Perchè non mi piace la green economy
Il secondo motivo, parzialmente derivato dal primo, è il fastidio per una tendenza tipicamente italiana di scimmiottare acriticamente le mode d’oltreoceano, nella illusoria speranza di adottare comportamenti estranei alla nostra cultura e ai nostri stili di vita. Alberto Sordi e Walter Veltroni sono alcuni dei personaggi che meglio hanno rappresentato questa tendenza.
Il terzo e principale motivo per cui mi da fastidio il concetto di economia verde è che, nella conformista vulgata corrente, di verde ha ben poco, se non una scorza superficiale avvolta intorno a un succo molto convenzionale. Il cuore dell’economia verde sta nella convinzione di poter ridurre i fastidiosi effetti della crescita economica sull’ambiente con l’utilizzo di tecnologie sempre più efficienti. Ho letto di recente su un documento di ecologisti, che “è possibile aumentare la ricchezza riducendo i consumi energetici”. Suvvia, non fate le mammole cari amici ecologisti, non fingete di ignorare quello che sta scritto nelle sacre tavole della Natura. Per le leggi della termodinamica, il rendimento energetico di qualsiasi tecnologia non potrà mai superare il 100%, ed arrivare solo all’80% sarà estremamente difficile se non con costi energetici ed economici sempre più elevati. Quindi, a un certo punto, continuando ad aumentare la ricchezza, verrà un bel giorno che la tecnologia non ce la farà più nemmeno a inseguire la crescita illimitata, lasciandovi tutti con un palmo di naso. Facciamo l’esempio dei trasporti e immaginiamo di sostituire tutto il parco autoveicolare mondiale con auto elettriche. La cosa in sé è già alquanto problematica per vari motivi, tra i quali la disponibilità effettiva delle risorse minerali necessarie a far funzionare le batterie. Ma facciamo finta che questi problemi non esistano, potremmo perciò ridurre di circa il 50% i consumi energetici dei trasporti nel mondo. Siccome la crescita economica mondiale ha caratteristiche esponenziali con tempi di raddoppio di circa 17 anni, è molto probabile che nello stesso tempo la domanda di trasporto individuale trascinata dai paesi asiatici emergenti raddoppierà anch’essa, vanificando il risparmio energetico faticosamente conseguito con una tecnologia più efficiente. E dopo, cari ecologisti, dovrete farvi venire qualche altra buona idea.
Analogamente anche l’economia leggera è secondo me poco più di una trovata propagandistica. Un’economia basata sui prodotti tipici, sui marchi di qualità, sui sapori perduti e sulle piccole e operose comunità locali, non può esistere senza un’economia pesante di consumatori danarosi disposti a comprarsi a suon di quattrini il sogno di una vita genuina a contatto con la natura.
Concludo quindi il tema con la mia proposta alternativa all’economia verde, cioè la yellow economy, chiedo scusa, economia gialla. Come nel semaforo, per me il giallo è il colore del rallentamento, del piede sul freno del motore apparentemente inarrestabile dell’economia. Il simbolo di un’economia stazionaria dove il benessere si misura maggiormente sulla crescita di un bene immateriale come la qualità della vita. Lo sta cominciando a capire persino il conservatore Presidente francese Nicolas Sarkozy, che ha costituito una Commissione guidata da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi con il compito di mettere in soffitta il vecchio PIL sostituendolo con un indice del "benessere pluridimensionale", frutto del mix di otto elementi: le condizioni di vita materiali, la salute, l'istruzione, le attività personali, la partecipazione alla vita politica, i rapporti sociali, l'ambiente, l'insicurezza economica e fisica.
In Italia, Giorgio Ruffolo da tempo predica al vento su questi argomenti e, di recente ha scritto l’ennesimo articolo (leggere anche questo) contro il “PIRL”, nell’indifferenza totale, compresa quella degli ecologisti, tanto “è possibile aumentare la ricchezza riducendo i consumi energetici”.
Il grafico allegato è tratto dal documento di Alberto di Fazio che approfondisce in maniera magistrale le tematiche qui appena delineate.