Mi chiamo Gump. Forrest Gump
Ve lo ricordate? Forrest Gump, il Marcovaldo americano, va ad aiutare l’amico, reduce dal Vietnam, a pescare gamberi in Louisiana. Il film, in quella parte, raccontava di una corsa all’oro “arancione”, quello dei gamberi, di cui forse solo gli spettatori “addetti ai lavori” si erano accorti. Il Golfo del Messico negli anni 90’ è stata una Eldorado della pesca.
Lo e’ ancora, ma gli apporti di nutrienti che arrivano dal Mississippi River – che non è un rigagnolo, ma il fiume che drena buona parte degli Stati Uniti – sono tali e tanti da creare una “Dead Zone”, che non è un film horror di Abel Ferrara, ma una zona, dove l’ossigeno è talmente consumato dai processi biogeochimici che nulla più ci vive se non quei batteri che di ossigeno non hanno bisogno. E’ una delle più grandi dead zone del mondo, studiata in lungo e in largo dagli accademici americani. Provare per credere. Cercate su Google.
Non c’è sovrapposizione con la “tragedia” del Golfo del Messico, ovvero, la marea nera fuoriuscita da una piattaforma petrolifera affondata alcuni giorni fa e che sta raggiungendo le coste della Louisiana. Non c’è sovrapposizione geografica, ma etica: è sempre il solito problema: ciò che accade in mare è sempre distante dalla nostra sfera “tangibile”, dal nostro “reale”.
Se per noi il mare rimarrà sempre così “distante”, presto dimenticheremo questo incidente, come abbiamo già rimosso quanto successo neanche due settimane fa sulla barriera corallina australiana. E in mare ci si permetterà di fare sempre tutto senza troppo badarci.
Incidenti come questi sulla terraferma, non sarebbero così malamente gestiti e facilmente dimenticati.
Se guardassimo queste maree nere imbrattare la superficie del mare con gli occhi “stupidi” di Gump, di Forrest Gump, non ce ne dimenticheremmo così facilmente.