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Delle cose della guerra

30 marzo 2009 0 commenti


Illustrazione del manoscritto "de rebus bellicis" che risale a circa la metà del quarto secolo a.d., al tempo della battaglia di Adrianopoli; l'inizio della fine dell'Impero Romano. E' una riproduzione relativamente moderna dell'illustrazione originale, ma questa liburna a ruote alimentata da buoi rende bene l'idea delle strambe invenzioni dell'anonimo autore che reagiva con la fantasia meccanica a una situazione difficilissima.

Trovare nell'Impero Romano uno specchio dei nostri tempi è tradizione assai antica, che ha portato anche a stramberie stupide e pericolose, come quella di Mussolini che si credeva erede degli antichi Imperatori. Ma, a parte questo, è vero che ci sono degli elementi comuni nella parabola di crescita e collasso di tutti gli imperi della storia. In un post precedente, ho fatto qualche considerazione sul picco dell'Impero Romano, avvenuto verso la metà del terzo secolo d.c. secondo le testimonianze archeologiche. Mi sono domandato che percezione avessero gli antichi romani della situazione, citando come esempio le memorie di Marco Aurelio e il "De Reditu Suo" di Rutilio Namaziano. In entrambi i casi, gli autori non sembravano rendersi conto delle ragioni di cosa stava succedendo.

Ultimamente, mi è capitato fra le mani un altro documento interessante che ci descrive un mondo al collasso e che somiglia per molti versi al nostro. E' il "De Rebus Bellicis" (delle cose della guerra) scritto molto probabilmente poco dopo la battaglia di Adrianopoli (378 a.d.) che segnò la fine militare dell'impero - anche se la sua fine politica arrivò molto dopo.

Non sappiamo il nome dell'autore di questo manoscritto. Da come scrive, tuttavia, è chiaro che era un funzionario della burocrazia dell'impero che, nonostante la sua enfasi sulle cose militari, quasi certamente non aveva nessuna esperienza sul campo. Anzi, l'interesse di questo manoscritto è proprio nel fatto che non tratta soltanto di cose militari ma ci racconta molte cose su come percepivano la situazione quelli che vivevano in un impero che aveva ormai iniziato la sua traiettoria di crollo finale.

Marco Aurelio, verso la fine del secondo secolo, non percepisce nemmeno che c'è qualcosa non va nell'immenso impero romano del suo tempo. Rutilio Namaziano, nel quinto secolo, vede il disastro intorno a lui ma non ne capisce le ragioni e neppure la portata. Viceversa, il nostro anonimo capisce benissimo che l'impero è allo stremo e che bisogna fare qualcosa per evitare il un disastro. Capisce anche abbastanza bene quali sono le cause del problema e le identifica correttamente con i costi dell'apparato militare, con il decadimento delle strutture governative, e con la minaccia dei barbari (che lui definisce con il pittoresco termine di "circumlatrantes", che abbaiano intorno ai confini). Non è chiaro se identifichi correttamente il fatto che tutte e tre questi problemi hanno la stessa origine: l'Impero Romano era un'organizzazione militare che viveva delle spoglie delle regioni conquistate. Una volta che era stato costretto a difendersi, aveva perso la sua sorgente di sostentamento - nè più ne meno di come la nostra civiltà sta gradatamente perdendo la sua sorgente di sostentamento: il petrolio e gli altri combustibili fossili.

L'anonimo, quindi capisce quali sono i problemi e - probabilmente - si prende anche qualche rischio personale nell'elencarli esplicitamente in un epoca in cui (come in quasi tutte le epoche) criticare i principi è cosa assai rischiosa. Ma quando si tratta di arrivare a proporre delle soluzioni, ahimè, il nostro anonimo parte completamente per la tangente. Non si rende conto che le sue proposte politiche sono improponibili: ridurre le tasse per esempio. Non si rende nemmeno conto che implorare gli amministratori a non rubare è cosa poco efficace. E, infine, quando comincia a proporre soluzione militari, entra in un regno di pura fantasia. E' un dilettante molto ottimista, ma chiaramente un dilettante

Così, il nostro anonimo propone e dettaglia fantasiose macchine belliche: carri falcati, navi da guerra potentissime, balliste a lunga gittata, giavellotti che, se non colpiscono il nemico, lasciano per terra una testa carica di spuntoni che comunque danneggerà i barbari avanzanti. I commentatori hanno fatto notare un dettaglio rivelatore di come questi giavellotti a doppio uso non funzionerebbero se fossero invece i Romani ad avanzare. L'anonimo vede soltanto la necessità di una strenua difesa contro i barbari, "circumlatrantes".

Tutto questo macchinario improbabile ha affascinato a sufficienza i lettori che il manoscritto è stato riprodotto in epoche medievali e rinascimentali cosicché è arrivato fino a noi. Può darsi che abbia influenzato Leonardo da Vinci e, più tardi, Voltaire. Ma né i carri falcati né nessuna delle macchine belliche miracolose dell'anonimo sono mai state costruite. Erano sogni di un dilettante che immaginava di poter salvare in qualche modo un mondo che ormai era condannato a scomparire. In fondo, non è la stessa cosa dell'idrogeno per noi?