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Perchè non si possono (ancora) coltivare gli OGM

10 febbraio 2010 0 commenti

La sentenza del Consiglio di Stato, con cui l’azienda agricola Silvano Dalla Libera – che è anche vicepresidente di Futuragra – ha ottenuto l’annullamento dell’atto con cui il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha dichiarato di non poter procedere all’istruttoria in ordine alla richiesta di autorizzazione alla messa a coltura di varietà di mais OGM, in carenza delle norme regionali che dovrebbero disciplinare e garantire la coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e transgeniche, merita qualche chiarimento. Infatti, da più parti è stato dichiarato che da ora in avanti sarà sempre possibile coltivare mais OGM in Italia, ma le cose non stanno proprio così.
Innanzitutto, il Consiglio di Stato ha stabilito che la richiesta presentata dall’azienda agricola che vuole coltivare mais OGM in Friuli Venezia Giulia è, in astratto, accoglibile – stante il principio europeo della coltivabilità degli OGM se autorizzati – e che si tratta di un procedimento di esclusiva competenza statale. Perciò il Consiglio ha ordinato al MIPAAF di concludere il procedimento, entro un termine di 90 giorni. In particolare, ciò che sottolinea il giudice amministrativo è che la mancanza dei piani di coesistenza regionali non può costituire un ostacolo al rilascio della messa a coltura. Questo, però non significa in alcun modo che il MIPAAF sia obbligato a concedere questa autorizzazione.
Il nostro ordinamento, infatti, con il decreto legislativo 24 aprile 2001, n. 212, prevede che la messa a coltura dei prodotti sementieri sia soggetta ad una specifica autorizzazione (articolo 1, comma 2), che mira a garantire i prodotti sementieri tradizionali dal contatto con quelli OGM e che questi non arrechino danno biologico all’ambiente circostante, tenuto conto delle peculiarità agro-ecologiche, ambientali e pedoclimatiche.
Si tratta di un provvedimento che il MIPAAF deve rilasciare di concerto con il Ministero dell’ambiente e con quello della salute, previo parere della Commissione per i prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate (articolo 1, comma 3, d.lgs. n. 212/2001). In particolare, questa Commissione dovrebbe indicare le condizioni tecniche da seguire nella messa a coltura di sementi OGM.
In ogni caso, chi vuole coltivare sementi OGM, deve munirsi dell’autorizzazione, onde evitare di essere sanzionato con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni o dell’ammenda fino a € 51.700, che si applica anche in caso di revoca o sospensione dell’autorizzazione e con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 7.600 a € 46.500 per chi non osserva le prescrizioni stabilite nel provvedimento di autorizzazione.
Anche volendo prescindere dagli aspetti più strettamente legati alla coesistenza – che si riferisce alla possibilità, per gli le imprese agricole di scegliere tra colture GM, produzione convenzionale e biologica, nel rispetto degli obblighi regolamentari in materia di etichettatura o di standard di purezza – in ordine ai quali la Corte Costituzionale (sentenza n. 116/2006) ha dichiarato la competenza regionale a disciplinare con legge i piani di coesistenza, rimane aperta la questione della compatibilità tra di esse, che, invece, il futuro provvedimento del MIPAAF dovrebbe considerare nell’autorizzare o meno la messa a coltura del mais OGM.
In conclusione, dal provvedimento del MIPAAF è possibile attendersi tanto un diniego di autorizzazione alla messa in coltura, ad esempio, per motivi legati all’integrità delle coltivazioni tradizionali ed al rischio di danno biologico all’ambiente circostante, quanto l’imposizione di specifiche condizioni di coesistenza da rispettare nelle fasi di coltivazione.
Inoltre, occorre considerare, sempre ai fini del provvedimento ministeriale sull’istanza di autorizzazione, la necessità di ottemperare alla serie di adempimenti previsti dalla speciale disciplina sementiera. E’, infatti, la Commissione per i prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate, che, una volta costituita su base paritetica Stato – Regioni, come sopra accennato, oltre a dover rilasciare il parere sull’istanza di autorizzazione di messa a coltura, deve verificare l’assenza di rischi per la salute umana o per l’ambiente, anche con riguardo alle eventuali conseguenze sui sistemi agrari, tenuto conto delle peculiarità agro ecologiche e pedoclimatiche. Tali valutazioni, richieste dall’articolo 20 bis della legge 25 novembre 1971, n. 1096, devono essere svolte non soltanto in riferimento ai principi della normativa comunitaria in materia di emissione deliberata nell’ambiente (direttiva 2001/18/CE), ma anche al principio di precauzione, alla Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, al protocollo sulla biosicurezza di Cartaghena.
La stessa Commissione, poi, esprime parere vincolante alla Commissione, prevista dall’articolo 19, comma 5, della legge n. 1096/1971, che coadiuva il MIPAAF in ordine alla domanda di iscrizione all’apposito Registro di varietà, per quanto riguarda l’iscrizione di varietà di sementi geneticamente modificate, nell’apposita sezione del Registro stesso.
Si evince, dunque, come, sia pienamente applicabile la legge n. 1096/1971, di disciplina dell’attività sementiera, la quale assegna al MIPAAF la possibilità di richiedere alla Commissione europea l’autorizzazione a vietare, in tutto o in parte del territorio nazionale, la commercializzazione delle sementi geneticamente modificate, se è accertato che la coltivazione di una varietà iscritta al Catalogo comune europeo possa nuocere a quella di altre varietà o specie; oppure se possa presentare un rischio per la salute umana o per l’ambiente, anche con riguardo alle eventuali conseguenze sui sistemi agrari, tenuto conto delle peculiarità agro ecologiche e pedoclimatiche (articolo 20 bis, di recepimento dell’articolo 16 della direttiva 2001/53/CE). Ai sensi di questa legge, inoltre, il MIPAAF può chiedere alla Commissione europea di essere autorizzato a vietare l’impiego di una varietà OGM iscritta nel Catalogo comune qualora, ad esempio, sia appurato che la coltivazione di tale varietà possa risultare dannosa dal punto di vista fitosanitario per la coltivazione di altre varietà o specie, oppure qualora in base ad esami ufficiali in coltura si sia constatato che la varietà non produce, in nessuna parte del territorio di tale Stato, risultati corrispondenti a quelli ottenuti con un’altra varietà comparabile ammessa nel suo territorio o se è notorio che la varietà, per natura e classe di maturità, non è atta ad essere coltivata in alcuna parte del territorio di detto Stato membro (articolo 20 ter, di recepimento dell’articolo 18 della direttiva 2001/53/CE).
Proprio facendo leva su queste prerogative, la Commissione europea, con la decisione 2006/338/CE, dell’ 8 maggio 2006, ha autorizzato la Repubblica di Polonia a vietare sul proprio territorio l’impiego di alcune varietà di granturco iscritte al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole per ragioni legate a fattori climatici ed agricoli.
Quanto appena detto rappresenta, in conclusione, una ulteriore possibilità di definizione del procedimento in contestazione, che va al di là della operatività della clausola di salvaguardia (articolo 23 della direttiva 2001/10/CE).