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La crisi del modello del valore azionario

18 giugno 2009 0 commenti

Pubblichiamo una versione ridotta e adattata dell’intervento che Vincenzo (il prof. Comito) ha scritto per Sviluppo ed Organizzazione, la rivista del Centro di Ricerca sull’Organizzazione ed il Management dell’Università Bocconi, in distribuzione dal Settembre 2009. Lo alleghiamo anche in pdf (al solito, in copyleft) perchè lo possiate anche stampare.

the-newyorker1.Premessa La crisi in atto nell’economia e nella finanza ha fatto cadere in desuetudine molte  delle idee ricevute. In generale ha visto la messa in soffitta - almeno sul piano concettuale - del modello neoliberista che era diventato progressivamente, a partire dai primi anni ottanta,  il principio guida dell’economia dopo le difficoltà del precedente dominante modello fordista-keynesiano. Si era così assistito al trionfo politico della Tatchter in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti, nonché al prevalere  delle idee della scuola liberista-monetarista, associata in particolare al pensiero di  Milton Friedman. La crisi non ha mancato peraltro di manifestarsi anche a livello microeconomico.

Sul piano del management delle imprese la visione sopra citata si traduceva nel cosiddetto modello del valore azionario, progressivamente costruito intorno alla centralità del mercato finanziario e alla sua funzione di guida sostanziale del sistema industriale. Il modello, adottato da tempo dalla gran parte delle imprese in giro per il mondo affermava che le aziende dovevano essere gestite con l’unico obiettivo di massimizzare la ricchezza degli azionisti e quindi il valore delle stesse imprese sul mercato azionario.

2. La crisi  del concetto L’ex-general manager della General Electric John Welch era  considerato il più grande dirigente industriale della sua epoca, ma anche  il più determinato assertore  dell’idea della creazione del valore azionario, che aveva cercato di tradurre nella politica aziendale di tutti i giorni.  Quale non è stata così la sorpresa di molti nell’apprendere alcuni mesi fa dai giornali che egli si dichiarava ormai convinto che quella del valore azionario “ è la più stupida idea del mondo…esso è un risultato, non una strategia…i vostri punti di riferimento devono essere il vostro personale, i clienti, i prodotti”. Il manager ormai in pensione sottolineava in particolare come la misura del valore azionario spingesse le imprese in direzione di una visione di breve e brevissimo termine, trascurando invece le strategie che guardavano lontano.
Bisogna anche ricordare  che l’affermazione progressiva della teoria arriva con il parallelo svilupparsi sul mercato del fenomeno  degli investitori istituzionali, diventati, in particolare in quelli  anglosassoni, i veri padroni delle imprese trasformando così anche il precedente modello dell’impresa manageriale “pura”.

3. I punti deboli del criterio del valore azionario Sottolineiamo  soltanto brevemente alcuni degli inconvenienti che si incontrano nel volersi affidare pienamente al criterio della creazione del valore azionario.
Intanto, bisogna ricordare che fu Eugene Fama nel 1965 ad avanzare quella che è nota come l’ipotesi del mercato efficiente (IME), secondo la quale i prezzi di mercato delle azioni di un’impresa riflettono in ogni momento tutte le informazioni disponibili su quella stessa impresa.
La teoria è stata, nella sostanza, successivamente  respinta dalla maggior parte degli studiosi; è stato, tra l’altro, posto in rilievo come in realtà il mercato finanziario sia dominato dalle mode, come esso peraltro tenda a seguire i guru di turno, sviluppando più in generale comportamenti imitativi, come a volte esso reagisca all’istante molto più del dovuto a nuove informazioni che pervengono, mentre altre volte la reazione sia molto lenta e così via (Comito e Piccari, 2002). Sul terreno pratico, poi, le numerose bolle scoppiate  nel mercato negli ultimi anni hanno fatto vedere le difficoltà ad accettare con serenità una tale ipotesi. Così, misurare il valore azionario creato da una strategia appare molto difficoltoso, in certi momenti tutto il mercato fa dei balzi in avanti, in altri momenti esso è in generale depresso, annegando in un bagno generico i risultati specifici, positivi o negativi, ottenuti dalle singole aziende.

Per altro verso, ancorarsi all’andamento dei prezzi di mercato comporta un orientamento troppo marcato al breve termine. L’innovazione, la ricerca, le riorganizzazioni interne, che sono processi lunghi, possono portare risultati positivi spesso solo in un orizzonte lontano e vengono quindi scoraggiate da un tale approccio. Più in generale, il ricorso al criterio del valore azionario spinge le imprese ad  un’attenzione esasperata  verso le aspettative dei  mercati finanziari, trascurando quella dovuta all’organizzazione interna e ai suoi problemi.

L’altro importante punto debole del sistema fa riferimento  all’interrogativo se proprio le imprese devono privilegiare ad ogni costo gli interessi degli azionisti e non invece tenere nella dovuta considerazione quelli degli altri stakeholder che ruotano intorno all’impresa stessa. E’ un vecchio interrogativo che si è posto, ad esempio, a suo tempo e con molta maestria Amartya Sen. Si consideri, ad esempio, afferma l’autore, il caso degli istituti Savings and Loans statunitensi, gran parte dei quali sono falliti negli anni ottanta del XX secolo. Non si può sostenere che la responsabilità dei dirigenti avrebbe dovuto consistere nel tutelare solo gli azionisti e non anche i milioni di depositanti che avevano affidato i loro risparmi a tali istituzioni. E si potrebbe continuare.

4. Una crisi più ampia Per la verità, si può affermare  che  al cuore del problema non stia soltanto la teoria del valore azionario, ma che ci sia in gioco  molto di più. Intanto, bisogna sottolineare l’esistenza di almeno un triunvirato di teorie manageriali che sono radicate nei comportamenti di ogni impresa quotata (ne scrive Martin sul FT dell’11 Maggio 2009).
Il punto di riferimento generale delle imprese ha cessato di essere il mondo dell’economia reale, nel quale si parla di prodotti, di utili d’esercizio, di clienti e di fornitori, ma invece quello del mercato delle aspettative, riflesso nel valore di mercato dei vari titoli.
Il primo punto, ma solo il primo, è rappresentato appunto dalla teoria del valore azionario. Essa ci racconta che l’obiettivo fondamentale del management è quello di massimizzare il valore azionario dell’impresa, una combinazione di misure ricavate dal mercato delle aspettative (il valore del titolo) e da quello reale (dividendi).  Ma subito dopo, e collegata alla precedente, viene la teoria dell’agenzia: l’idea cioè che gli interessi del management - gli agenti - non sono allineati spontaneamente con quelli degli azionisti, perché gli stessi manager, come tutti gli esseri umani, mettono al primo punto i propri interessi invece che quelli degli azionisti. Viene poi l’idea che al fine di conciliare gli interessi del management con quelli degli azionisti bisogna collegare la remunerazione dei primi all’andamento del valore dei titoli azionari. Così il management delle imprese sarà pagato essenzialmente in relazione all’andamento delle aspettative, non dei risultati reali.

Va comunque sottolineato che sullo sfondo del tutto sta, negli ultimi decenni, anche la crisi del modello manageriale puro e l’affermarsi progressivo di uno schema di governance delle imprese basato alla base sugli investitori istituzionali e i loro obiettivi. Un altro punto fondamentale è quello relativo al fatto che una delle principali vie che sono state a suo tempo trovate  per creare valore si situa ancora a livello finanziario, con il suggerimento che  le imprese aumentassero in maniera molto importante il livello dell’indebitamento rispetto a quello dei mezzi propri nella struttura finanziaria dell’impresa.

Va  peraltro ricordato che i risultati della politica della creazione del valore alla fine sono stati comunque molto deludenti. La crisi dei primi anni del nuovo millennio legata ai nomi della Enron e della Worldcom ha indicato che per  dimostrare che si creava valore in realtà si truccavano i bilanci. La crisi in atto ha mostrato invece come nel solo settore delle istituzioni finanziarie la ricerca esasperata dell’aumento del valore azionario abbia portato alla fine in realtà a distruggere valore per diversi trilioni di dollari in poco tempo e a cancellare in pochi mesi almeno 500.000 posti di lavoro nel settore.

5. Business as usual? C’è a questo punto da osservare che, nonostante il rilevante clamore suscitato dalle dichiarazioni di Welch e dai molti articoli di stampa, specializzata e non, che ne sono seguiti,  poco o nulla sembra cambiato.
Tutte le strutture della governance tradizionale delle imprese stanno al loro posto, si continua a portare  avanti il concetto del riallineamento degli interessi di dirigenti e azionisti, le retribuzioni continuano a riflettere, almeno in teoria, la performance. Dietro questo atteggiamento sta sicuramente l’idea che, una volta passata la crisi, con qualche ritocco qua e là dell’edifico, tutto dovrà tornare come prima. Ancora verso la fine del mese di maggio del 2009 e i primi di giugno scoppia prima la crisi delle remunerazioni dell’alta dirigenza della Shell, poi quella della Mark’s & Spencer; di fronte alla riaffermazione  di una politica che continua a distribuire grandi bonus ai dirigenti anche in un momento in cui i risultati economici risultano in forte ridimensionamento, gli azionisti si ribellano e votano contro la decisione del management.

Quasi nessuno si accorge che l’edificio è a pezzi. Che un sistema che incoraggia il fatto che alcune persone di un’organizzazione sono pagate anche 500 volte di più di altre non regge più e che la fiducia nel mondo delle imprese e delle banche è crollata ai minimi storici. Basterà pensare ad incentivi un po’ perfezionati o non  si tratta invece di cambiare  il sistema in profondità? Se, come afferma Welch, il valore è creato dall’interrelazione tra i dipendenti, i clienti e i fornitori, perché premiare e in maniera spropositata solo alcuni dirigenti per i risultati veri o presunti ottenuti dall’organizzazione?

6. La teoria dell’agenzia E’ la teoria dell’agenzia che pone a suo tempo su basi più o meno scientifiche il collegamento stretto tra obiettivi dell’impresa,  ruolo del management e sua remunerazione, struttura finanziaria d’impresa.
La teoria, sviluppata a partire dal 1976 da Jensen e Meckling parte dal presupposto che l’impresa, in quanto proprietà degli azionisti, deve essere gestita con l’obiettivo fondamentale di massimizzare la ricchezza degli azionisti e quindi il  valore di mercato dell’impresa stessa. La seconda constatazione dei due autori è quella che in realtà il management, che nell’impresa a capitale diffuso gestisce in realtà l’impresa stessa, non tende spontaneamente a fare gli interessi degli stessi azionisti, ma semmai  esso tende a massimizzare quelli propri. Il punto è che, dicono i due autori, i meccanismi di mercato non riescono a contrastare tale situazione, al contrario di quanto sosteneva la teoria neoclassica. Né il mercato dei prodotti, né quello azionario, né la presenza di un consiglio di amministrazione, teoricamente nominato dagli stessi azionisti, né le verifiche delle società di certificazione di bilancio sono in grado di controbilanciare  tale inconveniente.

Ecco quindi che i principali suggerimenti di Jensen e Meckling, per riportare la situazione sotto controllo, sono, da una parte, quello dell’introduzione di incentivi monetari per il management legati ai risultati ottenuti in termini di massimizzazione del valore azionario, dall’altra quello di cambiare in misura rilevante la struttura finanziaria dell’impresa. Mentre il management tende in effetti normalmente a dotare l’impresa di un alto livello di mezzi propri e quindi di un basso livello di debiti, perché in questo modo esso riesce a mantenere un importante  grado di autonomia dai mercati finanziari, ciò che lo porta anche peraltro ad una gestione “pigra” dell’azienda, l’introduzione di un alto livello di debiti cambierebbe sostanzialmente la situazione. Il management sarebbe costretto a correre molto di più, perché deve riuscire a far fronte ai debiti alla scadenza e questo lo spingerebbe appunto ad innescare delle azioni che porterebbero ad aumentare il valore dell’impresa.

7. Cosa sta cambiando e cosa dovrebbe cambiare Con la crisi sono tornati in discussione i precedenti equilibri instabili che si erano messi in opera su questo fronte a partire dalla fine degli anni settanta. Come è noto, da una parte nei paesi anglosassoni era entrato in crisi il modello dell’impresa manageriale pura, con una dispersione dell’azionariato tra una molteplicità di azionisti, nessuno dei quali aveva un qualche potere di decisione e nel quale la gestione era interamente nelle mani del management; dall’altra, nell’Europa Continentale, era stata quasi liquidata la presenza del capitale pubblico all’interno del mondo delle imprese, così come  erano state ridimensionate altre forme “eccentriche” di proprietà-controllo, come quelle delle imprese a capitale misto e di quelle cooperative. Si era affermato, invece,  il capitalismo degli investitori istituzionali, con i fondi comuni e i fondi pensione e, più recentemente, con gli hedge fund e i fondi di private equity.
Ma la crisi ha mostrato che questa ultima forma, con l’enfasi posta sul valore azionario e su di un alto livello di indebitamento, nonché con gli incentivi legati ai relativi risultati, non ha funzionato molto bene e molto a lungo. Ci troviamo, a questo punto, davanti a un paesaggio di rovine, nel quale resta piuttosto saldamente in piedi soltanto il sistema  del capitalismo familiare, che ha visto una grande espansione negli ultimi decenni, in relazione al successo delle imprese asiatiche, molto orientate a tale tipo di proprietà-controllo delle imprese, nonché ad un certo revival dello stesso negli Stati Uniti.

Un aspetto specifico della governance che vogliamo appena sottolineare riguarda il tema dei  consigli di amministrazione e della loro composizione (ne parla Surowiecki sul New Yorker del 1 Giugno 2009). Anche il loro ruolo può, dopo la crisi,  essere francamente messo in dubbio; essi non hanno visto e sentito niente, hanno accettato tutte le decisioni del management senza discutere; ridicola si è poi anche  mostrata, come era peraltro da pensare anche prima, la figura del cosiddetto amministratore “indipendente”.

Vincenzo Comito, “La crisi del modello del valore azionario”  2009