E’ nato prima l’uovo o la gallina?
Di recente c’è stata una discussione in Aspoitalia riguardo l’origine dell’attuale crisi economica. Secondo alcuni il sistema economico non ha retto alla crescita tumultuosa dei prezzi petroliferi fino al settembre del 2008 e solo il conseguente calo vertiginoso della domanda mondiale ha riportato i prezzi a valori più bassi.
Secondo altri, tra cui il sottoscritto, la dinamica dei prezzi petroliferi ha avuto certamente un ruolo nel provocare la recessione che stiamo vivendo, ma la causa scatenante è stata la crisi finanziaria collegata allo scoppio della bolla immobiliare americana basata sul credito irresponsabilmente concesso dalle banche a cittadini potenzialmente insolventi.
Domenica scorsa, sulle pagine del Sole 24 Ore, un articolo di Riccardo Sorrentino aggiunge alcune frecce all’arco della prima tesi. Sorrentino cita a tale scopo, un’analisi di James D. Hamilton della California University: “Hamilton è stato il primo a stabilire un legame statistico, empirico, tra tutte le recessioni negli Usa e un precedente boom dei prezzi del petrolio. L’ultima crisi non poteva lasciarlo indifferente e, sia pur limitando il discorso ai soli Stati Uniti, ha tentato di dimostrare che l’attuale recessione non fa eccezione alla “sua” regola. Lo shock petrolifero ha innanzitutto ridotto gli acquisti di veicoli: il Pil USA tra ottobre 2007 e settembre 2008 è così aumentato dello 0,75%, ma sarebbe salito dell’1,25% - una crescita lenta, non una recessione – senza la crisi del settore auto, che ha perso 125 mila lavoratori. Poi sono crollate la fiducia dei consumatori e le loro spese. Come è sempre avvenuto. E il settore immobiliare, le sue difficoltà? Hamilton è scettico: “Gli investimenti residenziali hanno sottratto 0,94 punti dalla crescita annua del Pil reale tra ottobre 2006 e settembre 2007, quando l’economia non era ancora in recessione, e soli 0,89 punti nei dodici mesi successivi, quando la recessione ha avuto inizio. E’ chiaro che qualcosa ha trasformato la lenta crescita in recessione.” Senza contare che c’è sempre un’interazione tra lo shock petrolifero e il prezzo delle case.
Il discorso di Hamilton non si ferma qui. Ha conseguenze politiche importanti. A suo giudizio i rialzi del 2007-2008 sono stati causati da un aumento della domanda e una stabilità dell’offerta. Ha anche una spiegazione fuori dal coro per il rapido crollo del greggio da 145 a 40 dollari. Consumatori e aziende avrebbero cambiato abitudini e diminuito in modo più incisivo l’uso di energia in risposta ai rialzi, mentre gli investitori si aspettavano la consueta, lenta riduzione, e hanno spinto i prezzi troppo in alto. Il ruolo del diluvio di liquidità non viene negato, ma diventa un’ipotesi superflua.”
Niente da eccepire con quest’ultima parte dell’analisi, ma mi permetto di confutare la sua teoria panpetrolifera della crisi. Hamilton forse dimentica che, mentre il Pil cresceva lentamente negli Usa, continuava a salire vigorosamente a livello globale trainato dalle economie emergenti di Cina e India. In un certo senso, la crescita lenta delle economie occidentali degli ultimi anni è da attribuirsi proprio alla spietata competizione internazionale di tali economie e forse la spregiudicata finanziarizzazione dell’economia è stato proprio il modo del capitalismo occidentale per tentare di reagire a tale competizione rilanciando surrettiziamente i consumi interni. Inoltre, forse Hamilton sottovaluta anche il ruolo che ha avuto il crollo delle banche sotto il diluvio dei titoli tossici, nella riduzione degli investimenti industriali e la crisi di molti consumatori che, per lo stesso motivo, hanno visto sparire o ridursi in poco tempo il valore dei propri investimenti. Ma, comunque, riconosco che i fattori in gioco si influenzino tra di loro in maniera complessa e che si debbano evitare interpretazioni riduzioniste della realtà.
Su una cosa però non si può che concordare con Hamilton: “se però la crisi è nata da una domanda di petrolio in esplosione e una produzione stagnante, la recessione è allora una cura di breve periodo a un problema che è invece di lungo periodo e che non potrà che ripresentarsi. I policy-makers dovrebbero affrontare queste sfide e non dare tutta la colpa di quanto avvenuto a un’aberrazione del mercato.”