La vecchia Banca Mondiale, e il nuovo Bejing Consensus
La crisi continua a scavare nei rapporti di forza tra i paesi, tra le monete, tra le classi, tra le istituzioni; il mondo che ne uscirà fuori potrebbe essere alla fine abbastanza diverso da quello che conoscevamo. Un caso in specie in proposito è quello che vogliamo qui descrivere brevemente.
Negli ultimi decenni molti anatemi sono stati da tutti noi scagliati - ed a ragione - contro le due istituzioni simbolo del Washington Consensus e dell’architettura finanziaria internazionale, che ingabbiava in un mantello molto stretto i paesi più deboli e comunque quelli che volevano intraprendere mosse coraggiose per uscire dalle difficoltà economiche, finanziarie, sociali, politiche, in cui si trovavano ad operare. Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, le istituzioni varate verso la fine della guerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma la situazione è poi cambiata molto fortemente nel corso degli anni ed oggi ci troviamo di fronte in particolare ad una Banca Mondiale che è solo una pallida copia di se stessa - tanto che viene quasi la voglia di compatirla e pregare per la sua sorte - e ad un Fondo Monetario che, essendo anch’esso passato per un periodo abbastanza lungo di sostanziale irrilevanza, si trova adesso miracolosamente, grazie alla crisi economica, a poter risalire la china, con qualche, sia pure debole, speranza che il suo modus operandi possa cambiare nella sostanza nei prossimi anni. L’attuale presidente è – quale apparente meraviglia!- un socialista e forsennato dongiovanni francese, D. Strauss-Kahn, che sembra almeno in parte, ben intenzionato a cambiare qualcuna delle regole del gioco, anche se la struttura operativa dello stesso fondo è fatta ancora degli stessi funzionari che hanno inventato il sopra citato Washington Consensus e che cercano ancora di mantenerlo in vita con l’ossigeno, come mostranodiversi casi recenti di condizioni draconiane per ottenere dei prestiti imposte ai paesi toccati dalla crisi.
Ma oggi vogliamo parlare soprattutto del primo organismo.
La banca nell’ultimo periodo ha finito per consacrare ogni anno all’incirca soltanto 20 miliardi di dollari ai suoi compiti istituzionali – e nel 2008 soltanto 13,5 miliardi - una frazione delle risorse impiegate invece sino a qualche anno fa. Un problema fondamentale dell’istituto è quello che esso ha dovuto con il tempo fare fronte progressivamente a numerosi e rilevanti problemi:
1) intanto l’abbondanza di liquidità registrabile a livello mondiale e la stessa maggiore ricchezza di molti stati almeno sino ad un paio di anni fa;
2) la concorrenza delle stesse banche ordinarie che hanno invaso il suo territorio;
3) l’attivismo delle banche regionali e sub-regionali;
4) lo sviluppo rilevante di fondi privati alternativi;
5) i fondi pubblici creati dalla Cina, dalle nuove iniziative statunitensi, britanniche, francesi e anche da altri paesi del Sud del mondo;
6) la crescente repulsione che contemporaneamente i paesi asiatici, scottati dalla crisi dagli anni novanta, quelli latino-americani, con le sequele della crisi argentina, nonché molti paesi africani, hanno manifestato nei confronti dell’ideologia e delle pratiche operative della banca.
E lasciamo da parte la ormai insopportabile dominazione statunitense dell’organizzazione e lo scarsissimo peso che vi esercitano i paesi emergenti, che l’assunzione recente di un esperto cinese come capo economista non riesce certo ad equilibrare. Si è sviluppata così una crisi identitaria ed ideologica profonda nell’istituto. Un simbolo di questa crisi è rappresentato da J. Stiglitz, che già vicepresidente dell’organizzazione, non le risparmia da qualche anno le sue dure frecciate. Le difficoltà economiche mondiali dell’ultimo periodo, che, come abbiamo accennato, hanno di fatto rivitalizzato il Fondo Monetario, non sono riuscite invece a portare allo stesso rinnovamento e alla riconquista di un ruolo chiave per la banca. Nella sostanza non si sa veramente che fare dell’istituzione, anche se nelle varie e recenti conferenze internazionali è stato balbettato qualcosa in proposito e l’istituto dovrebbe ora essere in grado di investire un centinaio di miliardi di dollari in tre anni a favore in particolare dei paesi più deboli.
Ma nel frattempo si va profilando all’orizzonte un concorrente molto agguerrito e probabilmente il ruolo già della Banca Mondiale – che era soprattutto quello di finanziare e sostenere importanti progetti di sviluppo nei paesi deboli- sarà ricoperto nei prossimi anni sostanzialmente dalla Cina.
Il paese asiatico ha avviato di recente una politica molto aggressiva in proposito. Così, attraverso la China Development Bank, esso ha prestato in pochissimi mesi all’incirca 50 miliardi di dollari alle società petrolifere nazionali di Russia, Kazakhstan, Brasile, per aiutarle a superare il periodo finanziariamente difficile e sviluppare i loro investimenti. Esso ha inoltre esteso la cooperazione anche finanziaria con Cuba e Venezuela (con quest’ultimo paese gli accordi prevedono dei finanziamenti complessivi per 12 miliardi di dollari). Ha inoltre da poco prestato, tramite la China Exim Bank, ancora 5 miliardi di dollari alla Development Bank del Kazakhstan per progetti nel settore delle telecomunicazioni, dei trasporti, dell’agricoltura e della formazione. E’ invece del 2008 un accordo per 9 miliardi di dollari a favore della Repubblica Democratica del Congo, mirato allo sviluppo delle sue risorse minerarie.
La Cina così, dall’alto delle sue riserve valutarie, stimate ormai come pari a circa 2,4 trilioni di dollari – contro una valutazione ufficiale da parte delle autorità cinesi di soli 1,95 trilioni- e naturalmente seguendo i suoi interessi strategici, in particolare nel settore energetico e delle materie prime, si va imponendo sempre più come la protagonista più importante della finanza per lo sviluppo, accrescendo anche contemporaneamente la sua influenza in alcune istituzioni regionali sempre di sostegno allo sviluppo, quali l’Asian Development Bank e la Inter-American Development Bank.
Invece del vecchio Washington Consensus, avanza così a tutta forza il Bejing Consensus. Non sappiano, per la verità, se le nuove regole saranno migliori o peggiori di quelle di prima; quello che sembra invece plausibile è che esse stanno mutando rapidamente e che in ogni caso sta apparentemente cambiando anche il burattinaio.