Il picco dell’insegnamento
Quando mi chiedono se sono un insegnante, rispondo che, beh, non è il caso di esagerare. Diciamo che certi giorni entro in una stanza buia e ci trovo dei ragazzi seduti. Parlo per un'oretta, loro scribacchiano qualcosa su dei loro quaderni, dopo di che se ne vanno. Se questo voglia dire "insegnare" è cosa aperta al dibattito.
Ormai sono buoni trent'anni che entro in quelle stanzette buie dove ci sono dei ragazzi seduti. Nel tempo, mi sono progressivamente reso conto di come sia perfettamente possibile insegnare (o, piuttosto, pretendere di insegnare) senza aver capito nulla di quello che uno insegna (o pretende di insegnare). Mi sono accorto che alcuni aiuti tecnologici, specialmente il powerpoint, permettono di accumulare tranquillamente ore e ore di lezione (come si dice "frontale") semplicemente leggendo testo scritto sullo schermo senza aver la minima idea, o quasi, di quello di cui uno parla. Ho il vago dubbio che questa situazione non sia tanto poco comune, ma non ho statistiche in proposito - solo aneddotica spicciola che mi raccontano gli studenti.
Insegnare per davvero non è cosa facile. Perlomeno, non è stato facile per me. Credo che sia meglio stendere un velo pietoso sui miei primi tentativi di neolaureato di insegnare la meccanica quantistica che sta alla base del legame chimico. Ma credo, piano piano, di essere migliorato e mi pareva anche che - miracolosamente - qualcuno dei miei allievi anche capisse qualcosa di quello che provavo a spiegare. Forse riuscivo davvero a essere un "insegnante." Non certamente da paragonare a Abelardo da Parigi (e, per fortuna, non mi è mai capitato niente di simile in termini di interesse non professionale verso una studentessa). Ma, insomma, a un certo punto della mia carriera mi è parso di essere moderatamente capace di fare il mio mestiere.
Ho anche l'impressione, però, di essere passato attraverso un qualche "picco dell'insegnamento" diversi anni fa. Mi sono accorto che qualcosa stava andando storto mentre insegnavo (o pretendevo di insegnare) a un laboratorio di esercitazioni di Chimica Fisica. E' stato qui che ho visto per la prima volta una crepa nell'edificio dell' "educazione superiore" che mi ha fatto improvvisamente capire quanto fosse pericolante. E' stato quando un gruppetto di studenti sono venuti a lamentarsi da me perché il manuale di istruzioni di uno degli strumenti che stavano utilizzando era in inglese. Lo volevano in italiano.
Ci sono rimasto di sasso. Sapere l'inglese è una dote fondamentale per un professionista in campo tecnico-scientifico. Se non lo sai, sei come un pianista che non sa leggere la musica: puoi anche fare qualche bello svolazzo alla tastiera, ma non sei un professionista. Che questi ragazzi, ormai al terzo anno di chimica, non avessero chiara questa cosa mi ha spiazzato. Ma era solo l'inizio.
Da buoni dieci anni insegno (pretendo di insegnare) una materia che si chiama "chimica fisica dei materiali". Non ho mai capito esattamente cosa si dovesse intendere con questo astruso titolo, ma l'ho sempre inteso seguendo un'indicazione che mi aveva dato un mio vecchio professore che mi diceva "La chimica fisica è la scienza delle cose interessanti". Così, avevo preparato un corso che conteneva tutte le cose che trovavo interessanti nella scienza dei materiali. C'era una disquisizione sulle astronavi interstellari, una su Mazinga robot, la teoria statistica degli elastomeri e tanta bella meccanica quantistica applicata ai semiconduttori spiegata sulla falsariga delle mitiche lezioni di fisica di Feynman. Mi ci ero impegnato parecchio, scrivendo anche delle dispense.
Bene, questo corso sembra che stia seguendo il destino di un pozzo di petrolio che via via si esaurisce. Piano piano, ha sempre meno pressione e la produzione cala. Ho dovuto tagliarne gran parte, perché semplicemente gli studenti non riuscivano a seguire. Via la meccanica quantistica, via tutte le trattazioni di meccanica statistica. Sempre meno cose, sempre di più un corso di livello liceale; non universitario. E, anche così, agli esami i ragazzi spesso si trovano completamente ammutoliti di fronte a domande che cerchino, anche minimamente, di verificare se hanno capito le cose che hanno letto.
Cosa sta succedendo agli studenti? Colpa della televisione? Dei videogiochi? Di Internet? Di Bin Laden? Ma forse non è colpa degli studenti. Forse è il diluvio di informazioni che ci arriva addosso a tutti che ha spiazzato studenti e docenti allo stesso modo. Al tempo di Pietro Abelardo, i docenti erano depositari di informazioni che solo loro possedevano. Ma oggi, con Internet a disposizione, chiunque può trovarsi sullo schermo a casa proprio più cose e più dati di quanto anche il docente più preparato può fornire. E gli studenti, al tempo di Pietro Abelardo, erano all'università soltanto per farsi una cultura. Ma, oggi, sono li' per farsi un pezzo di carta che poi gli potrebbe servire per la loro carriera o, più probabilmente, per sentirsi dei sotto-occupati mentre lavorano al call center.
E' un paradosso che la nostra società ha sviluppato una sapienza scientifica senza uguali nella storia dell'uomo, ma che questa sapienza rimane comprensibile soltanto a un'elite infinitesimale in termini numerici. Il resto dell'umanità ne è completamente tagliato fuori. Non solo ne è tagliato fuori, ma anche reagisce aggressivamente quando l'elite scientifica pretende di farsi sentire avvisando, per esempio, del pericolo del riscaldamento globale o di quello dell'esaurimento dei combustibili fossili. Questo fallimento nel basare i meccanismi decisionali della società sulla scienza e sul metodo scientifico ci causerà - e ci sta già causando - dei danni spaventosi.
Credo che dovrei finire questo post indicando qualche possibile soluzione per cercare di smuovere il blocco decisionale in cui ci troviamo. Il problema è che non so quale possa essere una soluzione. Forse dovremmo impegnarci di più per divulgare la scienza alle masse. O forse dovremmo lasciar perdere le masse e concentrarci sui "decision makers" (ovvero "parlare all'orecchio del principe"). O forse far rinascere il movimento dei "tecnocrati" come aveva fatto Hubbert ai suoi tempi ("tutto il potere agli scienziati").
In qualche modo, non mi sembra che nessuna di queste possibilità sia molto promettente. Cosa vi posso dire? Quest'anno, comincia un nuovo anno accademico e mi ritrovo di nuovo a iniziare il mio corso. Posso solo provare a fare del mio meglio.