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Agricoltura e clima dopo Copenaghen

11 gennaio 2010 0 commenti

Delusione per chi si aspettava da Copenhagen una unità di intenti nella lotta ai cambiamenti climatici. I grandi della terra non sono riusciti a superare diffidenze ed incertezze per arrivare ad un accordo globale sugli obiettivi di riduzione delle emissioni in grado di contenere l’innalzamento della temperatura atmosferica al di sotto dei 2 gradi entro il 2020. Fino all’ultimo, infatti, si è sperato di varare un nuovo trattato, ma alla fine si è arrivati solo alla messa a punto di un documento politico che non ha ottenuto il consenso necessario per considerarsi tale. Con il sostanziale fallimento del negoziato, l’unica soluzione individuata è stata quella di una decisione “che prende nota” (“takes note”) dell’accordo di Copenhagen.
Quest’ultimo deve essere quindi considerato come una sorta di dichiarazione politica allegata alla decisione. Tale procedura costituisce una novità nell’ambito del sistema negoziale dell’UNFCCC e lascia aperti molti dubbi soprattutto dal punto di vista giuridico visto che, ai sensi della decisione 55/488 dell’assemblea generale, la formulazione “prendere nota” non costituisce approvazione ma solo “presa d’atto”. Il risultato è che gli impegni dell’accordo devono essere considerati quindi fuori dalla Convenzione e saranno validi solo per chi sceglie di aderirvi.
Il risultato della conferenza di Copenaghen va, dunque, considerato come un accordo politico non adottato dalla COP, ma appoggiato dalla maggioranza dei Paesi (soprattutto da quelli politicamente ed economicamente più potenti). E’ evidente, quindi, che sarà necessario lavorare molto per risolvere le questioni in sospeso e arrivare alla firma di veri e propri trattati nel prossimo futuro. Attualmente, infatti, l’accordo di Copenhagen appare ricco di enunciazioni ma non contiene alcun obiettivo vincolante. Spicca, tra laltro, che, nel testo dell’accordo, il Protocollo di Kyoto sia menzionato solo due volte (quasi a sancirne la morte politica). A tener accesa la speranza su un esito positivo del negoziato mondiale sul clima restano le intenzioni dichiarate e quello che è l’unico impegno finanziario concreto adottato a Copenhaghen, il Green Climate Fund, il cui obiettivo è quello di aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adottare misure di mitigazione e adattamento (30 miliardi di dollari per il periodo 2010-2012 più l’obiettivo di giungere a 100 miliardi di dollari entro il 2020).
In questo contesto, è’ abbastanza comprensibile che, viste le difficoltà diplomatiche, la conferenza di Copenhagen non sia riuscita soddisfare le attese del mondo agricolo che, invece, si aspettava molto. Sembravano infatti maturi i tempi per la messa a punto di una strategia climatica caratterizzata da un quadro politico stabile, ma al tempo stesso flessibile, con l’introduzione di specifici meccanismi per offrire incentivi e remunerare gli sforzi delle imprese agricole; per garantire e stabilizzare la loro situazione di fronte alle incertezze relative all’applicazione delle misure di adattamento e mitigazione. Il protocollo di Kyoto, infatti, ha rappresentato un importante passo verso una maggiore consapevolezza del ruolo del settore agricolo in ambito ambientale e climatico, ma ora servono specifiche politiche, sia a livello comunitario che mondiale, in grado di modificare una paradossale situazione di empasse in cui, nonostante il ruolo positivo costantemente ed universalmente riconosciuto al settore primario, a tutt’oggi, non sono state ancora adottate adeguate soluzioni per attribuire anche un valore economico ad attività che presentano un elevato livello di utilità sociale ed ambientale.
Come riconosciuto anche dalla FAO, l’agricoltura è uno dei settori più sensibili al clima e, perciò, potenzialmente più vulnerabile. Le attività agroforestali sono fortemente subordinate alle condizioni naturali e sono le sole attività economiche la cui efficienza dipenda in modo diretto da condizioni meteorologiche incontrollabili. Per questo il cambiamento climatico deve essere considerato un fattore di pressione in grado di comprometterne la solidità economica e la competitività.
A questo proposito va ricordato che un importante contributo alle strategie climatiche da parte dell’agricoltura europea è già in corso perché le imprese hanno, da tempo, effettuato un investimento su qualità, ambiente e clima. I costi necessari per la garanzia di rispetto di elevati standards ambientali incidono in modo rilevante sulla competitività, anche a livello internazionale, delle imprese europee soprattutto nel confronto con le aziende operanti in Paesi che, ancora, ritengono di poter rimandare queste scelte. Per bilanciare responsabilità e ruolo positivo dell’agricoltura occorre che alle attività agricole, oltre ad essere imputata una responsabilità come fonti di emissione (il trend delle emissioni agricole, tra l’altro, è in diminuzione) venga dunque riconosciuto anche il ruolo positivo offerto dallo strumento dei carbon sinks attraverso specifiche misure. Inoltre, nonostante il ruolo del settore agricolo nell’ambito delle strategie climatiche sia perfettamente compatibile con il modello dell’agricoltura multifunzionale europea, la P.A.C. non può rappresentare l’unica risorsa a disposizione per le imprese agricole europee; occorre individuare nuove risorse finanziarie da convertire in incentivi per diffondere tecnologie e sistemi moderni ed innovativi in grado di realizzare concreti risultati di mitigazione e di adattamento.
Ora, dopo Copenhagen, sarà da vedere come ogni singolo Paese intenderà procedere ed è probabile che in una situazione come quella attuale, caratterizzata dalo stallo della negozizione internazionale, ci sarà chi deciderà di investire ancora più decisamente sulla green economy per anticipare i concorrenti e chi, invece, opterà per posizioni di difesa, assumento atteggiamenti attendisti. Ciò che è chiaro, comunque, è che in questa fase molto sarà lasciato alle iniziative volontrarie dei singoli Stati e se l’Italia vorrà seguire le intenzioni dell’UE, che, almeno apparentemente, restano quelle di mantenere una leadership nell’ambito del negoziato climatico internazionale, è lecito attendersi un atteggiamento più intraprendente e coraggioso rispetto a quanto è avvenuto sino ad ora. Forse è giunto il momento di cambiare marcia e piuttosto che lo stanziamento di fondi per fronteggiare le inadempienze al protocollo di Kyoto (multe o ricorso ai meccanismi flessibili), dovremmo cominciare a mettere a punto, in un’ottica preventiva ed operativa, strumenti economici e remunerativi per le imprese sul territorio, individuando, ad esempio, nuovi strumenti in grado di riconoscere il maggiore valore ambientale che le produzioni agricole a chilometro zero assicurano rispetto a modelli produttivi basati sulla filiera lunga. Questi strumenti potrebbero essere rappresentati dalle certificazioni delle emissioni di CO2 che sono in grado di internalizzare, grazie ad un maggiore prezzo di mercato, i benefici esterni che le filiere corte producono sul territorio, sull’ambiente e sulla popolazione. In questo modo si raggiungerebbe il doppio obiettivo della valorizzazione delle produzioni locali di qualità e del riconoscimento degli sforzi in campo ambientale sostenuti dagli imprenditori agricoli.
Si tratterebbe di azioni nuove e chiaramente rivolte alla concretizzazione del ruolo del settore agroforestale nell’ambito delle strategie di mitigazione e di adattamento. Ruolo che avrebbe anche la funzione di fungere da volano per altri settori.
In questo senso, si tratta anche di non restare indietro rispetto all’iniziativa di altri Paesi che da qualche tempo stanno ricercando forme di valorizzazione di questo tipo. Si pensi, ad esempio, alle linee guida per un adeguata ed oculata scelta dei prodotti agroalimentari recentemente messe a punto dallo Swedish national food administration, dalle quali, con ogni probabilità, prenderà vita la prima etichetta “eco-friendly” europea. Ma se la Svezia sarà il primo Paese a poter stamapre sui propri prodotti un etichetta di “certificazione climatica”, va anche segnalato che a latere dei negoziati di Copenhagen, Australia, Canada, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Ghana, Irlanda, Giappone, Malesia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito, USA, Uruguay e Vietnam, hanno siglato un accordo denominato “Joint Ministerial Statement” per la creazione di una alleanza nel settore della ricerca sulle emissioni di gas effetto serra di origine agricola. Nel riconoscere il legame tra agricoltura e sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, gli Stati firmatari ritengono, infatti, necessario compiere passi in avanti nella ricerca di sistemi che permettano di aumentare il potenziale di sequestro di carbonio dei suoli, in modo da contribuire attivamente alla strategia di mitigazione. Per l’Italia sarà dunque importante non accumulare ulteriori ritardi in questo senso e riattivarsi per giocare un ruolo più attivo, sia attraverso le politiche nazionali, sia nell’ambito nelle future riunioni dei gruppi di lavoro della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) che si terranno a Bonn e nel prossimo incontro della Convenzione (COP16), che si terrà tra un anno in Messico.