Ma cosa vuol dire biodiversità?
Il 23 maggio scorso è stata la giornata della biodiversità. Ma cosa vole dire “biodiversità”? Molti intendono questa parola come un concetto che riassume la diversità di specie animali e vegetali nel loro insieme, ma in essa sono sottintesi significati più ampi. Il primo ad utilizzare “bio-diversity”, sintetizzando insieme “biological” e “diversity” è stato il famosissimo biologo E.O. Wilson nel suo volume “Biodiversity” del 1988, per gli atti del seminario “National Forum on BioDiversity” tenutosi a Washington, D.C., nel settembre 1986 e organizzato dalla Accademia Nazionale delle Scienze e dalla Smithsonian Institution.
Il termine, come ricorda lo stesso Wilson, era stato introdotto durante il seminario da Walter G. Rosen, del National Research Council/National Academy of Science (Wilson e Peter, 1988). Nell’uso corrente questa felice invenzione è diventata poi rapidamente “biodiversity”, senza tratto di separazione, e così in pochi anno l’uso di questa definizione si è esteso molto rapidamente. La diversità specifica è il primo immediato valore da attribuire al termine, ma in esso sono racchiusi anche gli altri livelli della differenziazione biologica: la diversità entro le specie (la variabilità genetica, che è la base della selezione naturale e del percorso dell’evoluzione), ma anche la varietà di ecosistemi presenti sulla terra, non semplici assemblaggi di specie ma insiemi a scala più ampia che sono dotati di proprietà emergenti studiate dall’ecologia (Farina, 2004).
Comunque l’uso così diffuso del termine biodiversità non può dipendere solo da una questione di mode, ma dalla felice capacità di essere evocativo dei molti significati che sono sottesi, e dall’idea di complessità – e al tempo stesso di visione unificante e di sintesi – che emerge da questo raggruppamento non casuale di lettere. Anche se autorevoli comunicatori – come ad esempio Mario Tozzi – non concordano sul suo valore semantico, ritenendo questa parola ostica e poco immediata nella sua versione italiana. Comunque questa visione olistica ed ecosistemica della biodiversità è molto lontana dalla nostra tradizione culturale di vedere la conservazione della natura quasi solo esclusivamente come un problema legato a poche specie particolarmente evidenti da un punto di vista culturale: l’orso, il lupo, gli ungulati selvatici, alcuni uccelli.
Eppure ancora oggi si parla di progetti di conservazione solo per reintroduzioni o “ripopolamenti” di questi taxa, e poco più. Eppure le reintroduzioni sono le più costose e più inefficienti metodologie per conservare le specie, come dimostrato da molti studi internazionali, e pochissime tra quelle iniziate arrivano ad avere un successo che risponda a criteri biologici reali. Spesso i progetti vengono valutati per la loro capacità di impatto sulla comunicazione piuttosto che sull’efficacia nel raggiungere i propri obiettivi di conservazione, ammesso che li definiscano in modo concreto ed esplicito. Non definire con chiarezza un obiettivo permetterà sempre di dire che esso è stato raggiunto…
Più complicato è dimostrare che una reintroduzione si è conclusa con successo in quanto dopo un tempo congruo (almeno vent’anni, perché abbia un minimo di senso biologico) la specie in questione si è insediata su un territorio di un certo numero di ettari con un determinato numero di individui che si riproducono in natura. Quanti progetti attuali di reintroduzione promossi da aree protette contengono queste informazioni e questi impegni nei loro documenti strategici?
E’ interessante comunque chiedersi perché è così difficile parlare di gestione di ecosistemi e di conservazione della biodiversità e così facile parlare di stambecchi e cicogne. E la ragione di questo approccio culturale, molto italiano, è da ricercare anche nell’evoluzione storica del pensiero sulla conservazione, e nella sensibilità filosofica di chi si occupa di questi temi.
Anche la scarsa disponibilità di testi in italiano sul tema della biodiversità (vedi ad esempio Ferrari, 2001) e della conservation biology è un indice di una attenzione ancora limitata, in parte colmata – ma solo nel ristretto mondo degli specialisti – con le azioni sviluppate negli ultimi anni da parte del Ministero dell’Ambiente per compilare un inventario della biodiversità italiana che ha visto la sua più importante realizzazione nella Check-list delle specie italiane (Minelli et al., 1993-1995) e nello Stato della Biodiversità in Italia (Blasi et al., 2005).
Sebbene oggi sia universalmente riconosciuto, più nella letteratura internazionale che nel nostro paese, che il modo più efficace di fare conservazione è un approccio ecosistemico e che quindi le aree protette hanno un ruolo fondamentale con le loro azioni di conservazione in situ di specie e dinamiche ecologiche, anche le azioni indirizzate a singole specie hanno una loro dignità, purché rispondano a determinati requisiti. Ma è opportuno sottolineare che anche le aree protette, nella gestione del loro territorio, devono avere ben chiari i propri obiettivi e utilizzare un approccio strategico ed adattativo.