Home » Andrea Masullo » editoriale, sostenibilità »

Il ricatto tarantino e l’economia criminale

3 agosto 2012 0 commenti

Ancora oggi che la conoscenza scientifica ha definito drammaticamente i nessi fra agenti inquinanti e patologie gravi, anche mortali, si ripete il cinico ricatto fra lavoro e salute, con il caso delle acciaierie ILVA di Taranto. Allora dobbiamo interrogarci sul senso del sistema economico che abbiamo costruito, sul senso del lavoro stesso.

Taranto anticaScopo primario dell’economia è la produzione e la diffusione del benessere. Dal momento che il benessere non può prescindere da una disponibilità minima necessaria di ricchezza, l’economia dovrebbe essere il sistema di regole e consuetudini che consentano la produzione e la distribuzione della ricchezza all’interno della società.

La ricchezza viene prodotta attraverso la trasformazione di risorse naturali in beni utili o come avviene in massima parte nell’economia consumista, in “beni di consumo”. Un bene utile per eccellenza è la salute, fondamento essenziale del benessere; è un bene che richiede un ambiente sano, servizi sociali, culturali, ricreativi, (parliamo sia di salute fisica che mentale), oggetti come una casa, un letto comodo, un sistema di riscaldamento per l’inverno, vestiti, cibo sano, ed altri beni di consumo.

Lo strumento per produrre tutto ciò è il lavoro, lavoro intellettuale e manuale dell’uomo, lavoro delle macchine. Il lavoro è anche il mezzo principale di distribuzione della ricchezza ed in tal senso diviene un diritto sancito dalla costituzione che recita solennemente all‘articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”

Ma allora, se il lavoro che è alla base del benessere produce morte e malattia, ci troviamo di fronte ad una grave contraddizione; all’articolo 32 la nostra Costituzione afferma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, ed allora il lavoro non può in alcun modo danneggiare la salute, né dei lavoratori, né di nessun altro cittadino.

Nasce un nuovo dilemma: se non ho un lavoro non posso garantirmi l’accesso a quei beni e servizi fondamentali per il benessere mio e della mia famiglia, ma se l’industria in cui lavoro semina tumori e malattie, ugualmente non riesco a garantire a me ed alla mia famiglia quel benessere che è a fondamento della società. Il dilemma è il seguente: lavoriamo per vivere e vivere bene, o viviamo per lavorare ad ogni costo?

Queste contraddizioni dimostrano che i Diritti Umani sono un unicum, ed il rispetto di uno di essi non può avvenire attraverso la negazione di altri diritti a noi stessi o ad altri soggetti. Per fortuna questa è una consapevolezza diffusa al punto che a livello europeo e nazionale esiste ormai una ricca legislazione che tutela la salute dei lavoratori e la salubrità dell’ambiente e solo una economia criminale può riprodurre l’antico ricatto fra salute e lavoro.

Taranto ILVAE’ triste sentire nei toni delle cronache di questi giorni una sottile ed ipocrita critica a dei magistrati che difendono i diritti costituzionali di tutti, quasi imputati di ridurre alla disoccupazione le decine di migliaia di lavoratori dell’ILVA, una impresa che si è impadronita di una intera città, rubandogli il mare, l’aria, la salute, la vita, in cambio di un lavoro offerto come un gesto magnanimo e non come un diritto costituzionale, non come uno scambio fra tempo, fatica in cambio di benessere.

E’ triste vedere tanti manifestare prigionieri di questa nuova schiavitù, del ricatto del padrone: “o la vita o la fame!”, come in un romanzo ottocentesco che drammaticamente rivive nel XXI° secolo. Che manifestino insieme operai e cittadini per una vita sana e libera da ricatti, per un ambiente salubre, per una città che torni ad essere una perla del Mediterraneo, per il diritto non ad un lavoro qualsiasi, ma ad un lavoro giusto, per il rispetto delle leggi che dovrebbero tutelare e garantire tutto questo!

E’ questa una utopia? Niente affatto! Lo è solo in questa economia criminale, che ha scambiato il mezzo con il fine, tradendo la sua stessa ragione di esistere.