Il clima cambia, la politica no.
Per due settimane, l’attenzione dei media mondiali è stata focalizzata sulla conferenza sul clima di Copenhagen, da cui tutti si aspettavano una risposta politica forte e seria agli allarmi lanciati dagli scienziati di tutto il mondo. Poi tutto si è perso giorno dopo giorno nei bizantinismi di trattative incomprensibili ai più e nell’incapacità dei politici di tutto il mondo di comprendere che oggi siamo davvero di fronte a un punto di svolta, e che sta a loro fare le scelte giuste per evitare un futuro carico di tragedie e difficoltà. Infatti il documento conclusivo di una delle conferenza sul clima più cariche di attesa si è risolto in una sorta di riconoscimento di ciò che la scienza afferma ormai da molti anni e con sempre maggiore certezza: che non si devono superare i 2°C di aumento delle temperature medie globali e che per far ciò le emissioni di gas serra devono essere ridotte di oltre il 50% entro il 2050.
C’era proprio bisogno che si riunissero capi di stato e di governo e rappresentanze politiche di ben 130 nazioni per concordare su ciò su cui la comunità scientifica concorda da oltre un decennio?
Non credo che la scienza abbia bisogno di una qualche legittimazione politica perché i suoi risultati vengano presi sul serio, piuttosto dovrebbe essere la politica a lasciarsi guidare dalla scienza quando tratta di questioni tecniche complesse come i cambiamenti climatici. Dalla conferenza di Copenhagen ci si aspettava infatti che i politici, preso atto dei ricorrenti allarmi degli scienziati, definissero strategie operative per il raggiungimento degli obiettivi e non la semplice enunciazione di questi ultimi. Non ha infatti alcun senso per politici il cui mandato ha la durata di pochi anni, limitarsi ad annunciare degli obiettivi per il 2050 senza dire che politiche adotteranno a partire da domani, per i prossimi 40 anni.
Suona particolarmente grave e ipocrita il documento, definito “Accordo di Copenhagen”, quando al punto 1 afferma “Noi sottolineiamo che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo. Noi enfatizziamo la nostra forte volontà politica di combattere urgentemente il cambiamento climatico” e poi continua al punto 2 dicendo “Noi concordiamo che tagli profondi alle emissioni siano necessari in accordo con la scienza…”. Il documento continua con una serie di importanti riconoscimenti, come la necessità di istituire un fondo per finanziare l’adattamento ed il trasferimento di tecnologie pulite verso i paesi poveri, per poi rinviare il dettaglio degli obiettivi e delle azioni a due tabelle in appendice, lasciate tragicamente in bianco.
Tutto ciò appare fortemente sconcertante ed irresponsabile soprattutto perché la totale assenza di interventi concreti viene a seguito di un generale riconoscimento della gravità del problema e dell’urgenza degli interventi. L’esito fallimentare della conferenza di Copenhagen dimostra la totale inadeguatezza del modello di democrazia dominante ad affrontare problemi globali che manifestano la loro gravità nel lungo termine. L’attuale modello di democrazia è dominato dallo strapotere dei mercati, che vivono alla giornata, entro orizzonti temporali brevi. Il problema climatico è stato affrontato fino ad oggi, dai paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyoto, secondo una logica utilitarista ed efficientista, con meccanismi compensativi come il mercato delle emissioni ed il trasferimento di tecnologie, che hanno prodotto effetti modesti e insufficienti, sebbene importanti per la penetrazione di nuove tecnologie.
Ma tutto questo non basta. Se si vuole uscire dall’ipocrisia e dall’impotenza dimostrata a Copenhagen dalla politica, bisogna avere il coraggio di mettere in discussione il modello consumista, basato sulla pretesa assurda di una crescita continua dei consumi. E’ necessario che i politici, con senso di responsabilità sia verso le nazioni più povere che verso le generazioni future, abbiano il coraggio di imporre all’enorme potere economico che ruota intorno alle energie esauribili, come il petrolio, il carbone e il nucleare, la rinuncia ai profitti dei pochi decenni che comunque hanno davanti, per accelerare l’avvento di una economia stazionaria nelle quantità di risorse prelevate dall’ambiente, che sappia crescere solo in qualità per produrre ed estendere il benessere a tutta la popolazione presente e futura. Come possono far questo politici che obbedendo alle regole del consumismo evocano la ripresa dei consumi per uscire dall’attuale crisi economica? Come possono far questo politici i cui consulenti economici che dovrebbero aiutarli a spegnere il fuoco sono coloro che con le loro illusorie farneticazioni di una crescita illimitata dei consumi lo hanno acceso?
Possiamo pensare che lo sviluppo sostenibile può affermarsi sulle sue sole forze? Certamente no. L’aporia dell’economia di mercato è che non esistono i mercati futuri: i futures sono il sostituto imperfetto dei mercati futuri, speculazione nell’acquisto di beni sui mercati futuri. Noi non possiamo chiedere al mercato di implementare un sentiero di sviluppo sostenibile in quanto i mercati futuri non esistono, soprattutto se si tratta di un futuro lontano. Il nostro è un mondo che vive alla giornata, che non pensa al futuro, perché pensare al futuro significa costruire legami sociali, alleanze intergenerazionali, che possono condizionare le proprie scelte e i propri consumi. I cambiamenti climatici non sono allora la causa ma l’effetto di un errore; errore che risiede nel sistema economico che domina il mondo, in particolare quello ricco che lo porta a modello anche per i paesi emergenti. E’ un modello in cui non è più l’uomo e la sua felicità l’obiettivo, ma la distruzione di risorse naturali per trasformarle in prodotto e quindi in capitali, in ricchezza, in potere. Obiettivo non è più la distribuzione delle ricchezze ma il loro accaparramento e il loro accumulo. I mercati, con le loro regole elevate al rango di presunte leggi, tengono ben saldo il timone, relegando l’uomo al ruolo di strumento con una duplice funzione di produttore e consumatore. Lo scopo non è il raggiungimento, ma la promessa di un benessere riposto nel consumo di sempre nuovi prodotti, un benessere che non deve mai essere raggiunto per poter mantenere acceso il desiderio di nuovi consumi.
Questo sistema giunto ormai ad un estremismo esasperante nell’accaparramento di risorse da parte dei paesi ricchi, condanna alla miseria perenne quelli poveri. Ha bisogno di una umanità con relazioni sociali deboli, in cui viene esasperata la competizione e l’esclusione. Il luogo di aggregazione per eccellenza non è la piazza, la casa, la famiglia, dove si possano scambiare valori, esperienze e costruire legami sociali, ma è il centro commerciale, dove la gente agisce non come gruppo legato da una condivisione di valori e di interessi, ma come sciame, guidato da comportamenti collettivi pilotati dal mercato. Ecco che accanto alla crisi dell’ecologia naturale cresce, come altra faccia della stessa medaglia, la crisi dell’ecologia umana.
Allora si può proporre come istituzione di riferimento lo Stato e non il Mercato. Ma anche lo Stato non è in grado di assecondare uno sviluppo sostenibile, perché il modello di democrazia attuale è di tipo elitistico-competitivo. L’orizzonte temporale è il breve termine. Non possono i politici caricare sugli elettori costi che ricadranno su cittadini futuri che come elettori ancora non esistono. Per sanare questa asincronia fra democrazia e problemi ambientali occorre cambiare il modello di democrazia, passando a una democrazia di prossimità, organizzata in forum deliberativi dove la società civile organizzata e correttamente informata viene chiamata ad esprimersi sulle questioni il cui orizzonte temporale oltrepassa la durata della legislatura.
L’utopia che oggi vi propongo di realizzare è la formazione di una opinione pubblica che facendosi carico di quella responsabilità che i politici hanno eluso a Copenhagen, si rifiuti di guardare inerme alla distruzione del futuro dei propri figli e cominci a dire dei No sempre più forti. No a quei politici che continuano a privilegiare interessi economici di parte rispetto agli interessi collettivi, proponendo centrali nucleari costose, pericolose e obsolete, o il carbone. Auspico che siano in tanti a stracciare i contratti con quelle compagnie energetiche che si gettano sull’affare aperto dal sostegno pubblico a queste tecnologie vecchie e inquinanti.
Ogni punto di svolta epocale, come i tanti del passato e come quello che stiamo vivendo, vede il “nuovo modello” innestarsi nello strapotere del “vecchio”, il nuovo sostenuto ancora da pochi, ma inevitabilmente destinato ad affermarsi. Il problema dei cambiamenti climatici è nel rischio di arrivare troppo tardi. Di fronte alla gravità dei cambiamenti climatici “qualsiasi cosa tu faccia sarà insignificante, ma è molto importante che tu la faccia” (Gandhi).
Alla prossima utopia.