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Nulla è veramente economico

11 novembre 2009 0 commenti

cheapLe piazze italiane sono vuote. Vuoti i cinema, le chiese, gli stadi… sono andati tutti al supermercato e all’outlet: una parola magica sulle insegne delle città, il luogo dove oggi ferve la vita sociale, tutti alla rincorsa dello sconto. Famiglie in vacanza, tutti i giorni, tutti i fine settimana, in questo mondo di plastica e di saldi, liquidazioni, sconti perenni. Per permettere all’impoverito di pensare di copiare il ricco.

Il proletario ne ha, infatti, ampiamente “piene le balle” di essere tale, e soprattutto le ha piene delle umiliazioni che derivano dal falso confronto e dai confronti coi più ricchi. Materialmente più ricchi. Da qui la voglia, la necessità di vivere – anche per il ceto medio/piccolo borghese - al di sopra delle proprie reali possibilità. Con la foto della classe sociale che sta sopra di luidavanti agli occhi. Questo è il modello in cui viviamo.

Ed è facile. Basta far credere che la realtà è come una coda. Ogni persona è il nemico di quella che la precede. Poi riempire gli oulet, i supermercati è un attimo. La rincorsa al costo più basso possibile non parte dalla crisi economica di questi ultimi due anni. Il più delle volte questa gara comporta un decadimento complessivo di qualità, valori e professionalità, questi sconti si traducono in lavori precari, bassi salari, indebolimento delle lotte e conquiste sociali per non parlare di sprechi e inquinamento.

Lo sconto attrae e poi oplà si scoprono appunto delocalizzazioni produttive, maggiori costi ambientali. E via al 3×2 di cose che non ti servono, di acquisti gonfiati perché c’è l’offerta irripetibile, e si ripete sempre, di andiamo là che diverse cose sono in promozione e poi esci anche con altre 30 che non lo sono, anzi. E questa corsa, questo trotterellare per “settimane del sottocosto” ci inibiscono la cultura, la virtù del risparmio. Se sono invaso da banchi strabordanti e prodotti apparentemente equivalenti il prezzo diventa il parametro unico o almeno decisivo.  E allora, stop, buio, lo sconto il prezzo ,99 diventa il fine, il motore, l’ipnotico mantra.

Ci farebbe bene quindi leggere: “Cheap: The High Cost of Discount Culture”, il saggio di Ellen Ruppel Shell, docente alla Boston University. Dove emerge che nulla è veramente economico, perché noi consumatori non abbiamo un’idea di quanto costi quel che compriamo. La politica dei prezzi usata dai colossi della grande distribuzione è una raffinata manipolazione della psiche, un torbido gioco degli specchi e delle illusioni. E’ stato analizzato, viene insegnato dai guru del marketing ai direttori di supermercati e outlet, si vede negli spot televisivi. Già la sola posizione di prezzi o merce influenza i nostri acquisti. L’aspettativa di un buon affare fa scattare una vera e propria molla nei nostri cervelli. I  colori delle etichette, gli strilli degli sconti, governano il nostro comportamento di spesa in modi che non sospettiamo neppure. E’ stato studiato che in un super è altamente probabile l’acquisto di un prodotto in offerta speciale anche se il prezzo in realtà è superiore al prezzo normale praticato da una catena concorrente. Scatta, con lo sconto, la nostra voglia d’acquisto. Ci basta lo specchietto della differenza tra prezzo pieno e  prezzo scontato. Ci fa credere al guadagno. Ecco la nascita come funghi,a avvelenati, di sempre più outlet. E sempre più concentrazione di colossi della distribuzione. Che significa, tra l’altro, un aspetto non secondario, la capacità sovente di “dettare il prezzo”.

Auchan, Carreffour, Esselunga e Coop, per fare un esempio al riguardo, ne sono un esempio. Le quattro centrali d’acquisto delle quali si servono rispettivamente questi colossi, controllano da sole il 70% del mercato. (Rinascita – Auchan; Intermedia 90 – Carrefour; Esd Italia – Esselunga;  Finiper – Unes coop). Cioè hanno il potere di dettare il prezzo alle estremità della catena: produttore, cliente. Negli Stati uniti è stato calcolato che un posto di lavoro creato nella catena Wal-Mart il maggior colosso mondiale corrisponderebbe un calo maggiore, 1,5, di posti di lavoro nei negozi di prossimità, al dettaglio, in termini anche di salario) .

Aumentare del 30% i salari dei lavoratori che, nel Sud del mondo, contribuiscono all’industria dell’abbigliamento aumenterebbe di appena 1,2% il prezzo di un abito che ora acquistiamo nei grandi magazzini o negli outlet. Il costo vero di alcuni nostri acquisti economici lo paghiamo inconsapevolmente noi, con appunto una maggior precarietà sociale, maggior costo ambientale, maggior denaro sprecato in acquisti precedentemente non voluti, prodotti di minor qualità e quindi durata, maggior ricorso a prodotti esteri dove la mano d’opera è più sfruttata. E lo pagano, conseguentemente anche gli operai cinesi, indiani, pachistani coreani che producono molte di queste merci a prezzi imbattibili, come alcuni giocattoli.