Vertical farms, no grazie
Una delle maggiori responsabilità attribuibili all’urbanistica, può senz’altro essere considerata la significativa riduzione dell’uso del suolo agricolo rispetto alle attività di cementificazione e consolidamento di aggregati metropolitani, con una fitta infrastruttura di servizi estranei. Tutto questo,di fatto, ha portato ad esempio nell’area padano-veneta, ad un consumo del suolo negli ultimi dieci anni di circa 130.000 ettari, che rappresenta il 5% della superficie coltivata ed oltre il 3% del territorio del Nord.
A questa situazione, gli urbanisti propongono oggi un’altra soluzione facendosi interpreti del problema planetario dell’emergenza cibo che, adattata al nostro paese, rischierebbe di apparire ridicola se non fosse dibattuta nelle aule universitarie. Si tratta, infatti, di erigere decine e decine di vertical farms capaci di sostituire campi coltivati e paesaggi agricoli che appartengono alla multiforme morfologia del nostro territorio, con ciò assegnando ancora una volta, alla “coppia” asfalto e cemento, il ruolo di sostenere lo sviluppo di attività che, come la coltivazione dei campi e l’allevamento di animali, sono alla base del nostro habitat.
Immaginiamoci il significato di far la spesa in un appartamento dell’ultimo piano di un grattacielo piuttosto che in un farmer market: sostituiremmo ad un territorio pensato, lavorato, organizzato anche per produrre ambiente e qualità della vita, un cubo artificiale che ci isola dalla natura e dalla cultura che il cibo rappresenta in termini di identità e tradizione. Va bene forse per la coltivazione di OGM, ma resta difficile pensare di acquistare un buon formaggio Grana o un prosciutto di montagna nell’edificio dell’isolato accanto, che una variante urbanistica avrà approvato come “zona agricola ad incremento verticale”.