I minimi comuni delle crisi bancarie, ed un’idea di riforma
Una volta le crisi finanziarie avevano soprattutto origine dal fatto che le banche prestavano i soldi ai governi e che questi non li restituivano; si trattava di crisi cosiddette “sovrane”. E in effetti nel medioevo e nel rinascimento, per ricordare soltanto dei casi italiani, si sono avute, tra l’altro, la grave crisi bancaria di metà Trecento delle tre grandi banche fiorentine, quelle dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli, invischiate in compromettenti rapporti con molti dei potenti dell’epoca, rapporti che ad un certo punto le famiglie proprietarie degli istituti citati non sono state più in grado di governare. Lo stesso accadde ai Medici, la più nota ma certo non la più grande casa bancaria di quel periodo, ebbe successivamente gravi problemi, tra l’altro, con i re d’Inghilterra; infine a Genova - che finanziava i re di Spagna e le sue conquiste - di fronte alle ripetute dichiarazioni di bancarotta dei sovrani di quel paese, sul finire del 1620 si trova costretta a ritirarsi sostanzialmente dal business bancario e da allora e per i secoli futuri l’Italia è uscita dai grandi giochi finanziari ed economici del mondo.
I governi dovevano allora, tra l’altro, pagare tassi di interesse più elevati di quelli che dovevano sopportare invece gli uomini d’affari, perché prestare ai primi era considerato molto più rischioso. Così - ad esempio - Carlo VIII di Francia fu obbligato ad accettare sino al 100% annuo di tasso di interesse su dei prestiti di guerra che aveva ottenuto da alcuni banchieri italiani, mentre nello stesso periodo i mercanti del nostro paese pagavano soltanto il 5-10%.
Oggi la situazione appare rovesciata; le crisi nascono molto di frequente dalle difficoltà delle banche e dell’economia e sono gli stati che devono correre al soccorso, mentre gli stessi governi, per rifornirsi di denaro, pagano tassi di interesse inferiori ed, a volte, anche molto inferiori a quelli degli imprenditori privati.
E’ questa una delle conclusioni che si possono trarre da una interessante e molto lodata ricerca pubblicata nel novembre di quest’anno dalla Banca d’Inghilterra, che porta il titolo Banking on the State (qui in pdf) e a cui hanno contribuito due funzionari dell’istituto, A. G. Haldane e P. Alessandri.
Incidentalmente, Piergiorgio Alessandri è uno dei tanti giovani promettenti che, non trovando adeguate prospettive di lavoro nel nostro paese, sono obbligati a emigrare impiegando così il loro talento altrove, mentre trovare notizie di ricercatori stranieri che vengano a svolgere delle attività da noi appare piuttosto inconsueto, anche se non impossibile.
Un’altra ricerca, questa volta di due studiosi statunitensi, C. M. Reinhart e K. S. Rogoff, dal titolo This time is different. Eight centuries of financial folly, pubblicata sempre quest’anno dalla Princeton University Press, ci ricorda che mentre nei paesi ricchi le crisi degli stati sono oggi diventate una rarità, esse continuano a colpire fortemente i paesi poveri e non sembrano aver voglia di lasciare la presa. Le crisi di tipo bancario restano invece diffuse in tutte le aree del globo.
Ma i due testi citati sono una fonte preziosa per altre informazioni e valutazioni sulla situazione attuale e su quella passata. Riprendiamo brevemente soltanto alcuni spunti. Il testo di Reinhart e Rogoff sostiene che le crisi viste in una prospettiva storica, possono essere anche molti differenti l’una dall’altra, ma che esse presentano anche, di solito, alcune caratteristiche comuni.
Esse intanto accompagnano la storia dell’umanità sin da tempi molto lontani. Di più, per molti aspetti, le crisi più recenti ripetono in gran parte delle modalità già vissute in passato. I dettagli possono cambiare di volta in volta, ma gli elementi di base restano in gran parte i medesimi. Un altro e importante elemento comune alle varie crisi che si sono succedute nel tempo appare costituito dall’accumulazione eccessiva di debiti. Spesso dei livelli gonfiati di prestiti finanziano dei boom che poi finiscono in malo modo.
Va inoltre ricordata la non facile prevedibilità della gran parte dei crack, anche perché la fiducia, elemento essenziale nella finanza, è un sentimento molto volubile nel tempo e difficilmente analizzabile.
Un ultimo elemento caratteristico appare quello che i processi di liberalizzazione finanziaria e quelli di difficoltà finanziarie vanno normalmente di pari passo. Peraltro, di questo fatto ci eravamo già accorti da soli.
Del testo di Haldane e Alessandri colpisce immediatamente la stima dell’intervento finanziario dei governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e paesi dell’area dell’euro, che ha raggiunto ad oggi i 14 trilioni di dollari (cifra che secondo noi potrebbe anche esser sottostimata), se consideriamo insieme iniezioni di capitale e di liquidità, garanzie prestate, acquisti di titoli, assicurazione sui depositi; si tratta di un livello quantitativo mai raggiunto neanche lontanamente durante le crisi passate e pari nel presente a circa il 25% di tutto il pil mondiale.
Tali cifre sono da collegare, tra l’altro, al fatto che il livello delle attività del settore bancario è cresciuto enormemente nell’ultimo secolo. Così nella ricerca viene esaminato il caso della Gran Bretagna: il totale delle attività di bilancio del settore bancario del paese è passato da un livello di circa il 30-40% del pil nel 1880 a più del 550% nel 2007, aumentando così enormemente la montagna dei rischi da coprire in caso di difficoltà. D’altro canto, il livello dei fondi propri, che servono da cuscinetto contro gli stessi rischi, è sceso nello stesso periodo, per quanto riguarda il settore bancario e come percentuale del totale delle attività, dal 24% degli Stati Uniti e dal 16% della Gran Bretagna, a circa il 5,6% per i due paesi in tempi a noi vicini.
Tutto questo si è accompagnato ad un grande aumento della redditività media del sistema –le due cose sono, almeno in parte, collegate. Così il rapporto tra utili e mezzi propri del settore bancario è passato, per la Gran Bretagna, da una media di circa il 6% nel periodo che va dal 1921 alla seconda metà degli anni sessanta ad una media che si aggira intorno al 20% dai primi anni settanta sino al 2006.
E’ aumentato nel frattempo fortemente anche il livello della concentrazione bancaria.
Ci si potrebbe chiedere quale riforma sarebbe auspicabile ai giorni nostri. Da molti mesi si discute ormai della possibile ristrutturazione di un sistema finanziario che ha dato tante cattive prove di se e di cui i due testi citati ci ricordano alcuni dei problemi; sino a diverse settimane fa in molti avevano peraltro ormai perso la speranza che fossero mai approvate dai governi riforme adeguate alla necessità, di fronte ad uno spettacolo di dibattiti inconcludenti e di evidente forte presa sugli stessi politici degli argomenti avanzati dall’establishment bancario, in genere fortemente ostile a qualsiasi cambiamento.
Ma ora da una parte prestigiosa, sia pure molto minoritaria, dello stesso establishment viene qualche accento fortemente diverso. Così il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King e quello che è il più autorevole esperto finanziario degli Stati Uniti - nonché consigliere economico di Obama - Paul Volckler, affermano l’opinione che non si esce dalle difficoltà se non si ridimensionano drasticamente le grandi banche. Questo si può fare, affermano i due specialisti, distinguendo nettamente in particolare le attività proprie del settore, che sono quelle che servono all’economia e che si possono sintetizzare nella raccolta dei depositi e nei prestiti alle imprese e ai privati - creando così quelle che vengono chiamate delle narrow bank, soggette anche in futuro a tutte le tutele di parte pubblica - da quelle di tipo speculativo e di trading in proprio, che invece verrebbero abbandonate al loro destino.
L’idea non piace molto, ovviamente, al settore bancario e neanche ai governi, sia statunitense che britannico, che hanno espresso i loro dubbi. Ma nei loro piani non potranno ora non tenerne conto in qualche modo conto, data l’autorevolezza di chi ha espresso l’opinione sopra citata e la presa che i due personaggi hanno sull’opinione pubblica. Una alternativa al piano Volckler-King viene espressa da altri esperti sia britannici che statunitensi, tra i quali distinguiamo il più autorevole commentatore del Financial Times, Martin Wolf. Essa consiste, invece, nell’obbligare il sistema bancario ad aumentare in misura rilevante il livello dei mezzi propri, con specifico riferimento poi ad aumenti proporzionalmente più elevati per le grandi istituzioni, nonché con la creazione di ulteriori cuscinetti anticiclici di capitale, l’avvio di un’agenzia di protezione dei consumatori, ecc..
Staremo a vedere. Il punto è che se non si interverrà presto e in maniera adeguata, è molto facile che una nuova crisi si manifesti in tempi brevi. Sui bollettini economici si discute ormai soltanto di quale sarà l’area nell’ambito del vasto mondo finanziario in cui essa arriverà. Va comunque sottolineato che, in ogni caso, nessuno degli esperti citati si interroga veramente sugli obiettivi economici e sociali che un sistema finanziario rinnovato dovrebbe prioritariamente perseguire.