Viva l’Italia
Umberto Bossi ama il turpiloquio e le canottiere. Difficilmente eviterebbe la bocciatura in storia anche in una scuola permissiva come la nostra. Ma forse finge di non conoscere la storia, in perfetto stile machiavellico, tipica prerogativa dei politici italiani.
Il Risorgimento italiano fu fatto in gran parte da uomini del nord, intrisi di ideali di libertà, indipendenza ed eguaglianza che gli italiani moderni educati solo a valori materiali forse stentano a comprendere. Camillo Benso, Conte di Cavour, era un piemontese che faticava a parlare l’italiano, Giuseppe Mazzini era un ligure integerrimo e Giuseppe Garibaldi proveniva addirittura dalla non più italiana Nizza, quando iniziò l’entusiasmante spedizione dei Mille, composta in gran parte da lombardi e piemontesi, per liberare il meridione dal giogo straniero dei Borbone e consegnarlo all’Unità d’Italia.
Il tricolore nacque con la Repubblica Cispadana durante le guerre d’Indipendenza e divenne poi la bandiera della Repubblica Cisalpina e infine quella dello Stato unitario, sventolando in tutta Italia su ogni barricata innalzata contro l’invasore. L’inno musicato dal genovese Michele Novaro, fu scritto nel 1847 da un altro genovese, Goffredo Mameli, nobile figura di patriota morto alla giovane età di 23 anni nella strenua difesa della gloriosa Repubblica Romana. Le sue note risuonarono immediatamente in ogni luogo dove si combatteva per l’Italia, fu cantato poi nelle trincee della prima guerra mondiale dove l’ “inutile strage” annientò un’intera generazione di italiani e distrusse una futura classe dirigente di brillanti giovani ufficiali, echeggiò tra le truppe della Resistenza e delle Brigate Garibaldi che contribuirono a riscattare il paese dalle vergogne e dagli errori del fascismo, fu intonato durante i lavori della Costituente e infine divenne inno ufficiale “definitivamente provvisorio” con la nuova Costituzione repubblicana. Del resto, lo stesso “Va pensiero” verdiano di cui si fregia il “senatur” fu creato per incarnare il sogno patriottico di una sola Italia dalle Alpi alla Sicilia.
E ora, tutte queste speranze, sacrifici e sofferenze dovrebbero essere cancellate per soddisfare il sogno antistorico secessionista di una forza politica miope ed egoistica? Confesso che mi verrebbe di rispondere con un improperio in stile bossiano, ma preferisco una parola tipicamente risorgimentale: “Giammai!”
Purtroppo, una destra e una sinistra senza più radici e valori, invece di condannare incondizionatamente l’ideologia leghista, mostrano invece subalternità culturale e contiguità politica, in nome del potere e di una chimera (anche qui evito a fatica il gergo bossiano) chiamata federalismo e, moderni apprendisti stregoni, già hanno iniziato a pasticciare con la Costituzione. Un’organizzazione federale dello Stato poteva avere un senso nella versione seria di Carlo Cattaneo, al momento dell’Unità d’Italia, in un paese arretrato, con profonde differenze economiche e sociali, con solo il 5% della popolazione che parlava italiano e con strutture amministrative diverse nelle zone degli Stati pre-unitari.
Ma ora, per fortuna, usando un’espressione celebre attribuita a Massimo D’Azeglio, “gli italiani sono stati fatti”. La scuola e la televisione hanno quasi completamente unificato il linguaggio nazionale, profonde dinamiche economiche e sociali hanno integrato socialmente e culturalmente la popolazione italiana, basti pensare ai milioni di emigranti meridionali che con il proprio lavoro hanno contribuito alla crescita economica del nord e del paese, l’articolazione amministrativa dello Stato è ormai collaudata.
Certo, permane negli italiani uno scarso senso dello Stato e un’identità nazionale “debole”, conseguenze di un processo unitario, e non poteva storicamente essere diversamente, portato avanti solo da un’elite, senza l’apporto delle masse contadine indifferenti che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione italiana dell’epoca. Un’analisi delle responsabilità “esterne” di questa situazione richiederebbe troppo spazio. Ma, anche per questo, sarebbe necessario potenziare e non indebolire l’assetto centrale dello Stato, il suo ruolo di programmazione nazionale in un’ottica di collaborazione con il governo locale che garantisca l’unitarietà degli indirizzi generali.
Anche una riflessione critica sulla configurazione amministrativa degli stati dal punto di vista della sostenibilità dello sviluppo, dovrebbe condurre a una rivalutazione dell’importanza dello Stato italiano unitario. Herman Daly, il noto economista ecologista, teorico della stazionarietà dello sviluppo, individua proprio nello Stato nazionale il livello ottimale per una gestione sostenibile delle risorse. Ad esempio, è stato calcolato che l’Italia potrebbe garantirsi solo sull’intero territorio nazionale la quasi completa autosufficienza alimentare. Ed è evidente che proprio la mancanza di un ruolo deciso dello Stato rappresenti uno dei motivi dell’inefficacia attuale delle politiche ambientali.
Concluderei con un suggerimento, la lettura di questo bellissimo articolo di Vittorio Messori sulla “democraticità” della lingua italiana e con un ammonimento, contenuto in alcune parole ancora straordinariamente attuali della seconda strofa dell’inno nazionale: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”.
Il Risorgimento italiano fu fatto in gran parte da uomini del nord, intrisi di ideali di libertà, indipendenza ed eguaglianza che gli italiani moderni educati solo a valori materiali forse stentano a comprendere. Camillo Benso, Conte di Cavour, era un piemontese che faticava a parlare l’italiano, Giuseppe Mazzini era un ligure integerrimo e Giuseppe Garibaldi proveniva addirittura dalla non più italiana Nizza, quando iniziò l’entusiasmante spedizione dei Mille, composta in gran parte da lombardi e piemontesi, per liberare il meridione dal giogo straniero dei Borbone e consegnarlo all’Unità d’Italia.
Il tricolore nacque con la Repubblica Cispadana durante le guerre d’Indipendenza e divenne poi la bandiera della Repubblica Cisalpina e infine quella dello Stato unitario, sventolando in tutta Italia su ogni barricata innalzata contro l’invasore. L’inno musicato dal genovese Michele Novaro, fu scritto nel 1847 da un altro genovese, Goffredo Mameli, nobile figura di patriota morto alla giovane età di 23 anni nella strenua difesa della gloriosa Repubblica Romana. Le sue note risuonarono immediatamente in ogni luogo dove si combatteva per l’Italia, fu cantato poi nelle trincee della prima guerra mondiale dove l’ “inutile strage” annientò un’intera generazione di italiani e distrusse una futura classe dirigente di brillanti giovani ufficiali, echeggiò tra le truppe della Resistenza e delle Brigate Garibaldi che contribuirono a riscattare il paese dalle vergogne e dagli errori del fascismo, fu intonato durante i lavori della Costituente e infine divenne inno ufficiale “definitivamente provvisorio” con la nuova Costituzione repubblicana. Del resto, lo stesso “Va pensiero” verdiano di cui si fregia il “senatur” fu creato per incarnare il sogno patriottico di una sola Italia dalle Alpi alla Sicilia.
E ora, tutte queste speranze, sacrifici e sofferenze dovrebbero essere cancellate per soddisfare il sogno antistorico secessionista di una forza politica miope ed egoistica? Confesso che mi verrebbe di rispondere con un improperio in stile bossiano, ma preferisco una parola tipicamente risorgimentale: “Giammai!”
Purtroppo, una destra e una sinistra senza più radici e valori, invece di condannare incondizionatamente l’ideologia leghista, mostrano invece subalternità culturale e contiguità politica, in nome del potere e di una chimera (anche qui evito a fatica il gergo bossiano) chiamata federalismo e, moderni apprendisti stregoni, già hanno iniziato a pasticciare con la Costituzione. Un’organizzazione federale dello Stato poteva avere un senso nella versione seria di Carlo Cattaneo, al momento dell’Unità d’Italia, in un paese arretrato, con profonde differenze economiche e sociali, con solo il 5% della popolazione che parlava italiano e con strutture amministrative diverse nelle zone degli Stati pre-unitari.
Ma ora, per fortuna, usando un’espressione celebre attribuita a Massimo D’Azeglio, “gli italiani sono stati fatti”. La scuola e la televisione hanno quasi completamente unificato il linguaggio nazionale, profonde dinamiche economiche e sociali hanno integrato socialmente e culturalmente la popolazione italiana, basti pensare ai milioni di emigranti meridionali che con il proprio lavoro hanno contribuito alla crescita economica del nord e del paese, l’articolazione amministrativa dello Stato è ormai collaudata.
Certo, permane negli italiani uno scarso senso dello Stato e un’identità nazionale “debole”, conseguenze di un processo unitario, e non poteva storicamente essere diversamente, portato avanti solo da un’elite, senza l’apporto delle masse contadine indifferenti che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione italiana dell’epoca. Un’analisi delle responsabilità “esterne” di questa situazione richiederebbe troppo spazio. Ma, anche per questo, sarebbe necessario potenziare e non indebolire l’assetto centrale dello Stato, il suo ruolo di programmazione nazionale in un’ottica di collaborazione con il governo locale che garantisca l’unitarietà degli indirizzi generali.
Anche una riflessione critica sulla configurazione amministrativa degli stati dal punto di vista della sostenibilità dello sviluppo, dovrebbe condurre a una rivalutazione dell’importanza dello Stato italiano unitario. Herman Daly, il noto economista ecologista, teorico della stazionarietà dello sviluppo, individua proprio nello Stato nazionale il livello ottimale per una gestione sostenibile delle risorse. Ad esempio, è stato calcolato che l’Italia potrebbe garantirsi solo sull’intero territorio nazionale la quasi completa autosufficienza alimentare. Ed è evidente che proprio la mancanza di un ruolo deciso dello Stato rappresenti uno dei motivi dell’inefficacia attuale delle politiche ambientali.
Concluderei con un suggerimento, la lettura di questo bellissimo articolo di Vittorio Messori sulla “democraticità” della lingua italiana e con un ammonimento, contenuto in alcune parole ancora straordinariamente attuali della seconda strofa dell’inno nazionale: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”.