L’Africa: lo specchio del mondo
Quella “stultifera navis” sulla quale, sul finire del Medioevo, venivano imbarcati i folli, i diversi, quelli che non vivevano secondo le regole, per mandarli altrove, verso approdi improbabili, dal momento che il rifiuto che li allontanava era presente ovunque e li condannava quindi ad una perenne e insensata navigazione, sembra tornare ad apparire nella nebbia dei nostri porti ed a turbare il sonno delle persone “ragionevoli” e “per bene”; anche se il suo carico oggi è diverso. I suoi passeggeri non sono più quelle persone che ci turbano perché sono al di là di quel sottile confine che separa la normalità dalla follia, ma sono poveracci, scarti del consumismo globale. La loro disperazione ci turba al pari della follia, perché è una condizione in cui, più o meno inconsciamente, anche noi temiamo di poter cadere.
Il rifiuto della loro miseria, spinto a volte fino al disprezzo o al cinismo dei “respingimenti”, svela una inconscia consapevolezza della fragilità della nostra condizione di abitanti privilegiati del pianeta; emerge la paura di dover condividere e perdere i privilegi acquisiti; è come vedere in uno “specchio della verità” l’altra faccia del nostro benessere, costruito sulla forza, su una lunga storia di violenza e sfruttamento che per quieto vivere chiamiamo civilizzazione. Ma nascondere la realtà del presente non ci aiuta ad evitare i problemi; anzi il far finta di non vedere la incipiente scarsità delle risorse non rinnovabili su cui si fonda il nostro benessere e la crescita della massa di disperati ai quali continuiamo a sottrarre risorse preziose, ci prepara un futuro peggiore per noi e per il resto del mondo.
Se guardiamo dietro la realtà da dove provengono questi disperati, scopriamo il paradosso dell’Africa: il continente più ricco della Terra di risorse, che non riesce a sfamare i suoi figli, perché noi suoi nipoti, li abbiamo depredati e traditi. E sì, perché in Africa è nata la specie umana che poi si è diffusa in tutto il pianeta, e dall’Africa i paesi ricchi importano gran parte delle risorse che alimentano il nostro sistema economico, compresi gli sprechi, i vizi e gli sfizi.
Può sembrare il mio un facile moralismo, ma i dati ci inchiodano alla realtà.
Le distanze fra i più ricchi ed i più poveri aumentano sia su scala nazionale che su scala planetaria. Il 40% più povero dell’umanità riceve appena il 5% del reddito mondiale. Circa la metà della popolazione mondiale vive con meno di 2,5 $ al giorno. Di questa enorme schiera di poveri assoluti fa parte il 66% della popolazione africana, il 20% dell’Estremo Oriente, il 23% del Sud Est Asiatico, l’8% dell’America Latina, il 2% dell’Europa dell’Est, meno dell’1% della popolazione dei paesi industrializzati. Il 10% più ricco dell’umanità percepisce un reddito di circa 100 volte superiore al reddito del 10% più povero.
Fra le conseguenze più drammatiche di queste disparità c’è la mortalità infantile nei primi cinque anni di vita. La morte colpisce lo 0,6% dei bambini nei paesi industrializzati e il 18% dei bambini dell’Africa Sub-Sahariana. Ma anche all’interno delle stesse aree geo-politiche esistono enormi disparità; nella stessa Africa Sub Sahariana si passa dall’1,8% delle Isole Mauritius, al 3,5% di Capo Verde, fino a salire al 26% dell’Angola e del Niger e al 28% della Sierra Leone.
E intanto secondo la FAO il numero di persone che soffrono la fame ha ripreso a correre, toccando quest’anno il miliardo.
Secondo l’IFPRI (International Food Policy Research Institute) il Global Hunger Index, un indice che combina la percentuale di popolazione sotto-nutrita, il numero di bambini sottopeso e la mortalità infantile sotto i 5 anni, l’allarme peggiore viene proprio dai paesi di provenienza dei passeggeri di questi barconi della disperazione: Somalia, Etiopia, Ciad e Repubblica Democratica del Congo.
Come se non bastasse l’umanità ormai utilizza il 30% più risorse di quante la natura riesce a rigenerare, per cui il modello consumista non è proponibile per far uscire questi paesi dalla situazione critica in cui si trovano. E inoltre le drammatiche previsioni sui cambiamenti climatici che aggraveranno la povertà e la fame, non sembrano aver ancora convinto i grandi della Terra a dare nel prossimo vertice di Copenhagen risposte serie e definitive.
La nostra utopia questa volta è sognare un mondo in cui nessun paese produca il proprio benessere a scapito di quello di altri, ma ognuno sappia costruire la sua via di progresso utilizzando al meglio le risorse rinnovabili che la natura mette a disposizione sul suo territorio attraverso le tecnologie più appropriate. Un mondo dove nessun paese sia strozzato da un debito contratto per produrre un benessere che non c’è stato. Un mondo che sia un mosaico di culture, di energie, di tecnologie, di soluzioni e non terreno di conquista di un pensiero economico unico e colonizzatore. Un mondo dove l’uomo sia più importante delle merci, dove il motore dell’economia non siano i consumi ma la costruzione di sicurezza, benessere e felicità per tutti.
Si può ancora fare, anche se il tempo e la gravità dei cambiamenti ecologici globali corre veloce. Al di fuori di questo, attenzione, che quello specchio della verità potrebbe rompersi e trovarci anche noi dall’altra parte.
Alla prossima utopia.