Derivati, Fiat-Chrysler e Kazakhstan
Il caso Fiat-Chrisler e le difficoltà del Kazakhstan (grande paese asiatico) per qualche giorno almeno hanno avuto un elemento in comune, il problema dei derivati e in particolare di uno strumento specifico di tale categoria di prodotti finanziari, quello dei cds, ovvero, detto per esteso, dei credit default swaps.
Ricordiamo brevemente che questi cds sono stati a suo tempo sviluppati come strumenti per “assicurarsi”, mediante il pagamento di un premio, contro il rischio di solvibilità del debitore a cui si concedeva un credito, o di cui si acquistavano dei titoli obbligazionari. E’ anche noto che, nati come strumenti di copertura dal rischio di credito, tali prodotti sono poi diventati degli strumenti soprattutto di speculazione, rendendosi del tutto autonomi dalle operazioni sottostanti. Valutando che, ad esempio, una certa impresa poteva fallire, qualcuno, pur magari non avendo alcun credito specifico a rischio, poteva comprare un cds per speculare su tale evento; se poi l’evento si realizzava, si potevano incassare importi anche rilevanti dalla controparte.
Alcuni degli sviluppi recenti della situazione di tali pratiche sono abbastanza significativi.
Così, nel caso della vicenda Chrysler il governo statunitense, d’accordo con il gruppo Fiat, è stato costretto ad adire ad una procedura fallimentare per la casa automobilistica statunitense perché alcuni creditori, rappresentanti soltanto grosso modo del 5% dei crediti totali vantati dal mercato verso tale entità, in particolare alcuni hedge fund, si sono rifiutati di accettare una transazione extragiudiziale che era invece stata recepita dalla gran parte degli stessi creditori. Il punto è che con il fallimento, come sottoscrittori di cds che li coprivano oltre misura dal rischio, essi avrebbero incassato più che non dalla transazione amichevole. Comunque, davanti alla fermezza manifestata dal giudice della procedura, alla fine tali creditori hanno receduto dal loro atteggiamento negativo.
Più grave appare invece la questione nel caso del Kazakhstan.
Si sa che diverse banche del paese, a causa della crisi in atto, hanno dei rilevanti problemi finanziari e che qualcuna di esse è in uno stato di almeno parziale insolvenza. Ora il 40% dei debiti di tali banche sono verso soggetti stranieri, in genere grandi banche internazionali.
Qualche settimana fa, la più grande banca del paese, la BTA, è entrata in una situazione di virtuale fallimento quando la MorganStanley statunitense e un’altra banca internazionale hanno domandato il ripagamento dei prestiti che esse avevano fatto alla banca kazaka e cui la BTA non è stata in grado di adempiere. Appena dopo aver fatto la richiesta alla banca, la Morgan Stanley ha iniziato le procedure formali per incassare i contratti di cds che essa aveva a suo tempo sottoscritto. Ora, se l’ammontare di tali contratti che la banca americana aveva in mano fosse, come si potrebbe ipotizzare, di importo più elevato di quello del credito vantato nei confronti della BTA, la Morgan guadagnerebbe dal fallimento della BTA. La cosa potrebbe avere scarso interesse se la Morgan non potesse influire in alcun modo sul possibile fallimento della BTA. Invece, siccome in questo caso l’azione della banca americana invece ha avuto un effetto decisivo, si può trattare di un brutto caso di moral hazard.
Questo, come altri casi che si potrebbero citare, sottolineano la necessità che i contratti cds debbano poter essere messi in opera soltanto qualora il potenziale contraente avesse un legittimo interesse assicurabile in proposito, mentre dovrebbero essere proibiti quando avessero soltanto fini di tipo speculativo.
Un altro risvolto del caso delle banche kazakhe, in gravi difficoltà in questo momento, riguarda il fatto che alcune delle banche straniere che hanno fatto dei prestiti a quelle del paese asiatico, pur non avendo in mano nessuna garanzia di alcun titolo a tutela dei loro crediti, non stanno soltanto esercitando una pressione furibonda sul governo kazakho per ottenere i soldi indietro, ma stanno minacciando di mettere in atto degli strumenti che affonderebbero gran parte del sistema bancario del paese, se le loro esigenze non venissero soddisfatte.
Va sottolineato che le banche straniere, nel fare i prestiti a quelle del paese, hanno a suo tempo goduto di larghi spread di tasso di interesse rispetto al rendimento dei buoni del tesoro statunitensi, spread che remuneravano appunto il maggior rischio dell’investimento. Qualsiasi investitore avveduto si sarebbe accorto che il boom kazakho, per le sue caratteristiche, non era sostenibile.
Un fatto abbastanza sorprendente e positivo, come riferisce il Financial Times, riguarda il fatto che in questo caso sia la Banca Mondiale che il Fondo Monetario Internazionale si sono schierati dalla parte del Kazakhstan. Così, la crisi in atto non sembra avere scalfito in alcun modo l’arroganza dei banchieri occidentali, che continuano a ricattare non solo i governi dei loro paesi, ma anche quelli dei paesi in via di sviluppo.