speculativo, in quel Far West senza regole che, soprattutto negli Stati Uniti, era diventato il settore finanziario nell’ultimo decennio (Spaventa, 2008).
Ma, alla fine, la crisi ha mostrato come la finanza, lungi dalla pretesa di governare il mondo, non riusciva più a governare neanche se stessa ed ha riproposto anche drammaticamente il problema del governo complessivo del sistema. Di fatto i mercati e le istituzioni finanziarie sono, tra l’altro, dei sistemi sociali strutturalmente instabili ed essi non sanno né regolarsi, né stabilizzarsi, né darsi una legittimità propria (Rodrick, 2008); da sempre lo stato deve giocare un ruolo importante nel settore perché esso sia più sicuro.
2.2. L’innovazione finanziaria e i rischi dei consumatori
Trenta anni fa un tipico consumatore statunitense aveva un mutuo immobiliare a tasso fisso, una tranquilla polizza sulla vita, un normale conto in banca e un piano pensionistico a prestazioni definite pagato dall’impresa in cui lavorava. Oggi l’innovazione finanziaria ha cambiato tutto: lo stesso consumatore avrà magari un mutuo a tasso variabile con incorporata un’opzione, un piano pensionistico in gran parte finanziato da lui stesso e comunque con gli eventuali benefici legati ai rendimenti dei titoli in cui le sue risorse sono investite, una linea di credito garantita dal valore della sua casa e, nel migliore dei casi, un conto di risparmio per le spese sanitarie (Laise, 2008). Molte delle clausole incorporate poi in tali prodotti sono spesso molto complesse ed inintellegibili.
In sostanza, i rischi, prima sopportati dalle grandi banche e dai datori di lavoro, ora sono in gran parte scaricati sugli stessi consumatori. Questi ultimi devono, in particolare, tenersi sulle spalle i rischi relativi alle fluttuazioni nei tassi di interesse, all’aumento dei costi delle spese mediche, alle oscillazioni dei valori di Borsa e alla eventualità di vivere più a lungo di quanto previsto dagli schemi pensionistici. E tutta l’operazione è tranquillamente passata con la giustificazione che in tale modo i consumatori avrebbero ottenuto di prendere in mano il potere di controllare meglio una gamma di rischi in forte crescita. Nel frattempo, i nuovi prodotti hanno creato dal nulla una montagna di commissioni per miliardi di dollari a favore di Wall Street ed hanno contribuito a spingere verso l’alto il suo sviluppo (Laise, 2008). Ora, molti dei prodotti sopra elencati stanno esplodendo
Vorrei in particolare sottolineare a questo punto un tema che interessa anche il nostro paese e lo stesso sindacato: l’introduzione dei fondi pensione pone una grande e insanabile contraddizione: appare molto difficile conciliare gli obiettivi della tutela dei soldi dei lavoratori con quelli della speculazione finanziaria… [continua nel documento allegato]